Cristina Campo. Nel rifugio dello stile
di redazionale - 03/07/2007
Nel necrologio per la morte di Bobi Bazlen, l’appartato intellettuale triestino che influenzò con tessiture segrete molti ambienti della cultura italiana, Eugenio Montale lo descrisse come «un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e della storia». Ecco: a Cristina Campo, che di Bazlen era amica, si può attribuire la stessa collocazione. Schiva, umbratile, estranea al proprio tempo, scelse di seppellire la propria opera letteraria, fatta di versi, traduzioni e saggi, sotto una coltre di silenzio dicendo di sé: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto ancor meno».
Le bastava il colloquio, intimo ma vitale, con i poeti e gli scrittori del passato e del presente (da Shakespeare a Simone Weil, dalla Dickinson all’ancora scandaloso Pound), in cui rintracciare il suo stesso amore per la bellezza e la ricerca della perfezione nello stile. Eppure, proprio mentre rivendicava la propria marginalità rispetto alla cultura dominante, intorno a lei (che all’anagrafe faceva Vittoria Guerrini, ma che adottò la via dello pseudonimo per coprire anche la sua biografia, oltre che l’opera) venne a crearsi una specie di cerchia di adepti, alcuni in odore di luciferina irregolarità, altri fedeli di un gusto estetico poco al passo con i tempi, altri ancora occulti seguaci a metà strada fra tradizione e misteri esoterici.
Adelphi (la casa editrice che, ripubblicandone l’opera, l’ha riproposta in una vita postuma) e Morcelliana danno ora alle stampe due suoi volumi di lettere: il primo raccoglie quelle inviate a Leone Traverso (Caro Bul, pagg. 214, euro 19), germanista e traduttore di Pindaro; il secondo presenta la corrispondenza con Alessandro Spina (Carteggio, pagg. 253, euro 14), scrittore maronita, autore di romanzi e racconti quasi tutti ambientati in Africa. Anche questi epistolari della Campo, come quelli già editi, rivelano l’«ardente protendersi» nelle passioni di una vita, nella ricerca senza sosta di quel «libro perfetto», che si offra come una dimora in un’epoca che l’ha relegata alla clandestinità. È solo nello stile che Cristina cerca al tempo stesso un rifugio e un mezzo di comunicazione: il culto della parola e della lingua diventa un esercizio di umanità, ma anche di solitaria sublimazione, in quel novecentesco impasse culturale e morale che decreta il trionfo di libri liquidati come «pezzi di carogna».
Nelle lettere inviate a Spina e a Traverso, viene esaltata invece la funzione maieutica che la scrittrice assume nell’ascolto e nella condivisione della letteratura con i pochi amici, riconosciuti ospiti dello stesso «paese» immaginario di cui lei si sente abitante. Mentre il conformismo della cultura italiana impone agli artisti di impegnarsi nella politica e in una malintesa battaglia per il progresso, la Campo invece opta - anche fisicamente - per la rinfrancante soluzione della reclusione, ritirandosi nel 1965, alla morte del padre (il maestro di musica Guido Guerrini, direttore del conservatorio di Santa Cecilia), sull’Aventino, accanto all’abbazia benedettina di Sant’Anselmo, di cui ammira, come scrive a Traverso, la «meravigliosa atmosfera da medioevo tedesco» e i «perfetti cerimoniali gregoriani».
Il Concilio Vaticano II le toglierà di lì a poco anche la consolazione della liturgia tradizionale e della messa in latino, che insieme ai riti bizantini rappresentavano gli ultimi strumenti con cui tradurre esteticamente la sua sete di assoluto. Era l’ennesima deriva della modernità, con il trionfo della materia, della volgarità e la profana cancellazione dei retaggi e delle tradizioni ormai spente in una civiltà senza più identità e appartenenza.
L’emarginazione, pure violata dalla comunione spirituale con i suoi interlocutori non era che la ricerca di un esilio silenzioso, lontano da una terra e da un «tempo in cui tutto viene meno» e in cui la «grazia» e il «mistero» sono ormai «sul punto di scomparire» (qui è impossibile non rintracciare un’affinità di sensibilità e di ideologia con l’altra grande scrittrice antimoderna del Novecento, Anna Maria Ortese). La Campo trovò nella scrittura un luogo di cittadinanza, salvandosi, come scrisse a Traverso nel 1964, «dal fango di quell’irrimediabile demi-monde» che è «l’ambiente dei premi letterari» e della cultura ufficiale. Orgogliosa, lei autrice di libri che definiva «asburgici» o «borbonici», di avere «contro tutto il costume italiano in blocco: centro-sinistra, neo-realismo, paura di tutto e tutti». Soprattutto «paura del diverso dal solito».