Sparta l’enigma
di Valerio Massimo Manfredi - 06/04/2007
Il film 300 di Zack Snyder, tratto da un fumetto di Frank Miller, è visualmente travolgente, un capolavoro da quel punto di vista. Straordinario Leonida e affascinante la regina Gorgò, mozzafiato gli scenari e la tecnica narrativa, ma bisogna vederlo tenendo presente che per imparare la storia non si va al cinema bensì nelle università e nelle biblioteche.
Il film deve semplificare e al tempo stesso esasperare tutto per caricare al massimo i personaggi e le emozioni. Si dimentica quindi che a Sparta c’erano due re e non uno, che gli efori non erano quelle schifose creature rose dalla lebbra e dalla libidine del potere ma austeri signori che venivano regolarmente eletti da un senato. Che a Sparta non si buttavano i bambini menomati da una rupe, venivano abbandonati sulla montagna e, a volte, qualcuno anche si salvava. Serse poi non era quel giovanottone vagamente gay e pieno di piercing ma anche lui l’austero personaggio che vediamo nei rilievi di Persepoli e che non si è mai sognato di considerarsi un dio visto che era un monoteista convinto.
I persiani erano una grande civiltà che coltivava le virtù dell’onestà, del coraggio e della lealtà. E soprattutto non avevano né elefanti né rinoceronti da guerra e men che meno le bombe a mano.
Ma gli spartani erano veramente quello che il film rappresenta? Tolte le esagerazioni e le iperboli tipicamente cinematografiche, gli assomigliavano abbastanza, anche se il film non ha né il tempo né la voglia di dire cosa c’era dietro quell’eroismo quasi inumano.
Sparta era un dinosauro politico anche per i contemporanei. I due re erano entrambi della stirpe di Eracle, non di rado in contrasto fra loro. C’era un governo di cinque efori (ispettori) e una «gherousia» (senato) di 28 membri. Sparta aveva un’assemblea dei cittadini, però solo consultiva, e una società dalla struttura rigidamente piramidale, articolata in tre caste. I cittadini di pieno diritto erano chiamati spartiati ed erano a numero chiuso, poche migliaia di famiglie che vivevano sul lavoro della casta inferiore, gli iloti, servi della gleba che coltivavano i campi per i loro padroni spartiati. Erano tenuti a fornire loro una certa quantità di prodotti agricoli ogni anno e vivevano, o sopravvivevano, con quello che restava, a prescindere dall’andamento dell’annata. Non avevano alcun diritto, era loro vietata qualunque forma di aggregazione, quindi niente villaggi, solo fattorie sparse. La casta in posizione mediana, quella dei perieci («periferici») era composta probabilmente di artigiani liberi ma senza diritti civili. Da ultimo venivano appunto gli spartiati che avevano una sola attività da svolgere: la difesa della comunità, e a questo si preparavano per tutta la vita.
Le origini di questa divisione in caste è dibattuta. Si ritiene di solito che gli spartiati fossero i discendenti degli invasori dori che sarebbero calati nel Peloponneso alla fine del XII secolo a.C. Gli iloti sarebbero stati gli antichi abitanti della regione che, avendo opposto dura resistenza, sarebbero quindi stati ridotti in servitù. I perieci avrebbero accettato i nuovi dominatori senza opporsi e avrebbero ottenuto migliori condizioni di vita.
Purtroppo sappiamo ancora molto poco di ciò che accadde tra la fine del mondo miceneo cantato da Omero nell’Iliade e nell’Odissea e l’inizio dell’Età del ferro: quasi tre secoli di oscurità che vengono chiamati «medioevo ellenico».
Gli spartiati, benché fossero in cima alla scala sociale, erano forse l’unica classe aristocratica dell’antichità a non avere privilegi, anzi facevano una vita forse più dura dei loro servi. Fin dalla nascita i bambini che presentavano malformazioni fisiche venivano abbandonati sul monte Taigeto, dove erano preda di lupi e orsi, a meno che non venissero trovati da qualcuno delle caste inferiori che decidesse di allevarli, cosa che si suppone avvenisse assai di rado. I sani venivano immersi appena nati nelle acque gelide dell’Eurota per metterne a prova la resistenza. Restavano con la loro famiglia pochi anni e poi la lasciavano ancora bambini per entrare in una specie di collegio militare ed essere addestrati da istruttori spietati chiamati «paidotribi» (letteralmente «trituratori di ragazzi»).
Per prima cosa erano condotti lungo il fiume a tagliare canne con cui preparare il loro giaciglio: su quei duri steli avrebbero dormito per tutto il tempo dell’addestramento. Portavano lo stesso abito d’inverno e d’estate e mangiavano soprattutto un cibo, il misterioso «zomòs melas», o brodo nero, immangiabile per gli altri greci ma probabilmente molto calorico e nutriente. Erano ammessi anche pane, formaggio e olive nelle razioni dei guerrieri. Praticavano la lotta, la scherma, il pugilato, e subivano, a ogni errore o manifestazione di debolezza, punizioni durissime, ma al tempo stesso erano educati nel culto e nell’orgoglio dell’onore militare, nella devozione assoluta allo stato, nell’idea che nessun sacrificio fosse abbastanza duro per la salvezza della comunità. I modelli di comportamento erano quelli degli eroi omerici per quanto concerne lo sprezzo del pericolo, l’onore, il coraggio, però imparavano da subito a rinunciare all’individualismo e a muoversi in gruppo come un sol uomo.
Alle soglie dell’adolescenza dovevano affrontare una prova iniziatica spaventosa: prima una fustigazione a sangue davanti all’altare di Artemide Orthia, poi, per chi la superava, la «krypteia», l’impresa segreta. In piccoli gruppi di sette-dieci individui venivano sospinti nei boschi senza alcun mezzo di sostentamento che le loro armi. Da quel momento si comportavano come un branco di predatori anche a danno degli iloti. Per sopravvivere era loro consentita qualunque cosa. Potevano rubare, saccheggiare, uccidere iloti, purché non si facessero prendere né scoprire.
La krypteia aveva probabilmente collegamenti segreti con un’autorità interna e sconosciuta che a volte li utilizzava con il preciso scopo di terrorizzare o punire gli iloti anche solo per il sospetto di tentativi di rivolta. In quelle condizioni soffrivano la fame, il freddo e ogni tipo di disagi, dormivano sulla nuda terra e imparavano ogni tecnica di sopravvivenza. È possibile che non pochi morissero durante queste prove.
Superato questo periodo, rientravano in città e venivano ammessi fra gli «iranes», i cittadini-guerrieri di pieno diritto. Ricevevano il grande scudo di bronzo con la lambda che stava per Lakedaimon, il nome arcaico di Sparta. Oltre allo scudo ricevevano l’armatura: lancia, spada, pugnale, corazza, elmo e schinieri, circa 30-40 chili di bronzo e ferro che dovevano abituarsi a portare come un vestito. Il segno distintivo era il mantello rosso.
I giovani guerrieri erano distribuiti in gruppi di una cinquantina di individui chiamati «sissitìe» (mense comuni) perché prendevano sempre i pasti insieme. Nei ranghi di combattimento erano divisi in compagnie e battaglioni comandati da ufficiali. Il comando supremo spettava ai re. Esaurito il periodo di addestramento, potevano sposarsi e avere figli. Stranamente, benché avere figli fosse fondamentale, gli spartani praticavano anche un forte controllo delle nascite a causa della rigidità del sistema economico che non prevedeva arricchimenti di alcun genere, per cui le proprietà erano sempre le stesse.
Non esisteva denaro, ogni forma di lusso e ogni cosa superflua era vietata nelle case. Era persino proibito avere travi squadrate per i soffitti. Se questo fosse stato necessario, dicevano gli efori, le piante sarebbero state quadrate e non rotonde.
Le donne non erano da meno dei loro uomini: fin da ragazze si addestravano in palestra vestite solo di una corta tunica. «Mostratrici di cosce» le chiamavano gli altri greci, per i quali quel comportamento era uno scandalo. A differenza che nella democratica Atene, dove le donne vivevano segregate nel gineceo e uscivano solo per nozze, funerali e cerimonie religiose, le spartane andavano dove volevano, avevano le loro proprietà e alcune addirittura scuderie di purosangue con cui correvano a Olimpia.
Certi episodi narrati dalle fonti ci fanno capire che da piccole erano coccolate e vezzeggiate dai genitori. Quando Aristagora di Mileto, che nel 491 a.C. guidava la rivolta dei greci della Ionia, venne a Sparta a chiedere aiuto contro i persiani, entrò in casa del re Cleomene I senza che ci fossero né guardie né servitori e arrivò fino alle camere interne trovandosi di fronte a un uomo che andava a quattro zampe sul pavimento con la figlioletta sulla schiena che giocava a cavalluccio. Allo stupore degli ospiti rispose: «Non è certo questo il modo per un re di ricevere ospiti stranieri ma se siete padri mi potete capire». La bimba era Gorgò e sarebbe diventata la sposa di Leonida.
Altre testimonianze ci fanno capire che le donne avevano una loro tradizione sapienziale, con detti e proverbi tramandati di madre in figlia. Anche loro avevano un ruolo importante nell’educazione dei figli. A un giovane che faceva notare che la spada spartana era troppo corta la madre rispose «allungala di un passo». Ed erano le madri a consegnare ai figli lo scudo nel momento in cui andavano in guerra con la terribile frase: «(Torna) con questo o sopra di questo». Lo scudo rovesciato e con due lance passate nelle corde interne era usato come barella per riportare i morti dal campo di battaglia. La frase, in altri termini, significava: «O vinci o muori».
Quando il re Pausania, vincitore della battaglia di Platea, fu sospettato di tramare di nascosto con i persiani, fu murato vivo nel tempio di Athena Calcieca in cui aveva cercato rifugio e fu sua madre a mettere gli ultimi mattoni.
Nessun guerriero spartano poteva sopravvivere al disonore. Quando Leonida si accorse di essere accerchiato alle Termopili, mandò due dei suoi a Sparta con una missione che è rimasta segreta. Conosciamo il loro nome: Eurito e Aristodemo. Essendo gli unici superstiti, diventarono subito oggetto di dicerie infamanti: dovevano aver brigato per ottenere quell’incarico e salvarsi la vita. Li chiamavano «hoi tresantes», coloro che hanno tremato (di paura). Nessuno voleva più sedersi accanto a loro nell’assemblea, erano dei reietti. Non potendo tollerare quel disonore uno dei due s’impiccò nella sua casa con il mantello rosso delle Termopili, l’altro sparì misteriosamente. Riapparve l’anno dopo sul campo di battaglia di Platea gettandosi contro le file persiane con tale foga temeraria da riconquistare, mentre perdeva la vita, l’onore e la considerazione dei suoi compagni.
A maggior ragione la cosa era fondamentale per i re. Quando si scoprì che aveva corrotto l’oracolo di Delfi, il re Cleomene fu coperto di disonore al punto che quasi ne impazzì. Siccome era diventato aggressivo e violento, gli efori lo fecero legare a un palo in una piazza della città, ma lui una notte sorprese l’ilota di guardia stordendolo con le catene e gli tolse la spada. Si lacerò le caviglie, le gambe e le cosce e poi si squarciò il ventre. Una specie di harakiri rituale che doveva riscattare il suo onore.
Durante la guerra del Peloponneso gli ateniesi, con una rocambolesca operazione di commando, riuscirono a catturare vivi nel sonno 200 spartani di presidio a Sfacteria ormai sfiniti per la fame. Proposero poco dopo a Sparta di liberarli in cambio di una tregua. «Impossibile» fu la risposta «gli spartani non cadono mai vivi nelle mani del nemico».
Il sacrificio dei 300 alle Termopili trasformò un episodio non determinante da un punto di vista militare in un simbolo dell’immaginario collettivo dell’Occidente: tutte le frasi pronunciate da quei guerrieri divennero, fin dall’antichità, detti memorabili da tramandare ai posteri. Quella resistenza senza speranza, quella cieca fedeltà al dovere ma accompagnata da manifestazioni di commovente umanità fecero di Sparta un mito. Da Simonide a Ezra Pound, l’eroismo di chi dà la vita per la libertà degli altri divenne un gesto sacro.
Nel suo, peraltro impressionante, romanzo grafico Frank Miller è abbastanza ignorante da usare per i suoi personaggi spartani nomi cristiani da greci moderni come Stelios, passato pari pari nel magnifico film di Snyder, eppure il suo entusiasmo è sincero e spesso emozionante, anche se si dimentica dei 700 tespiesi che si rifiutarono di abbandonarli e restarono a morire con loro.
La battaglia delle Termopili, combattuta contro la più possente autocrazia del mondo di allora, è diventata un paradigma dell’etica dell’Occidente. In nome della libertà tutti possono diventare eroi, i combattenti indomabili di una città di guerrieri come i semplici cittadini.
Nel novembre del 1973 gli studenti del Politecnico di Atene in rivolta contro il regime dei colonnelli, ai militari che intimavano loro la resa, risposero con la frase di Leonida ai persiani che imponevano loro di cedere le armi: «Molòn Labè, vieni a prenderle!».