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L'occupante meschino: Smascherata la Camp David di Israele

di Jonathan Cook* - 27/01/2008





Dopo sette anni di voci e di monografie fini a se stesse, i media israeliani hanno finalmente pubblicato alcuni stralci di una fonte ufficiale relativi ai negoziati di Camp David dell’estate del 2000. Per la prima volta è possibile valutare in modo abbastanza certo la portata della “generosa offerta” dell’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak ai palestinesi e i motivi per cui Yasser Arafat la rifiutò.

Inoltre, il documento offre degli spunti interessanti relativamente agli obiettivi di più ampia portata che Israele sperava di raggiungere a Camp David e su come ambizioni simili siano alla base delle politiche israeliane anceh di oggi.

L’articolo di 26 pagine, rivelato al quotidiano Haaretz, era stato redatto dalle istituzioni politiche e di sicurezza del paese sulla scia di Camp David ed era inteso come guida ai motivi di divisione delle parti. Intitolato "Stato del processo diplomatico con i palestinesi: punti per aggiornare il nuovo Primo Ministro”, è stato redatto in tempo per le elezioni generali del febbraio 2001.

Sebbene sia distante dall’unico resoconto sui negoziati di Camp David, è il primo documento ufficiale che spieghi cosa è successo. E non si può certo dire che non comprenda le posizioni di Israele.

Il documento è emerso il mese scorso, dopo essere stato presentato al Primo Ministro israeliano Ehud Olmert per prepararlo al suo incontro con i palestinesi ad Annapolis. Per la prima volta dopo il fallimento di Camp David e dopo le successive trattative di Taba avvenute qualche mese più tardi, Olmert, sotto pressioni statunitensi, aveva acconsentito a riprendere i negoziati. É ovvio che, lungi dal rivedere la sua posizione alla luce dell'impasse di Camp David, Olmert ha scelto di adottare alcune tra le posizioni più rigide di Barak.

I primi negoziati, nel luglio del 2000, hanno rappresentato il tentativo di Barak di porre fine a tutte le questioni irrisolte nel conflitto tra Israele e i palestinesi e che non erano stati affrontati in occasione di una serie di ritiri israeliani dai territori occupati, stabiliti dagli Accordi di Oslo.

Barak, sostenuto dall’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, ha spinto il presidente dell’Autorità palestinese verso i frettolosi negoziati sullo status finale, anche se il leader palestinese riteneva che fosse necessario più tempo per creare un rapporto di fiducia tra le due parti. In contrasto con lo spirito degli Accordi di Oslo, Israele aveva raddoppiato, nel corso degli anni ’90, il numero di coloni illegali nei territori occupati e non aveva portato a termine tutti i ritiri promessi.

Forse non deve sorprendere il fatto che il documento israeliano non riconosca l’offerta più generosa che sia stata fatta durante i sei decenni di conflitto israelo-palestinese: la decisione da parte dell’OLP alla fine degli anni '80 di rinunciare alla rivendicazione di buona parte della patria palestinese, e di accordarsi per uno stato nei due territori separati della West Bank e di Gaza - che rappresentano solo il 22 percento della Palestina storica.

Quindi, tenendo presente la concessione massiccia di territori da parte della leadership palestinese 20 anni fa, quali sono le condizioni di Barak? Il documento ci dice che Barak insistette su tre principi fondamentali per giungere ad un accordo sulla fine dell’occupazione e sull’istituzione di uno stato palestinese:

1. I blocchi di insediamenti israeliani illegali dovevano essere mantenuti e l'80 percento dei coloni doveva rimanere nella West Bank, su territori che dovevano essere annessi ad Israele.

La West Bank rappresenta la parte principale di un eventuale stato Palestinese. Secondo il documento, circa l’otto percento del territorio doveva essere annesso a Israele per il mantenimento degli insediamenti. In cambio, i palestinesi sarebbero stati ricompensati con un triangolo molto più piccolo di territorio israeliano e di valore molto inferiore, probabilmente nel deserto del Negev.

La proposta di Israele prevedeva che circa 400.000 ebrei vivessero nella West Bank e a Gerusalemme Est, all'intero di comunità fortificate e collegate da strade dei coloni, alcune delle quali sono collegate ad Israele, mentre altre attraversano il territorio. Gli insediamenti e le infrastrutture necessarie per il loro mantenimento sarebbero state off-limits per i palestinesi e presidiate dall'esercito, costituendo, di fatto, delle aree israeliane chiuse e militarizzate nel cuore della West Bank. Tutti ingredienti di una ricetta perfetta per distruggere la vitalità economica dello stato palestinese che veniva proposto. Si chiedeva ad Arafat di approvare un labirinto di corridoi di terra israeliana che avrebbe consolidato una serie di ghetti palestinesi spacciandoli per uno stato.

2. Un'ampia "fascia di sicurezz", controllata dall'esercito israeliano, doveva essere mantenuta lungo la Valle del Giordano nella West Bank, dal Mar Morto fino all’insediamento ebreo settentrionale di Meholah.

Tale fascia di sicurezza esiste già, quindi non è necessario fare considerazioni su come sarebbe. Poche migliaia di coloni nella Valle del Giordano hanno garantito che quell’area, circa un quinto della West Bank, fosse tutto tranne che annessa a Israele per decenni. Alla maggior parte dei palestinesi, tranne a quelli che vivono nella Valle stessa, è proibito entrarvi. La Valle è una delle zone più fertili della West Bank e il suo enorme potenziale agricolo è attualmente sfruttato per lo più da Israele. Privare i palestinesi del controllo territoriale ed economico sulla Valle, sarebbe un altro fattore che renderebbe impossibile la vitalità economica dello stato palestinese.

3. Israele pretendeva concessioni territoriali massicce a Gerusalemme Est, in linea con l'annessione illegittima della parte della città occupata da Israele nel 1967.
Israele voleva mantenere la contiguità territoriale per i suoi insediamenti illegittimi di Gerusalemme Est, dove vivevano circa 250.000 ebrei e dove i cittadini palestinesi erano stati forzati, di conseguenza, in una serie di “bolle”, come le definisce il quotidiano Haaretz.

Il mantenimento a Gerusalemme degli attuali confini municipali estesi israeliani, avrebbe avuto due conseguenze dannose per i palestinesi: innanzitutto avrebbe separato la città, il polo turistico ed economico di un eventuale stato palestinese, dal resto della West Bank; in secondo luogo, i vasti insediamenti di Maale Adumim e di Har Homa, costruiti in pieno territorio palestinese, ma considerati da Israele come parte di Gerusalemme, sarebbero rimasti sotto sovranità israeliana. La West Bank sarebbe stata divisa in due, limitando ulteriormente la libertà di movimento dei palestinesi all’interno di questa zona.

Nella Città Vecchia, Israele pretendeva che i quartieri ebreo ed armeno nonché parte del cosiddetto "bacino sacro" al di fuori delle mura fossero annessi a Israele e che le moschee del Nobile Santuario (il Monte del Tempio per gli ebrei) fossero poste sotto sovranità “ambigua”, che sarebbe stata senza dubbio sfruttata in seguito dalla parte più forte, Israele. Queste pretese avrebbero garantito che le aree palestinesi sarebbero state suddivise in una serie di ghetti, un riflesso le politiche israeliane per la West Bank.

Inoltre, Israele sperava che Camp David legittimasse tardivamente l’annessione da parte sua e la pulizia etnica del 1967 di un'area della West Bank vicina a Gerusalemme, il Latrun Salient. Oggi quest’area è stata trasformata dal Jewish National Fund in una riserva naturale “israeliana”, il Canada Park che utilizza delle donazioni non soggette a tassazione provenienti da cittadini canadesi.

Il risultato complessivo di queste “generose” offerte era di offrire ai palestinesi molto meno del restante 22 percento della loro patria storica. Avrebbero dovuto sottrarre ad uno stato composto da Gaza e dalla West Bank, buona parte della municipalità estesa di Gerusalemme e il Latrun Salient, l’otto percento della West Bank, per ospitare gli insediamenti, nonché un ulteriore 20 percento per una fascia di sicurezza nella Valle del Giordano.

In altre parole si richiedeva ai palestinesi di firmare un trattato che gli avrebbe riconosciuto una sovranità notevolmente compromessa su non più del 14 percento della loro patria storica – qualcosa di molto simile ai Bantustan che sono stati creati per loro prima e dopo Camp David dalla crescita degli insediamenti e dalla strisciante annessione del loro territorio attraverso il muro di separazione.

Ma, in cambio della "generosità" di Barak, quali sono state le contro-richieste dei palestinesi che hanno fatto naufragare i negoziati, “smascherando” Arafat, come hanno a lungo sostenuto Barak e Clinton? Quali prove schiaccianti vengono addotte?

Secondo il documento, i palestinesi erano disposti ad andare incontro alle “esigenze demografiche" di Israele e a concordare in merito ai cambiamenti dei confini. Tuttavia, insistettero su due condizioni: che le annessioni di Israele nella West Bank non superassero il 2,3 percento del territorio e che eventuali scambi di territori fossero basati sul principio dell’equità. Sembra che Israele non potesse accettare nessuna delle due condizioni.

Inoltre, i palestinesi volevano che il corridoio di terra che univa le due parti del loro stato, la West Bank e Gaza, fosse sotto loro sovranità, presumibilmente per evitare che tali collegamenti potessero essere interrotti per capriccio d’Israele. Per giunta, Arafat si aspettava gli annessi e connessi classici di uno Stato: un esercito e il controllo sullo spazio aereo palestinese. Israele si oppose a tutte queste richieste.

Per quanto riguarda Gerusalemme, i palestinesi volevano una “città aperta”, molto in linea con il Piano di Partizione Onu del 1947, collegata sia all’hinterland israeliano che a quello palestinese. I palestinesi si opposero alla prospettiva di vivere in “bolle” e richiedevano, invece, la contiguità territoriale a Gerusalemme Est. Volevano anche la maggior parte del quartiere armeno nella Città Vecchia, anche se sembravano pronti a cedere il quartiere ebreo, in cui nel 1967 aveva avuto luogo una pulizia etnica dei Palestinesi.

Per quanto riguarda l’altra questione controversa, Arafat voleva che Israele ammettesse di essere l’unico responsabile dei rifugiati palestinesi, creati dalla guerra del 1948. Tuttavia, il documento sottolinea che i palestinesi "dimostrano di comprendere la delicatezza della questione per Israele e di essere disposti a trovare una formula nella quale si raggiungesse un equilibrio tra questi sentimenti e le loro esigenze nazionali". Questo indica, quanto meno, che la leadership palestinese era disposta a trattare sulla questione dei rifugiati.

Secondo alcuni critici, Barak intraprese i negoziati di Camp David in cattiva fede, ponendo degli ostacoli talmente alti che era impossibile che Israele e i palestinesi potessero raggiungere un accordo. Ma perché Barak avrebbe voluto o, perlomeno, rischiato un risultato del genere? Questo documento suggerisce due motivi interrelati.

Innanzitutto, fa notare che contemporaneamente ai preparativi per Camp David, Barak lavorara ad un "piano di divisione" nel caso in cui i negoziati fossero falliti. Lo schema era pronto a giungo del 2000, un mese prima dei negoziati ed è stato approvato dal Consiglio dei Ministri sulla scia immediata dell'intifada, nell’ottobre del 2000. Secondo il quotidiano Haaretz, la proposta di divisone di Barak riguardava tutti gli aspetti della vita palestinese e la sua attuazione avrebbe richiesto parecchi anni.

Molti di queste trattative segrete di Barak sono riportate nel mio libro “Sangue e Religione”, tra cui anche il fatto che il suo vice ministro per la difesa, Ephraim Sneh, aveva disegnato una “cartina della divisione” appena prima di Camp David. "Egli [Barak] era molto orgoglioso del fatto che la sua cartina avrebbe lasciato a Israele circa un terzo del territorio [della West Bank]”, osserverà più tardi Shlomo Ben Ami, il negoziatore capo di Barak durante i negoziati. Secondo Ben Ami, il Primo Ministro, relativamente ai ghetti che intendeva lasciare ai palestinesi avrebbe detto: "Guarda, è uno stato, a tutti gli effetti sembra uno stato".

Dopo che Barak perse la carica all’inizio del 2001, fece pubblicamente pressione prima di tutto per una separazione unilaterale e, in seguito, per il ritiro. Il suo mentore militare, nonché successore in qualità di Primo Ministro, Ariel Sharon, è stato persuaso, suo malgrado, ad abbandonare le sue posizioni massimaliste e ad intraprendere il piano di Barak. Acconsentì al risultato logico della separazione, il muro nella West Bank, nell'estate del 2002 e al ritiro da Gaza all’inizio del 2004.

Dal documento sembra chiaro che Barak e gran parte della leadership israeliana presupponevano fin dall’inizio che avrebbero dovuto rinchiudere i palestinesi in ghetti o in qualcosa di simile ai Bantustan del Sud Africa dell’apartheid. Il fallimento di Campo David ha semplicemente fornito a Barak e ai suoi successori il pretesto per mettere in atto questa politica.

In secondo luogo, il documento rivela che Barak fece una richiesta ad Arafat sebbene avrebbe dovuto sapere che il leader palestinese non avrebbe potuto accettarla. Barak non voleva il riconoscimento formale di Israele, ma di Israele come stato ebraico. Dall'estorsione di questa concessione dipendeva molto di più di una semplice questione semantica. Richiedeva che Arafat rinunciasse ai diritti di due gruppi che compongono la stragrande maggioranza dei palestinesi.

Il riconoscimento di Israele come stato ebraico avrebbe significato rinunciare al diritto – tutelato dalle leggi internazionali e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite – che i rifugiati hanno sulle case da cui sono stati cacciati tramite la pulizia etnica ad opera dell’esercito israeliano nel 1948. Il loro diritto di ritornare, indipendentemente dall'effettiva realizzazione pratica, è sempre stato sacrosanto per i palestinesi.

Inoltre, il riconoscimento avrebbe condannato più di un milione di cittadini palestinesi di Israele ad avere lo status permanente di estranei emarginati in uno stato etnico che privilegia i diritti degli ebrei sui non ebrei. Di fatto, si richiedeva ad Arafat di dare la sua benedizione ai tentativi israeliani di dichiarare illegale la campagna della minoranza palestinese per la riforma del paese verso "uno stato di tutti i cittadini", Ovvero verso una democrazia liberale.

Sia Olmert che il suo Ministro degli Esteri, Tzipi Livni, hanno ricevuto istruzioni in merito al documento di Camp David prima del loro incontro con l'attuale presidente dell'Autorità Palestinese, Abu Mazen, ad Annapolis. È quindi importante notare che, invece di abbandonare una richiesta che aveva fatto naufragare i negoziati di Camp David, entrambi hanno fatto del riconoscimento di Israele come stato ebraico un argomento decisivo per le trattative,addirittura prima che le due parti si incontrassero.

Un'altra cosa interessante è che, mentre Barak era riluttante a rendere pubblica la richiesta che aveva posto ad Arafat a Camp David, il governo di Olmert l'ha sbandierata ai quattro venti. Perché questa inversione di marcia?

La spiegazione più probabile è che Barak si aspettava che Camp David fallisse e temeva che la sua richiesta di riconoscimento potesse svelare le altre ragioni di Israele. Olmert, invece, è riuscito a presentare il riconoscimento di Israele come il banco di prova per verificare se i palestinesi intendono seriamente accettare una soluzione che prevede due stati. È una manovra che ha portato a compimento l’anno scorso quando aveva bisogno di mettere l’opinione pubblica mondiale contro Hamas, dopo la sua vittoria alle elezioni.

In realtà, il bisogno di Israele di essere riconosciuto come stato ebraico dimostra che non è uno stato democratico, quanto, piuttosto, uno stato etnico che ha bisogno di difendere i privilegi razzisti attraverso la manipolazione dei confini e della popolazione. Di fatto, Olmert potrebbe usare il test del riconoscimento per spingere Abu Mazen, un leader palestinese debole e non rappresentativo, proprio nell’angolo che Arafat aveva evitato.

Prima di Annapolis, Livni dichiara: "Deve essere chiaro a tutti che lo stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico", aggiungendo che i cittadini palestinesi di Israele avrebbero dovuto abbandonare le loro richieste di uguaglianza nel momento in cui la leadership palestinese avesse accettato la formazione di uno stato alle condizioni israeliane.

Olmert ha strutturato i negoziati di Annapolis nello stesso modo. Si trattava di creare due nazioni e dice: "Lo stato di Israele  -la nazione del popolo ebraico e lo stato palestinese – la nazione del popolo palestinese."

Il grande timore, più volte evidenziato da Olmert, è che i palestinesi si alzino una mattina e realizzino che dopo le delusioni di Oslo e di Camp David, Israele non gli concederà mai uno stato in grado di essere vitale. La strada migliore, potrebbero decidere, è una lotta in stile sudafricano per una persona, un voto in un solo stato democratico.

Anche recentemente Olmert ha messo in guardia rispetto a questa minaccia: "La scelta ... è tra uno stato ebraico su parte del territorio di Israele e uno stato con due nazionalità su tutto il territorio di Israele."

Di fronte a questo pericolo Olmert, come Sharon e Barak prima di lui, si è reso conto che Israele deve urgentemente persuadere Abu Mazen a sottoscrivere l’opzione che prevede due stati. Naturalmente, non due stati democratici o, semplicemente, realizzabili, ma uno stato ebraico razzista accanto ad uno stato-ghetto palestinese.

(Traduzione di Francesca Franchi per Osservatorio Iraq)

The Electronic Intifada
L’articolo in lingua originale

*Jonathan Cook è giornalista e vive a Nazareth, Israele. Il suo ultimo libro "Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East" sarà pubblicato il mese prossimo. Il suo sito è www.jkcook.net