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E Schopenhauer incontrò Buddha

di Franco Marcoaldi - 28/05/2007


La tradizione vuole che il principe Siddhartha Gautama (poi Buddha: il risvegliato), dopo aver vissuto una gioventù dorata, tra mille donne e mollezze d´ogni genere, ebbe la ventura di incontrare la sofferenza sotto le sembianze successive di un mendicante, un malato, un vecchio e un morto. Bastò questo perché il giovane Siddhartha abbandonasse agi e ricchezze e concentrasse tutte le sue forze sulla soluzione di un unico, immenso problema: come sradicare il dolore, che, a suo dire, nasce dalla continua sete dell´Io, destinata inevitabilmente alla frustrazione.
Arthur Schopenhauer non era un principe ma un figlio della borghesia e non visse nel subcontinente indiano del VI secolo avanti Cristo ma nell´Europa dell´Ottocento, eppure, ad ascoltarne le parole, la sua illuminazione fu più o meno la medesima: «a diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto del mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l´opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti».
Così comincia Il mio Oriente, un intarsio di testi, «tratti dal mare magnum delle carte manoscritte» ed egregiamente curati da Giovanni Gurisatti per l´editore Adelphi (pagg. 225 , euro 11), che ci consentono di seguire passo passo il viaggio di avvicinamento a un mondo che sin lì la filosofia europea aveva poco o punto considerato. Del resto, il medesimo vizio di arroganza culturale ha finito per marcare una parte considerevole della stessa filosofia europea novecentesca, come di recente ha ricordato Giangiorgio Pasqualotto nella sua introduzione all´opera del filosofo giapponese Nishida Kitaro, Uno studio sul bene (Bollati Boringhieri). Basti, per tutti, il nome di Heidegger, il quale, mentre propugnava «l´ascolto del Linguaggio», in un "eloquente inciso" negava l´esistenza di un vero pensiero filosofico extra-occidentale, tanto in Cina quanto in India.
Ma torniamo al nostro Schopenhauer, che, al contrario - proprio nel momento di massima fortuna di Hegel, altro campione dell´eurocentrismo filosofico - fece da battistrada a un atteggiamento opposto: sorpreso com´era dalla «prodigiosa corrispondenza» del proprio pensiero con quello indiano e perciò stesso convinto che l´Oriente disponesse di una marcia in più. Anche nei confronti dei maestri occidentali a lui più prossimi: «Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhart e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo».
Cos´è dunque che affascina così tanto Schopenhauer? Quali sono le sue convinzioni e i punti di contatto, le sorprendenti affinità che rintraccia nella tradizione indiana e nel buddhismo in particolare? L´autore de Il mondo come volontà e rappresentazione è convinto che l´individuo non si muova sorretto dall´intelletto e dalla conoscenza, ma irresistibilmente sospinto da una volontà cieca e smodata, dalla tirannia di un desiderio che non conosce fine e sbocco, procurando di conseguenza una sofferenza senza limiti.
E poiché il Nostro non è uomo di balletti intellettuali, ma ama andare direttamente al punto, sostiene senza mezzi termini che il vero cuore della "volontà di vita" è il rapporto sessuale. «Dietro una maschera di morigeratezza, esso diventa sempre il protagonista assoluto: è la causa della guerra e lo scopo della pace, il fondamento del contegno e il fine dello scherzo, la fonte inesauribile del motto di spirito, la chiave di tutte le allusioni e lo scopo di tutti i cenni misteriosi, di tutte le proposte non fatte e di tutti gli sguardi furtivi; è l´ossessione quotidiana di giovani e di anziani, l´idea fissa della lussuria e il sogno della castità, sempre ricorrente a dispetto della propria volontà. In forza del suo potere assoluto di legittimo e autentico padrone del mondo, lo si vede in ogni attimo piantarsi sul trono che gli spetta, e da lassù deridere con gesto beffardo le misure adottate per imprigionarlo, se possibile, e tenerlo completamente nascosto, o almeno imporgli dei limiti in modo che si manifesti esclusivamente come una faccenda della vita del tutto secondaria e subordinata».
Certo, se si pensa alle vicende biografiche del filosofo tedesco raccontate in Entretiens (Criterion), viene spontaneo rimandare questa ossessiva insistenza teoretica al senso di tortura patito da chi, a dispetto di una conclamata misoginia, si era sentito a lungo schiavo della «cagna della sessualità»; preso in trappola dall´eterno femminino che «come la seppia, fugge e uccide sparando il suo inchiostro, navigando poi a suo agio in quell´acqua melmosa».
D´altronde, il filosofo de Il mio Oriente avrebbe buon gioco a rispondere che il suo pensiero (a differenza dei mistici) non muove dall´«interiorità» ma dall´«esteriorità», e che comunque soltanto gli eunuchi o gli ipocriti possono considerare la centralità attribuita alla libido sessuale come un´esagerazione.
Altrimenti perché gli indiani avrebbero eletto il «linga» e la «yoni» a simboli religiosi della vita della natura? Non v´è dubbio, «la pulsione sessuale è di per se il nocciolo della volontà di vita». Di più: «è ciò che perpetua e tiene unito l´intero mondo delle apparenze».
Ed è proprio qui, sempre secondo Schopenhauer, che si apre la grande distinzione tra religioni dell´errore e della verità. Al primo ceppo apparterrebbero ebraismo e islam, che attribuiscono «la massima realtà all´apparenza», che «fanno dell´esistenza uno scopo in sé», che sono rigidamente monoteiste e aborriscono gli idoli, che prevedono un inizio e una fine del mondo.
La religione della verità invece, è quella dei Veda, da cui derivano il buddhismo e «il Cristianesimo del Nuovo Testamento nel senso più stretto». In questo caso il mondo è riconosciuto «come una mera apparenza, l´esistenza come un male, la redenzione da essa come la meta, la completa rassegnazione come via». Peccato che la «bitorzoluta mitologia del Cristianesimo» sia figlia «di due genitori assai eterogenei, nata com´è dal conflitto tra la verità sentita e il monoteismo giudaico esistente, che le si contrappone in modo essenziale. Ne deriva anche il contrasto tra i passi morali del Nuovo Testamento - che sono eccellenti, ma che occupano soltanto 10-15 pagine circa - e tutto il resto, che consiste, da un lato, di una metafisica incredibilmente barocca, forzata a dispetto di ogni umano buon senso, dall´altro di favolette fatte per destar meraviglia».
Il cristianesimo che affascina Schopenhauer, dunque, è quello che conserva «sangue indiano» nelle vene, mentre al contrario il suo entusiasmo nei confronti della tradizione orientale è pressoché assoluto. Due punti, in particolare, lo riconfermano nel sentimento di affinità: l´antiteismo («la parola "Dio" mi risulta così sgradevole in quanto trasferisce sempre all´esterno ciò che è interiore») e un pessimismo radicale, senza remissione: la vita è «una strada sbagliata da cui dobbiamo tornare indietro».
Come però mette bene in luce Gurisatti nella sua postfazione, proprio qui, all´apice di questo tragitto di comunione sprituale, si apre una crepa insanabile tra Schopenhauer e l´India. Forzando oltremisura l´aspetto negativo del pensiero buddhista, egli ammanta la figura capitale del nirvana di un tratto nichilista che non gli è proprio. E al contempo sottovaluta l´autentica saggezza buddhista, che, «rifiutando ogni ontologizzazione del dolore, del sé e del carattere, prevede la possibilità per tutti della guarigione e della trasformazione di se stessi, dunque l´oltrepassamento della sofferenza tramite la cosiddetta "via di mezzo"».
Questo «anacoreta del pensiero puro», finisce così per dimenticare il tratto fortemente empirico del buddhismo. E´ il Buddha stesso a dire: «come si saggia l´oro sfregandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio sulla mia parola». E lo dice perché la cosa che più gli sta a cuore è la concreta applicazione del suo insegnamento: «un superamento della sofferenza nella vita e non fuori di essa», attraverso il riconoscimento dell´inconsistenza e dell´impermanenza del mondo dei sensi: mondo vacuo perché strutturato da elementi interdipendenti privi di natura propria. Solo così sarà possibile raggiungere quello stato neutro, quel vuoto da cui discendono muta contemplazione, apatia perfetta, felicità.
Ma a chi, scrive ancora Gurisatti, pensava alla salvezza come a un radicale ripudio e annichilimento dell´esistenza, non si attagliavano parole come quiete, gioia, serenità. Tutt´altre furono le caratteristiche di «un uomo malinconico, malato di solipsismo, un misantropo-misogino sdegnosamente arroccato su se stesso», e soprattutto inestricabilmente legato a un «occidentalissimo senso tragico della vita». Ecco perché Schopenhauer «fu senz´altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo. Malgré lui».