Le ultime scoperte «smontano» la teoria dell'evoluzione Darwiniana. Smentiti dalla natura
di Massimo Piattelli Palmarini - 04/11/2007
Meravigliose istituzioni, le grandi università americane. Ciascuna ha la sua stazione radio di musica classica, come quelle che conosco, di Harvard e dell'Arizona: amano trasmettere brani di compositori i cui nomi ignoro assolutamente, benché per tutta la vita io abbia ascoltato musica classica. Per esempio, oggi, nel giorno in cui scrivo, la seconda ha trasmesso musiche di Charles Tournemire, Johann Heinicken, Miguel Bernal e Arnold Bax. Bruttine, ammettiamolo pure. Spesso cambio sintonizzazione, ma mi sono anche sforzato di ascoltare questi minori. Non si sa mai, potrei fare qualche scoperta folgorante. Il punto è che ciò non è mai, per ora almeno, avvenuto. I compositori minori e sconosciuti lo sono, direi, per buoni motivi.Lungo secoli e decenni il gusto musicale internazionale ha selezionato opere di Beethoven, Bach, Brahms, Wagner e altri giganti, ma non quelle di Tournemire o Bax. Le ore di ascolto sono quello che sono, non tante. Le risorse materiali delle case discografiche e delle sale da concerto sono limitate, quindi esiste una lotta per la sopravvivenza anche in questo campo piuttosto etereo. Ed è inevitabile che vincano i migliori. Una selezione di tipo darwiniano o qualcosa del genere. È una banalità dirlo, perché vale un principio generalissimo, quasi una verità di pura ragione, secondo il quale, in popolazioni di entità che si auto-riproducono nel tempo (come i batteri, le api e i ratti) o vengono riprodotte da qualcosa o qualcuno (come le sinfonie, le automobili, i jeans e la pizza), alla lunga, i portatori di caratteri che accelerano, per un motivo qualunque, il loro proprio tasso di riproduzione, si diffonderanno, a scapito di coloro che non li portano.
Potranno addirittura, in certe condizioni, diventare gli unici che si riproducono. Questo principio è talmente universale e irrefutabile che i neo-darwiniani sfoderano, per così dire, il revolver non appena qualcuno si permette di criticarlo. O meglio, non di criticare questo principio in quanto tale, il che sarebbe insensato, ma la tesi neo-darwiniana che questo principio basti da solo (ripetiamolo pure, da solo) a spiegare tutte le forme viventi e le loro intricate relazioni. Si sentono, allora, investiti da un ruolo assoluto: quello di proteggere la razionalità scientifica.
Questo è successo puntualmente anche la scorsa settimana al filosofo cognitivo americano Jerry Fodor, integralmente ateo e integralmente razionalista, che ha osato pubblicare nella «London Review of Books» un articol o giudiziosamente anti-darwiniano, intitolato «Perché i porci non hanno le ali». Centinaia di lettere di insulti e tre dettagliate critiche accademiche si sono accumulate nel suo computer. Di sfuggita, Fodor annuncia un libro che lui ed io insieme stiamo progettando: ho ricevuto, di rimbalzo, già due inviti a convegni, due offerte di pubblicazione da parte di editori americani e una dozzina di lettere perplesse da parte di colleghi. Eppure, la parte che mi riprometto di svolgere in una sezione di quel libro consiste semplicemente nell'allineare e organizzare dati e considerazioni sviluppate dai più qualificati biologi e genetisti negli ultimi anni. Fodor, da filosofo dell a mente, mostra che il neo-darwinismo ortodosso è minato dall'interno, da nozioni che, per funzionare come si vorrebbe, presuppongono ciò che pretendono di spiegare. Per esempio, la nozione «selezionato per» («il cuore è stato selezionato per pompare il sangue») importata dall'ingegneria, dal progettare umano, quella corrispondenza tra organi e funzioni che la cieca opera evoluzionistica non può da sola fornire. Il principio darwiniano, generalissimo, non si lascia, infatti, calare nei dettagli: perché un dato organo o tratto (per esempio la monogamia in alcune specie, la poligamia in altre) sarebbero stati selezionati. La forcella indesiderabile di opzioni alla quale Fodor vede costretti i neo-darwiniani è quella di scegliere tra l'attribuzione di un qualche micro- progetto, una micro-intenzione, alla natura, oppure tirare a indovinare, a lume di naso, i risultati della selezione naturale. La biologia contemporanea ha offerto una panoplia di processi evolutivi che si sommano alla classica selezione del più adatto. Quest'ultima esiste, ma è una fonte marginale delle architetture biologiche.
Esistono «geni maestri», fondamentalmente gli stessi dal moscerino all'uomo, organizzati in complesse reti, che hanno sotto controllo lo sviluppo e il funzionamento di organi svariatissimi nello stesso individuo (per esempio, nei mammiferi, corteccia cerebrale, fegato, gonadi e reni, oppure cresta neurale, fegato, orecchi, occhi e colonna vertebrale). Una qualsiasi selezione per una qualsiasi di queste funzioni si trascina dietro ineluttabilmente cambiamenti in tutte le altre. Come il genetista Edoardo Boncinelli ha sottolineato, è facile credere di spiegare selettivamente un certo cambiamento nel cervello umano, quando ciò che è stato selezionato è magari il funzionamento dei reni imposto dalla stazione bipede. E una corteccia più sviluppata è venuta in sovrappiù. Un'altra scoperta importante è stata quella del trascinamento di organi e connessioni, indotto da una mutazione che colpisce un diverso organo. Nel fringuello, per esempio (uccello tanto caro a Darwin) una mutazione che altera la forma della metà superiore del becco si trascina dietro cambiamenti congrui nelle ossa del cranio, la parte inferiore del becco, i muscoli del collo e i nervi. Un caso tra tanti, che ribadisce la coordinazione tra le diverse parti di un organismo vivente, il «dialogo tra i tessuti viventi», secondo l'espressione felice di Marc Kirschner, capo del dipartimento di biologia dei sistemi a Harvard. Tutto questo e tanto altro cospira contro la possibilità, per il gioco cieco della natura, di selezionare e affinare separatamente ogni organo, tratto, meccanismo, e per noi di spiegare la loro forma e funzione uno ad uno, attraverso trasparenti storielle di adattamento progressivo. Infine, non va trascurato il ritorno massiccio delle leggi della forma, cioè di fattori di ottimizzazione globale, comuni a specie diversissime e dovuti alla fisica più che alla biologia. Ne bastino due. La densità di connessioni nervose e la distribuzione dei gangli nervosi, dall'umilissimo verme di terra (il nematode) al macaco (e a noi) è ottimale, tra decine di milioni di possibili varianti esaminate pazientemente al computer da Christopher Cherniak all'Università del Maryland. Migliore anche della connettività pazientemente ingegnerizzata nelle migliori microchip oggi ottenibili industrialmente. Cherniak sottolinea che si tratta di processi innati di ottimizzazione, ma non specificati, in quanto tali, dai geni. La seconda straordinaria ottimizzazione naturale è quella dei circa centomila chilometri di vene, arterie e capillari che ciascuno dei nostri corpi contiene. West, Brown ed Enquist (al Santa Fe Institute) hanno dimostrato matematicamente che l'organizzazione di tutti questi vasi di trasporto, nel più piccolo mammifero come nella balena, segue la legge particolare dei cosiddetti frattali perfetti. In parole semplici la rete minimizza i costi di trasporto e ottimizza gli scambi. Queste soluzioni ottimali del mondo biologico non sono certo state selezionate darwinianamente a partire da tentativi a casaccio. Non ci sono state decine di milioni di generazioni di macachi il cui cervello ha tentato a casaccio tutte le soluzioni possibili.
La selezione ha dovuto essa stessa seguire dei binari stretti, imposti dalla fisica e da principi generali di ottimizzazione. Come ama dire Antonio Coutinho, immunologo dell'Institut Pasteur, i sassi cadono in terra per la forza di gravità, non perché la selezione naturale ha eliminato tutti quelli che tendevano ad ascendere in alto. Il titolo del libro di Fodor e mio, per ora provvisorio, potrebbe, quindi, ben essere «evoluzione senza adattamento».