La lunga storia dei peccati
di Umberto Galimberti - 12/09/2007
Monsignor Ravasi e i vizi capitaliBernard De Mandeville si diceva convinto che si poteva essere molto più viziosi
Il nostro tempo non li considera più colpe: del goloso si dice che ha un buon rapporto con il cibo, del lussurioso che ha un debole per le donne, ma già Aristotele ne parlava
Il problema è come conciliare cultura cristiana e benessere occidentale
Monsignor Gianfranco Ravasi (Monsignore ancora per poco, perché è stata annunciata la sua nomina ad Arcivescovo nonché Presidente del Pontificio consiglio per la cultura e il dialogo interreligioso, carica che equivale a Ministro della cultura, in sostituzione del dimissionario Card. Paul Poupard, cfr. l´intervista qui a fianco, ndr) prima di congedarsi dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano, che diresse con straordinaria intelligenza e cura, recuperandola dalla sua fatiscenza, ha scritto un libro Le porte del peccato. I sette vizi capitali (Mondadori, pagg. 244, euro 17,50) che si distingue dagli altri, apparsi in questi anni sullo stesso argomento, perché attinge non solo alla tradizione teologica delle Scritture, di cui è uno dei massimi competenti, ma anche dai soggetti letterari e dai personaggi più emblematici della letteratura europea, passando attraverso le rappresentazioni pittoriche, gli assunti della psicoanalisi e le rappresentazioni cinematografiche, per cui, anche chi non crede che i vizi siano peccati, leggendo il libro ha modo di attraversare i luoghi eminenti della cultura europea e riscoprire spaccati interessanti e curiosi di tutte le possibili tipologie umane.
Perché ancora un libro sui vizi capitali? Perché il nostro tempo li ha derubricati dalla categoria del peccato, per cui del goloso si dice che "ha un buon rapporto col cibo", del lussurioso che "ha un debole per le donne", del superbo che "è orgoglioso e ha una buona consapevolezza di sé", dell´iroso che "ha carattere", del pigro "che non si lascia travolgere dal ritmo stressante della vita moderna", dell´invidioso che "ha una buona capacità di emulazione" e infine dell´avaro che "è oculato e parsimonioso". E´ vero, come diceva Karl Kraus che: «Il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e il diamante», ma Gianfranco Ravasi vuole tenerli rigorosamente separati, per non annullare la libertà dell´uomo e la sua capacità di scelta consapevole, a partire dalla quale non è la stessa cosa orientarsi verso il vizio o verso la virtù.
I vizi capitali fanno la loro prima comparsa in Aristotele che li qualifica: «Abiti del male». Essi, al pari della virtù, derivano dalla ripetizione di azioni che, iterate, formano nel soggetto un "abito" o, come dice Aristotele nell´Etica a Nicomaco, una "seconda natura", che inclina l´individuo in una certa direzione. Di qui l´importanza dell´educazione, il cui scopo è di allenare il giovane all´acquisizione di abiti buoni.
Nel medioevo questi vizi non sono più letti come abiti contratti da cattive abitudini, ma come un´opposizione della volontà dell´uomo alla volontà di Dio. Ce ne parla Tommaso d´Aquino nella Summa Theologica, dove questi vizi sono elencati nella successione che noi oggi conosciamo.
Ma il vero riscatto dei vizi e la loro derubricazione dalla categoria del "peccato", su cui invece insiste il libro di Ravasi, avviene nell´età dei lumi, dove la differenza tra vizi e virtù perde rilevanza perché, al pari delle virtù, anche i vizi concorrono allo sviluppo dell´industria, del commercio e del benessere sociale. Di questo è persuaso ad esempio Bernard De Mandeville che, nel paragrafo conclusivo del suo trattato: Modesta difesa delle pubbliche case di piacere (1724), scrive: «A dir breve, una cosa è certa, che al momento in cui scrivo, non siamo abbastanza viziosi quanto lo si potrebbe essere, e io spero d´aver mostrato a sufficienza come si possa far di meglio».
Questo elogio del vizio non nasce da una privata concupiscenza di Bernard De Mandeville, ma da un ragionamento che ha dalla sua una certa plausibilità. Nel 1705 Mandeville aveva pubblicato La favola delle api, un breve poema nel quale si narra come un alveare fosse prospero e vizioso e come, in seguito a una riforma dei costumi, perdette la prosperità insieme al vizio. Il paradosso su cui il libro è imperniato è espresso nel sottotitolo Vizi privati, pubblici benefici. Nella conclusione del trattato Mandeville scrive che: «Né le qualità socievoli, né le affezioni benevole che sono naturali all´uomo, né le virtù reali che egli è capace di acquistare con la ragione e con l´abnegazione, sono il fondamento della società; ma ciò che noi chiamiamo "male" in questo mondo, male morale o naturale, è il gran principio che ci fa creature socievoli, la solida base, la vita e il sostegno di tutti i commerci e gli impieghi senza eccezione».
Per Mandeville, dunque, se il male cessasse, la società si avvierebbe al suo dissolvimento. Il motivo che più frequentemente ricorre a sostegno di questa tesi è che la tendenza al lusso aumenti i consumi e quindi porta all´incremento dei traffici, delle industrie e di tutte le attività umane. Per "lusso" Mandeville intende tutto ciò che non è necessario all´esistenza di un "nudo selvaggio".
E poiché la virtù consiste essenzialmente nella rinuncia al lusso, essa è direttamente contraria al benessere e allo sviluppo della società civile.
Siamo nel 1700, nel secolo in cui l´economia politica con Adam Smith diventa scienza, e in cui i filosofi morali pongono le basi delle buone e delle cattive condotte, a cui attingeranno a piene mani, senza mai riconoscerlo, la psichiatria e la psicoanalisi del secolo successivo. Fu così che, dopo la lezione illuminista, i vizi capitali, anche se non in modo sistematico, compaiono nella Metafisica dei costumi di Kant e soprattutto nella sua Antropologia pragmatica dove, accanto alla segnalazione della deviazione morale, si fa strada una lettura nuova che vede nel vizio un´espressione della tipologia umana o, come dice Kant, di una "caratteriologia" (l´avaro, il lussurioso, il superbo, eccetera).
Siccome l´Antropologia pragmatica di Kant è diventato a sua volta il testo base per la costruzione dei grandi trattati di psichiatria dell´Ottocento, da Griesinger a Wernicke, da Kraepelin a Freud, i vizi, da espressione di una "tipologia" umana, diventano manifestazione della sua "psicopatologia". E così fuoriescono dal mondo "morale" per fare il loro ingresso in quello "patologico". Non più vizi, ma malattie: le malattie dello spirito.
Quando la condotta umana diventa di competenza della scienza medica e della visione deterministica che la caratterizza, l´uomo perde la sua libertà che invece la morale gli accorda. E perciò Ravasi scrive il suo libro con l´esplicita intenzione di riconsegnare i vizi alla morale che, a differenza della patologia, prevede anche un riscatto e una possibile liberazione dalla loro tirannide.
Ma a questo punto si affaccia un´obiezione che non può essere evitata. Se la virtù, come il cristianesimo ce l´ha insegnata, è essenzialmente moderazione quando non mortificazione del desiderio e del bisogno, come è praticabile oggi in una società organizzata essenzialmente, come la pubblicità quotidianamente ci mostra, per soddisfare tutti i bisogni e tutti i desideri?
Come conciliare la cultura cristiana che tutti individuano come forma dell´Occidente con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali?
Come conciliare l´etica della mortificazione, che il cristianesimo ci ha insegnato in tutta la sua storia caratterizzata da un´economia di sussistenza, con l´opulenza offertaci dalla produzione e dal consumo di beni, dove la soddisfazione dei bisogni (e non la loro mortificazione) è un fattore economico, e dove la soddisfazione dei vizi è il secondo fattore dopo che i bisogni sono stati soddisfatti? Come si fa a essere cristiani e quindi "mortificati" in un´epoca in cui la società è aggregata dall´economia che per la sua sussistenza non chiede mortificazione, ma consumo e soddisfazione? Varrebbe la pena di far esplodere questa contraddizione che di solito non appare perché un piccolo trucco la nasconde. Dice il trucco: il cristianesimo è una religione, l´economia è una forma di scambio con cui si regola la produzione e la distribuzione dei beni. Certo. Ma potremmo anche dire: il cristianesimo è una morale (della mortificazione) e l´economia è un´altra morale (della soddisfazione).
Le due morali sono incompatibili, per cui parlare di un´economia cristiana ha lo stesso significato e spessore logico di un circolo quadrato, con buona pace di tutti i benpensanti che ritengono di poter fare quadrare il cerchio. Nel momento infatti in cui la società è passata dallo stato di bisogno allo stato di soddisfazione del bisogno, la morale del cristianesimo ha finito la sua storia, e quindi o emigra nel terzo o nel quarto mondo dove vive la mortificazione del bisogno, o sparisce. E già se ne vedono i segni, facilmente leggibili se si evita quell´altro trucco che, contrapponendo la civiltà cristiana alla civiltà islamica, nasconde la vera contrapposizione che è tra ricchezza dell´Occidente e povertà del mondo, tra i viziosi per forza e i virtuosi per necessità.
Qui il cristianesimo, se vuole essere credibile, deve incominciare a far nuove riflessioni a partire dalla povertà del mondo, che è il disastro etico che fa impallidire tutti i problemi morali su cui la Chiesa tanto insiste e si accanisce.