La scuola di Kyoto, lo Zen e il confronto con l'Occidente
di Franco Bertossa/Ryosuke Ohashi - 08/05/2007
In occasione di un seminario sulla scuola filosofica di Kyoto presso il Centro Studi ASIA, Franco Bertossa ha intervistato il prof. Ohashi.
Ohashi Ryosuke è professore di Filosofia all'università di Osaka. Ha ottenuto il dottorato in filosofia alla
Ha ricevuto la sua abilitazione all'insegnamento della Filosofia dalla
Franco Bertossa è Maestro di meditazione di indirizzo buddhista e di arti marziali che entrambe pratica da oltre trent’anni. È impegnato nella promozione di un confronto esperienziale, oltre che concettuale, tra i pensieri filosofico e scientifico occidentali relativi alla coscienza e i modi della conoscenza interiore orientali.
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Franco Bertossa: Professor Ohashi, Lei sta conducendo un seminario seguito da un folto e giovane pubblico. È sorpreso da un tale interesse da parte di giovani occidentali per la filosofia della scuola di Kyoto?
Ohashi Ryosuke: Sono stato molto sorpreso. Mi sono chiesto di quale parte della gioventù italiana di oggi siano rappresentativi i giovani che hanno partecipato a questa settimana di studi. Forse non rappresentano l’intero dei giovani italiani di oggi, ma mano a mano che ricevevo da loro domande, sentivo il tipo di questioni che mi ponevano, come dire, ho pensato che non saranno forse rappresentativi della fascia media dei giovani italiani, saranno probabilmente una parte numericamente minoritaria, eppure ho avuto l’impressione che loro percepiscono con chiarezza quello stesso disagio, quei problemi che di certo anche gli altri giovani provano pur non essendone a tal modo consapevoli. Perciò anche se sono quantitativamente una minoranza, anche se sono per così dire la punta dell’iceberg, ciononostante ho pensato che qualitativamente i giovani che hanno partecipato a questo seminario sono probabilmente rappresentativi di quella sfera di problemi che anche gli altri portano latenti in sé, ma di cui non sono di solito consci. E ho pensato che probabilmente è la stessa cosa anche in Giappone. In un primo momento, insomma, sono stato spiazzato, ma poi, mano a mano che ci riflettevo sopra e che ricevevo le loro domande, mi sono convinto che questi giovani per così dire mi presentavano il «concentrato» dei problemi dei giovani del nostro tempo.
FB: Quale è stato il primo contatto tra il pensiero giapponese e la filosofia occidentale? Che cosa caratterizza la cosiddetta scuola di Kyoto?
Ohashi Ryosuke: Detto in riferimento alle epoche storiche, un primo contatto ci fu prima dell’epoca Meiji (1868-1912), già alla fine dell’epoca Edo (1603-1867), quando giunsero in Giappone i Padri Gesuiti. Ci fu allora un primo contatto, ma una vera e propria introduzione della «filosofia» in quanto tale si è verificata solo a partire dall’epoca Meiji. Il primo problema su cui si discusse fu proprio quello di come tradurre in giapponese il termine «filosofia», a tal punto la «filosofia» era qualcosa di estraneo alla cultura giapponese. A quel tempo erano già attive e rappresentate in Giappone alcune correnti di pensiero, il buddhismo, il confucianesimo, il taoismo, e anche lo shinto. Poi è arrivata la filosofia occidentale e all’Università di Tokyo si aprì la prima facoltà di filosofia che assunse nella propria dicitura il termine «testugaku» [studio della saggezza] come traduzione di «filosofia». Tra le tante proposte di traduzione del termine che erano state avanzate, fu scelta questa, si inaugurò così un «Dipartimento di tetsugaku», e così il termine si impose. Il primo professore di tale facoltà, Inoue Tetsujiro, produsse una sorta di mescolanza eclettica tra buddhismo e filosofia occidentale, in particolare hegeliana.
Anche uno dei primi traduttori della terminologia filosofica occidentale, Nishi Amane, pensava che il buddhismo giapponese possedesse degli elementi filosofici e che si potesse perciò interpretare da una prospettiva buddhista il pensiero occidentale, ad esempio Hegel, dando vita a dei tentativi eclettici. Ma si trattava comunque di «miscugli» che non si possono definire davvero filosofie. Quando invece si impose all’attenzione Nishida Kitaro, il padre della cosiddetta «Scuola di Kyoto», si trattò di un evento filosofico del tutto diverso rispetto ai primi tentativi dei suoi professori. Nishida aveva scelto di studiare filosofia e pensare filosoficamente, ma al tempo stesso praticava zen, si dedicava alla meditazione zen, lo zazen. Ora, filosofia e zazen sono qualcosa di completamente diverso, e infatti Nishida non ne tenta una sintesi, una mescolanza: pur trattandosi di due cose completamente diverse e proprio in quanto due cose completamente diverse, filosofia e zazen poterono incontrarsi in Nishida, in una stessa persona, e questo fu un evento mai accaduto prima. Penso che si possa dire che la filosofia della Scuola di Kyoto sia nata da questo evento. Per cui se provo a esprimere in poche parole quale sia il carattere tipico del pensiero della Scuola di Kyoto, premesso che non è che tutti i pensatori che vengono ricondotti alla Scuola di Kyoto hanno praticato lo zen, la caratteristica peculiare è comunque che nella filosofia della scuola di Kyoto si dà un collegamento tra zen e filosofia intesi come due cose del tutto diverse e in quanto due cose del tutto diverse. Se posso aggiungere ancora una riflessione,
anche osservando la storia della filosofia occidentale vi si notano varie epoche con caratteristiche loro proprie. Accadde ad esempio che ad un certo punto la filosofia greca incontrò il cristianesimo, che era per essa qualcosa di completamente estraneo. In quell’epoca la filosofia greca fu scossa fino alle fondamenta, ma proprio passando attraverso qualcosa di completamente estraneo, la filosofia conobbe una svolta decisiva e poté ulteriormente svilupparsi. Ora, quando si parla di zen e filosofia riguardo alla Scuola di Kyoto, filosofia è da intendersi fondamentalmente come filosofia moderna e contemporanea. In rapporto alla filosofia moderna lo zen doveva presentarsi necessariamente come qualcosa di completamente estraneo, proprio perché lo zen inizia dove si smette di pensare, dove non c’è pensiero. Il punto di partenza di zen e filosofia è completamente diverso. D’altro canto anche lo zen ha attraversato varie fasi, e incontrando la filosofia è stato costretto ad esporsi ad un ambito fino ad allora sconosciuto. Dunque anche lo zen è stato costretto a confrontarsi con un ambito di problemi ad esso del tutto estraneo.
FB: Professor Ohashi, che cosa ha spinto i giapponesi ad occuparsi di filosofia?
Ohashi Ryosuke: In senso generale, bisogna considerare che all’inizio dell’epoca Meiji per la prima volta i giapponesi si trovarono a confronto diretto con l’intero della cultura occidentale. All’interno di quell’«intero», fatto di cultura, civilizzazione, prodotti tecnici e così via, c’era anche la filosofia. Anche l’Oriente aveva una sua tradizione spirituale, e i giapponesi capirono subito che la filosofia occidentale rappresentava il centro, l’essenza della civiltà occidentale. Per cui per i giapponesi di quell’epoca, formati all’interno della tradizione buddhista, confuciana, taoista, shintoista, l’incontro con la filosofia occidentale, che incarnava ai loro occhi l’essenza di quell’immenso patrimonio di conoscenze che era per loro l’Occidente, presentava inesauribili motivi di interesse. In questo senso è interessante notare che l’incontro tra i giapponesi e la filosofia fu in parte diverso rispetto a quello tra i giapponesi e il cristianesimo. Il cristianesimo era già noto ai giapponesi fin dal quindicesimo secolo. Ora, non so a quei tempi, ma a partire dall’epoca Meiji fino ad oggi solo circa l’uno per cento della popolazione giapponese si è convertita al cristianesimo, una percentuale che non cresce. Mentre è estremamente comune trovare in Giappone gente che si interessa a vario titolo di filosofia.
Cioè, i cristiani restano l’uno per cento, una realtà in un certo senso chiusa in se stessa, e non è nato dall’incontro col cristianesimo un «cristianesimo giapponese». Mentre a livello filosofico l’incontro ha dato origine alla Scuola di Kyoto, a un tipo di filosofia cioè che non si era ancora dato all’interno della storia della filosofia, qualcosa di nuovo (?). Credo che questo fatto si leghi strettamente al modo d’essere stesso della filosofia in quanto tale.
FB: Da quanto ci ha detto si può concludere che comunque il pensiero filosofico giapponese è fortemente radicato nello zen. Ciò che caratterizza, ciò che ha caratterizzato il pensiero filosofico giapponese ha una forte radice buddhista zen?
Ohashi Ryosuke: Un allievo chiese una volta a Nishida da dove provenisse la sua filosofia, se dallo zen o dalla filosofia occidentale. La risposta di Nishida fu: «Da entrambi». Ora, il problema è capire che tipo di relazione si instauri tra gli «entrambi», ad ogni modo per Nishida il suo pensiero proveniva da entrambi, da filosofia e zen. Dunque non si tratta solo di un’influenza dello zen sulla filosofia, la filosofia di Nishida è come se avesse un piede nello zen e un piede nella filosofia occidentale. È come se fino a Nishida ci fossero stati esseri umani con tutti i due piedi nella filosofia o tutti e due i piedi nello zen, ma nel caso di Nishida un piede è nello zen e uno nella filosofia. Una gamba di qua, una di là, ma le gambe da qualche parte nel corpo trovano il loro collegamento, non so, forse nell’ombelico o nel cuore o nella testa, ma comunque è un problema notevole, cioè come collegare tra loro filosofia e zen. È un po’ ciò che accadde in Agostino, che da un lato aveva studiato la filosofia platonica e dall’altro era diventato cristiano. Penso che in questo senso tra Agostino e Nishida ci possano essere delle affinità. Ora, forse più di metà degli appartenenti alla cerchia della scuola di Kyoto non praticavano lo zen come Nishida, ad esempio Tanabe Hajime, ma anche se non praticavano attivamente lo zen, di certo avevano un piede nel buddhismo, di cui lo zen è una delle espressioni. L’altro piede era nella filosofia. Questo forse è l’elemento più caratteristico della Scuola di Kyoto.
FB: Lo zen parla di sentirsi tutt’uno con la natura, ma oggi dopo Hiroshima e dopo Chernobyl, è ancora possibile sentirsi tutt’uno con un fiore contaminato dalle radiazioni? Forse che lo zen stesso debba fare i conti con la critica alla tecnica avviata da pensatori come Heidegger?
Ohashi Ryosuke: Innanzitutto, credo che si possa dire in ogni epoca, in ogni tempo, qualcosa come quanto viene espresso in detti zen quali «Cielo, terra e io abbiamo la stessa radice» oppure «Tutte le cose e io facciamo tutt’uno». Ma nel momento in cui si parla di diventare tutt’uno con un fiore contaminato all’epoca di Chernobyl o di Hiroshima, il problema è di intendere cosa significhi «diventare tutt’uno». Se diventare tutt’uno significa diventare uguale, allora anch’io vengono contaminato, anch’io mi ammalo, come l’uccello infetto dall’influenza aviaria. Non si tratta solo di provare simpatia per l’altro, anch’io mi ammalo, anch’io percepisco dolore. Questo credo sia qualcosa che il buddhismo ha sostenuto fin dai tempi antichi. Ora, posto che anch’io mi ammalo, il problema è: volgendomi in quale direzione posso trovare guarigione? Se semplicemente si viene contaminati allo stesso modo, allora ci si ammala allo stesso modo, si cade allo stesso modo nel dubbio. Ma allora in che modo posso tornare allo stato incontaminato, puro? Ad esempio, in psichiatria un medico può fornire dei consigli al paziente.
Ora, si pensa di solito che il paziente sia «malato», ma forse ci sono anche casi in cui semplicemente è più sensibile degli altri, percepisce qualcosa ad una profondità per gli altri sconosciuta. Ora, se anche in questo caso si trattasse semplicemente di tornare ad essere un comune e banale essere umano «sano», allora penso che la cura proposta dal medico non avrebbe molto senso. Invece, una cosa è «fare tutt’uno con tutti gli esseri» a partire da uno stato di risveglio, un’altra è «fare tutt’uno con tutti gli esseri» senza conoscere il risveglio. A livello superficiale sembrano due cose simili, ma in realtà credo vadano in due direzioni completamente diverse. Qui cioè si tratta di capire quale sia il modo d’essere di questo «fare tutt’uno».
Heidegger dal canto suo sviluppa una critica alla tecnica e affronta i problemi ad essa legati. Ma quale sarà la situazione in cui ci troveremo una volta che i problemi legati alla tecnica saranno stati risolti? A questo riguardo Heidegger parla di un ritornare all’inizio, all’Anfang, all’esperienza dell’Essere, ma al di là di questa risposta a parole, concretamente, per me qui, per il mondo attuale, questa situazione di cui parla Heidegger che cos’è? Heidegger non si esprime in modo chiaro al riguardo. Se lo facesse, allora dovrebbe dire con chiarezza in che direzione si trova la possibilità della soluzione del problema della tecnica. Se non si ha una tale risposta chiara, il problema della tecnica resta. Ora, lo zen dal canto suo credo che invece dia chiaramente la sua risposta.
Ha fatto un certo scalpore uno studio sul ruolo di esponenti zen nell’entrata in guerra del Giappone. Quale è stato in realtà il peso di tale pensiero per gli eventi della seconda guerra mondiale?
Sì, conosco il libro cui Lei fa riferimento. È un tema che non ho affrontato in questo seminario, ma anche riguardo alla Scuola di Kyoto esiste una questione aperta sulla collaborazione dei filosofi di Kyoto con il regime militare. Circa due anni fa ho pubblicato in Giappone un libro su questo argomento, perché ho trovato un taccuino d’appunti che ha gettato nuova luce su come interpretare la posizione dei filosofi di Kyoto. Si tratta di un taccuino appartenuto ad un certo Oshima, che era allora assistente a Kyoto. Cioè i filosofi di Kyoto, dall’inizio fino alla fine della guerra, tenevano regolarmente delle riunioni segrete con esponenti della Marina. Queste riunioni erano segrete perché
In quelle riunioni si trattava delle ragioni di una tale diversità di posizioni, si cercava di analizzare lo stato del conflitto, la condizione geopolitica del tempo.
Insomma erano posizioni contrarie all’estensione del conflitto propugnato dal governo, e questo a quel tempo comportava un rischio altissimo in caso di scoperta. Si trattava perciò di un movimento anti-istituzionale all’interno delle istituzioni del tempo. Si trattava di incontri in cui, a partecipare, si rischiava la vita. Molti buddhisti invece, a differenza dei filosofi di Kyoto, collaborarono fin dall’inizio e senza incertezze col regime nazionalista e militarista, e io penso che questo fu dovuto proprio al fatto che non possedevano una visione filosofica della loro epoca.
La filosofia europea è figlia del logos e dell’idea. L’occidentale si muove nel pensiero attraverso la rappresentazione, il concetto e la logica. Qual è il perno attorno a cui si articola il pensiero filosofico giapponese e quale pensa possa essere il terreno di confronto tra queste due tradizioni di pensiero?
Per prima cosa, penso che forse si possa rispondere così. La filosofia della Scuola di Kyoto, proprio in quanto «filosofia», penso che abbia un elemento comune con la filosofia occidentale e che lo debba avere. Qualunque sia la discussione che possa aver luogo tra i filosofi di Kyoto e i filosofi occidentali, essa avverrà sempre all’interno di quell’unica cornice che è la filosofia. Quando i pensatori di Kyoto si confrontano con Platone, Aristotele, Heidegger o Hegel, si muovono sempre a livello filosofico. Per cui il perno su cui si incentrano queste discussioni è certamente il logos. Per esempio, Nishitani Keiji all’inizio si occupa di interpretare Aristotele, poi si interessa del Misticismo tedesco. Anche Nishida si dedica al pensiero di Kant e di Hegel, ma anche di Heidegger e Husserl, cioè i «filosofi» di Kyoto si confrontano con la «filosofia» occidentale. In questo senso il perno è, ripeto, il logos. Ora, però, ho parlato di una «cornice» che è la filosofia. Per i pensatori di Kyoto fuori di questa cornice sta un terreno, si apre un paesaggio, un cielo del tutto diverso, cioè la cornice filosofica tocca in loro qualcosa che sta fuori della cornice e che è di natura completamente diversa da essa. Ma se si è consapevoli che fuori della cornice sta qualcosa di natura completamente diversa, il senso della cornice stesso viene messo in questione. Credo che nel caso dell’Europa questo «fuori» della cornice sia stato la fede cristiana. Nel caso della filosofia della Scuola di Kyoto si è trattato invece dello zen o del buddhismo. Per esempio, noi ora siamo in questa stanza e accanto ad essa, allineate lungo il corridoio, ci sono molte altre stanze simili. In questa stanza dalla finestra entra la luce del paesaggio che si estende fuori. Se il paesaggio esterno fosse diverso, poniamo una montagna o il mare anziché queste colline, la stanza sarebbe la stessa, ma il tipo di luce, i suoni che entrerebbero dalla finestra sarebbero del tutto diversi. Ora, se poniamo che questa stanza in cui siamo sia la filosofia, possiamo dialogare tra di noi tramite il logos comune, ma a seconda di ciò che sta fuori della stanza, sera o mattina, Italia o Giappone, deserto o montagna, credo che muti il senso e il contesto del dialogo che avviene tramite il logos comune.
Professor Ohashi, la nostra epoca è caratterizzata dalla necessità di un dialogo interculturale. Secondo Lei la globalizzazione favorisce o ostacola tale dialogo?
Il termine «interculturalità» credo sia nato parallelamente a quello di «globalizzazione». Io stesso sono stato per più di dieci anni vicepresidente dell’Associazione di Filosofia Interculturale e ho potuto notare un fatto interessante, ossia che il termine «interculturalità» si è imposto e diffuso innanzitutto in Europa, mentre negli Stati Uniti è più diffuso il termine «crossculture». Ma attenzione, interculturalità e crossculture differiscono nel loro senso. All’interno della globalizzazione la distanza che teneva distinte culture diverse si è accorciata, non solo, si è creata una struttura per cui le culture si introducono una nell’altra. Nel caso degli Stati Uniti, è come se sotto un unico ampio tetto che sono gli Stati Uniti stessi, varie culture diverse si «incrociassero», e in questo senso credo sia da intendersi il termine crossculture. Invece nel caso dell’Europa un simile tetto unico non c’è, si dà invece una struttura in cui vari popoli stanno in relazione reciproca. Dunque non si tratta di un incrocio di culture sotto un unico tetto, ma varie culture indipendenti si introducono una nelle altre, e anche se talvolta ci sono attriti, conflitti, nasce un dialogo, si avverte la necessità del dialogo. Penso che si tratti di una struttura di questo tipo. Per cui da un lato la globalizzazione rende necessario il dialogo interculturale, ma dall’altro capita che talvolta alcune nazioni si introducano troppo in profondità nelle altre, si scontrino troppo direttamente a livello economico, e proprio per questo il dialogo diventa impossibile. Credo che si diano contemporaneamente entrambe le cose, la globalizzazione promuove il dialogo e talora lo rende impossibile.
Professor Ohashi, come è visto da un filosofo giapponese l’incontro-scontro tra civiltà, come ad esempio tra Occidente e Islam oppure anche come tra Occidente da un lato e Cina e Giappone dall’altro?
«Incontrare» in inglese si può dire encounter o meet. Nel caso di meet si può intendere l’incontro come il fatto di essere insieme in un luogo, mentre nel caso di encounter l’in-contro enfatizza il «contro». Cioè ci sono casi in cui l’incontro si realizza nell’essere insieme in un luogo, e altri in cui si verifica uno s-contro, un contra-ccolpo, una contra-pposizione. Certo, l’in-contro può darsi e si dà a vari livelli diversi, in vari ambiti diversi. Ad esempio l’in-contro tra islam e cristianesimo avviene a livello di religioni o almeno nasce in un primo momento a livello di religioni, poi diventa un in-contro che si muove a livello di territori, di culture.
Invece l’in-contro tra Oriente e Occidente, proprio perché anche islam e cristianesimo potrebbero essere intesi in senso lato come Oriente e Occidente, muta a seconda di cosa si intende per «Oriente». L’incontro tra Cina e Occidente o tra Giappone e Occidente sono tra loro diversi. Dunque anche il modo d’essere del «contro» varia di caso in caso. Ora, la domanda che Lei mi ha posto iniziava con: «Come è visto da un filosofo» tutto ciò? Io non sono né uno storico né un economista, dunque in quanto filosofo o a livello di filosofia, come vedo tutto ciò? Era questo il senso della domanda?
Come lei ha incontrato la filosofia?
Ne ho già parlato anche in altre interviste, io fin da quando ero piccolo portavo in me delle domande, delle questioni che mi assillavano, e non sapevo a chi rivolgermi per trovare risposta. Al secondo anno delle scuole superiori, mentre sfogliavo a caso un dizionario, mi sono imbattuto nel nome di Heidegger che era definito: «Autore di Essere e tempo». Fu una grande sorpresa. Fino ad allora nessun insegnante di nessuna materia scolastica aveva messo a tema il problema dell’essere e del tempo e, anche a chiedere, nessuno sapeva dare una risposta alla mia domanda. Scoprire che proprio su quei temi che fin dall’infanzia più mi stavano a cuore c’era stato qualcuno che aveva scritto un libro, mi lasciò di sasso. Questo è stato l’inizio. Per cui andai subito in libreria e mi procurai una delle traduzioni giapponesi di Essere e tempo. La lessi e non ci capii nulla. Ma ormai era nato il mio interesse per Heidegger e così decisi di studiare filosofia all’università.
Professor Ohashi, Lei ha menzionato Heidegger. Heidegger stesso ha avuto molti allievi giapponesi. È vero che Nishida, il fondatore della filosofia moderna giapponese, della Scuola di Kyoto, invitava i propri allievi a studiare con Heidegger? E Lei ha incontrato Heidegger?
Nishida non andò mai in Germania né all’estero. Fu un collega di Nishida, Tanabe Hajime, che per primo si recò a studiare da Heidegger. Essere e tempo fu pubblicato nel 1927, ma già nel 1924 Tanabe aveva scritto in giapponese un saggio su Heidegger, intitolato Una nuova svolta nella fenomenologia. Cioè prima ancora che Heidegger divenisse noto per Essere e tempo, c’era in Giappone un saggio sulla fenomenologia di Heidegger, uno dei primi o forse addirittura il primo saggio mai scritto su Heidegger. Dopo Tanabe, molti altri pensatori di Kyoto si sono recati a
studiare da Heidegger. Più che un suggerimento di Nishida, penso che questo sia dipeso dal fatto che tutti i colleghi e allievi di Nishida si avvicinavano alla filosofia studiando innanzitutto la filosofia tedesca, per cui era scontato che andassero a studiare in Germania dal neokantiano Rickert o da Husserl e Heidegger. Più che un suggerimento di Nishida, era qualcosa che nasceva dallo stato della filosofia del tempo.
Io ho potuto incontrare personalmente Heidegger solo una volta, nel 1969, dopo la festa per il suo ottantesimo compleanno. Fui portato da Heidegger dal mio professore, mi ero appena laureato con una tesi su Heidegger.
Che influenza ha oggi la filosofia nel mondo giapponese? Gli studenti giapponesi considerano ancora l’Europa un riferimento importante per la loro formazione culturale? Le accade di incontrare in Giappone giovani europei? Se sì, che cosa vengono a cercare?
La filosofia è arrivata in Giappone all’inizio dell’epoca Meiji, ovvero del processo di modernizzazione del Giappone, ed è entrata nel mondo giapponese come qualcosa di estraneo, di sconosciuto. Ma dato che la filosofia possiede di per sé una natura estremamente universale, ha potuto subito radicarsi nel terreno giapponese. Per questo ancor’oggi la filosofia è considerata in Giappone una materia irrinunciabile all’interno dell’insegnamento universitario. Ora, per i giovani giapponesi, per la loro formazione, la filosofia europea ha ancora un senso? O in senso ancora più generale: la cultura europea che senso ha per i giovani giapponesi di oggi? Questa è una domanda molto seria, perché la «globalizzazione» è contemporaneamente per sua natura «americanizzazione», e questa americanizzazione investe anche l’Europa. A livello di pensiero, americanizzazione significa che la tradizione, la cultura europea, che deriva da quella greca, viene sostituita dal modo di pensare della tecnologia americana che diventa il metro di misura della vita quotidiana.
Anche in Giappone si nota la stessa tendenza. È interessante che quello che succede in Europa, subito dopo si trasmette anche in Giappone, in particolare in rapporto alla filosofia, lo stato della filosofia americana o europea subito si riflette su quello giapponese.
Per cui la cultura europea, la filosofia europea, che senso hanno per i giovani di oggi in generale? Se questa domanda viene posta in Europa, si tratterà di capire che senso ha la cultura europea per i giovani europei, e la stessa cosa vale anche per i giovani giapponesi. Cioè siamo in una situazione in cui non è semplice dire né che ha senso né che non ne ha.
Quanto agli europei che vengono a studiare in Giappone, ne conosco alcuni e le motivazioni che li spingono a venire saranno di volta in volta diverse, non lo so. C’è però una cosa che mi pare di avvertire ogni volta: in ogni caso, quando degli europei vengono in Giappone, vengono sempre per imparare qualcosa di giapponese, qualcosa di legato alla tradizione o alla spiritualità giapponese, qualcosa cioè che mi sembra che i giovani giapponesi di oggi per lo più stanno dimenticando. Vedo cioè che il fatto che giovani europei vengano a studiare qualcosa di giapponese in Giappone, scuote i giovani giapponesi con cui essi vengono a contatto. I giovani europei costringono i giovani giapponesi a rivolgere lo sguardo su se stessi, si crea una dinamica di questo tipo ogni volta.
In Europa i giovani vivono un notevole disagio per il nichilismo e il relativismo conseguenti alla «morte di Dio». Quali valori sopravvivono nella gioventù giapponese? Un giovane giapponese alla ricerca di se stesso oggi si rivolge alla filosofia o allo zen?
Quello che per me è stato il mio vero maestro, Nishitani Keiji, scrive che la gran maggioranza dei giapponesi di oggi ha dimenticato anche il nichilismo stesso, ha dimenticato cioè perfino che Dio è morto. Nishitani individua una situazione di questo tipo come caratteristica della società giapponese contemporanea. Si tratta cioè di una sorta di nichilismo doppio, elevato alla seconda potenza, un nichilismo che ha dimenticato il nichilismo della morte di Dio. Per il professor Nishitani si pone la questione se il nichilismo che domina il mondo contemporaneo non sia in effetti un nichilismo raddoppiato. La tragicità della morte di Dio, insomma, è essa stessa dimenticata. Circondati dai prodotti della tecnica, si vive in modo più o meno piacevole, divertendosi in qualche modo, eppure rimane sullo sfondo una sensazione di disagio, di angoscia, che non trova quiete e cresce. Ora, in una
situazione del genere, i giovani giapponesi si rivolgono alla filosofia oppure si rivolgono allo zen? Questo penso che sia un problema che riguarda più la filosofia e lo zen che i giovani. Lo zen tradizionale, lo zen come si è praticato fino ad ora dentro i templi, è estremamente lontano dal mondo contemporaneo, c’è troppa distanza perché i giovani di oggi vadano al tempio per trovare risposta alle loro domande. Quanto alla filosofia attuale, è diventata – in senso buono e meno buono – troppo accademica. La domanda fondamentale della filosofia greca, come posso vivere bene, senza accorgersene è andata ad un certo punto perduta e la filosofia è diventata uno tra i tanti saperi, tra le tante discipline, e viene praticata scientificamente, filologicamente. Questa è più o meno la tendenza della filosofia attuale, per cui penso che sia lo zen che la filosofia dovrebbero tornare alla loro origine.
Nell’immaginario occidentale l’anima giapponese è rappresentata dai film di Kurosawa e recentemente da «L’ultimo samurai». Tale anima, incentrata su un senso dell’onore che pare andare oltre vita e morte, sopravvive o si è piegata anch’essa alle istanze del modernismo e della tecnica?
È una cosa strana, ma la questione di chi sono i giapponesi per i giapponesi è molto antica e ancora oggi non trova una risposta chiara. Forse si può cercare di capire pensando alle immagini tradizionalmente tramandate del Giappone, ad esempio i ciliegi, il sol levante. Certo si prova anche una sorta di fastidio per questi simboli. Poi c’è anche il Giappone rappresentato nei film di Kurosawa , un Giappone che per metà non esiste più, ma che forse potrebbe esistere ancor’oggi, in ogni caso si tratta di un Giappone per il quale credo i giapponesi di oggi provano comunque un certo qual senso di nostalgia. Il problema è se in realtà resta ancora qualcosa o no di questo Giappone che si vede nei film di Kurosawa o di Ozu, o ne L’ultimo samurai. Io credo che rimanga ancora, che non possa essere cancellato. Solo che la questione è: che forma assume oggi? Non nel senso in cui suonerebbe una domanda simile nel caso in cui noi osservassimo oggettivamente un certo fenomeno. Io comprendo una tale domanda nel senso di: cosa devo fare io? Io penso così: la tecnologia è qualcosa di globale, l’economia è anche qualcosa di globale, e la globalizzazione ormai ha investito in pieno anche il Giappone. Dentro una tale globalizzazione, esattamente come nel discorso fatto in precedenza sull’interculturalità, vengono messe in discussione le tradizioni locali, le culture locali.
Ma allora noi che viviamo dentro di esse, ad esempio io, da un lato è necessario per noi vedere chiaramente una tale situazione, e contemporaneamente vedere anche quelle tradizioni locali o quello spirito che vengono messe in questione dalla globalizzazione e che vivono dentro la globalizzazione, penso che sia necessario avere consapevolezza che le proprie radici stanno lì.
Per cui la globalizzazione è un po’ come una colata di asfalto che ricopre un terreno in cui sono ancora presenti numerose radici, in cui c’è ancora vita. Ora forse si può fare emergere questa vita, lasciarla spuntare, coltivarla ancora anche dentro la globalizzazione, e si può farne esperienza in numerosi fenomeni. Solo che ovviamente il pericolo, il rischio, è incombente. Se una strada è davvero ricoperta di asfalto, i germogli non possono spuntare, e questo tipo di situazione è ben descritta ad esempio da Heidegger quando parla del problema della tecnica e dell’Impianto, il Gestell, come condizione del mondo attuale. Ma allora bisogna pensare se si può superare questo pericolo, includendo anche la questione se l’impegno del singolo individuo possa fare qualcosa all’interno di un tale ambito o meno. A livello filosofico c’è la necessità di farsi carico di tali problemi. La tecnologia hard è come l’asfalto, ma il mondo della vita in cui trova applicazione la tecnologia hard è una tecnologia soft, il software, deve esserci qualcosa di soft, di morbido. Ma allora in che modo la tecnologia hard, globale, può collegarsi con il mondo della vita soft? Oppure al contrario tutto diventa hard, viene omogeneizzato, livellato? Credo che noi ci troviamo al crocevia tra queste due opzioni.
Professor Ohashi, Lei è docente di Estetica all’Università di Osaka. Potrebbe in poche parole sintetizzare, se possibile, l’essenziale dell’espressione artistica giapponese rispetto a quella europea? Secondo Lei l’arte ha un cuore universale? Reputa più idonea la filosofia o l’arte come mezzo di comunicazione e conoscenza reciproci tra le diverse culture e specialmente tra i giovani?
È una domanda molto interessante, importante. Anche se si parla universalmente di arte, le posizioni dell’arte in Europa e in Giappone erano originariamente diverse. In Europa si è cominciato a parlare di arte in senso moderno in un’epoca relativamente recente. Si comincia a parlare di «belle arti» nel momento in cui l’arte si rende indipendente dal cristianesimo, nel diciottesimo secolo. Prima d’allora non si parlava di «belle arti», ma di «arte» e basta, arte in un senso simile a quello che oggi si direbbe tecnica. Solo a partire dal diciottesimo secolo si crea una distinzione e si parla di «belle arti», proprio nell’epoca in cui l’arte diventa un ambito indipendente dalla religione cristiana. A partire da questa epoca si è cominciato a pensare che ad esempio le pitture nelle grotte degli uomini primitivi sono arte. Ad ogni modo l’arte moderna si trova sempre in una relazione di tensione con la religione. In Giappone, invece, arte e religione fin dall’inizio fanno tutt’uno e si sviluppano assieme. Il termine «gei», che potremmo rendere con «arte», non viene usato all’interno di una contrapposizione di arte e religione, al contrario, «gei» così com’è, è «michi», Via, in Giappone c’era un’idea di questo tipo. Dunque per prima cosa la posizione dell’arte rispetto alla religione è diversa in Europa e in Giappone. Ora, detto questo, il modo di espressione dell’arte giapponese e di quella europea differiscono profondamente tra loro? Oppure c’è qualcosa in comune? Credo che per rispondere a queste domande occorra pensare al loro sfondo storico. Per cui, per prima cosa, ci si riferisce ad uno stesso termine «arte», ma in ogni caso la posizione assunta dall’arte all’interno della cultura sua propria è diversa. Eppure credo ci sia qualcosa che accomuna ogni forma d’arte, il fatto cioè di produrre, di creare qualcosa, ossia la poiesis. In questo senso, orientali o occidentali, tutti in quanto esseri umani abbiamo una sorta di istinto di produrre cose, e in questo senso si può trovare a mio avviso un profondo punto in comune.
Ora, la globalizzazione è lo sfondo che rende necessario il dialogo interculturale. Se così, allora capita che il Giappone e l’Europa, che finora sono stati culturalmente molto diversi, si trovano in una posizione molto ravvicinata. Contemporaneamente, anche se a livello di conoscenza l’uno sa dell’altra e viceversa, proprio perché ci si conosce, si conoscono anche le differenze. Ora, all’interno del dialogo interculturale è più appropriata la filosofia o l’arte? Nel caso dell’arte, se prendiamo in considerazione la storia, il passato dell’arte occidentale o giapponese, certamente noteremo numerose differenze. Ma premesso questo, credo che si possa dire così: la relazione tra filosofia e arte è diversa da quella di religione e arte. Nel caso di religione ed arte, sembra che spesso si debba dire o religione o arte. Nel caso della filosofia invece si può dire filosofia «e» arte. Credo che questa «e» abbia il senso di una relazione possibile. Se così, allora all’interno del dialogo interculturale penso che sia possibile avviare un dialogo utilizzando come mezzo la sensibilità legata all’esperienza artistica. Ma per approfondire questo dialogo, credo ci sia bisogno della filosofia. Quando il dialogo interculturale si svolge a livello filosofico, se prende avvio da un’opera d’arte, acquista concretezza e avviene un dialogo, questo tipo di processo è possibile. Per cui filosofia «e» arte, credo che d’ora in poi ci potranno essere molti modi di intendere il senso di questa «e».
Professor Ohashi, grazie, è stata una conversazione molto interessante.