Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità
di Massimo Bontempelli - 16/02/2008
I.
Sussunzione formale e sussunzione reale.Le categorie con le quali Marx ha concettualizzato il modo capitalistico di
produzione un secolo e mezzo fa, lungi dall’essere state mostrate erronee, o
comunque rese inadeguate, dal tempo trascorso, hanno una straordinaria
capacità interpretativa proprio riguardo al nostro presente storico. In
particolare, la coppia categoriale di sussunzione formale e sussunzione reale
del lavoro al capitale consente di comprendere davvero a fondo temi cruciali
come la tecnicizzazione della vita, il tramonto della centralità operaia,
l’adattamento di massa al capitalismo persino in contraddizione con precisi
interessi materiali, la trasformazione antropologica prodotta dallo sviluppo
economico. In questa sede viene discusso quest’ultimo tema, con le sue
importanti implicazioni sociali e politiche.
La coppia categoriale di cui si parla è esposta da Marx, come è noto, non nel
libro del Capitale da lui pubblicato nel 1867, ma nel suo cosiddetto Capitolo VI
inedito, pubblicato postumo soltanto nel 1933. Si tratta di un quaderno
manoscritto di cinquantaquattro pagine, pensato, nel progetto originario del
libro primo del Capitale, per essere collocato dopo il suo quinto capitolo sul
plusvalore assoluto e relativo, con il titolo
Risultati del processo di produzioneimmediato
. Poi l’intero impianto dell’opera è stato modificato al momento dellapubblicazione nel 1867, ed ulteriormente modificato con la seconda edizione
del 1873, lasciando fuori, non si è ancora capito esattamente per quale
ragione, il quaderno sul processo di produzione immediato. Nella
sistemazione definitiva, molti temi del quaderno hanno trovato posto nel
capitolo quinto sul processo lavorativo e processo di valorizzazione, ma,
essendo stati spostati in avanti i capitoli sul plusvalore assoluto e sul
plusvalore relativo, è necessariamente rimasto fuori da capitolo quinto il tema
della doppia sussunzione al capitale, strettamente connesso alla doppia
genesi del plusvalore.
Nel Capitolo VI inedito Marx introduce la categoria di sussunzione al capitale
sdoppiata in sussunzione formale e sussunzione reale. La nozione di
sussunzione come tale è tratta dalla
Critica del Giudizio di Kant, dove laparole (
die Subsumtion, derivata dal verbo subsumieren, cioè inquadrare inuna classificazione) indica la riconduzione di un termine al rapporto insieme di
inclusione e di subordinazione che gli è proprio rispetto ad un termine più
esteso. Marx utilizza la nozione al di fuori dell’ambito della logica, per cui è
stata concepita, riformulandola in modo da inquadrarvi i termini, sociali e non
logici, di capitale e lavoro.
La sussunzione concepita da Marx è infatti sussunzione del lavoro al capitale,
e la distinzione in cui si articola tra sussunzione formale e sussunzione reale
del lavoro al capitale, ricalcata sulla distinzione kantiana tra sussunzione del
particolare all’universale nel giudizio riflettente e in quello determinante, serve
a comprendere il ciclo storico già compiuto attraverso il quale il capitale è
giunto ad assoggettare pienamente a sé il lavoro umano, riducendolo a mera
forza produttrice di plusvalore.
L’operazione concettuale che da tempo propongo per la sua possibile
fecondità interpretativa è quella di riformulare, per trasporla come categoria
illuminante in un più vasto ambito, la nozione marxiana di sussunzione, alla
stessa maniera in cui Marx ha riformulato la nozione kantiana di sussunzione
per riferirla al rapporto tra capitale e lavoro. Si tratta cioè di pensare la
distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale non più soltanto del
lavoro al capitale, ma di contenuti della stessa vita umana al capitale. Con
questa riformulazione, la coppia concettuale di cui si parla consente di
comprendere, molto più che il ciclo storico passato del capitale, quello oggi in
atto e proiettato nel futuro, mostrando quali strade debbano prendere le
pratiche oppositive alla logica sistemica per non ridursi a illusioni.
La nozione marxiana di sussunzione prima formale e poi reale del lavoro al
capitale è comunque alla base del paradigma categoriale necessario a
comprendere fino in fondo la realtà sociale nella quale ci siamo trovati
immersi, e deve quindi essere fissata in maniera chiara e precisa.
Sussunzione formale del lavoro al capitale significa, dice Marx, che il capitale
sottomette a sé, vale a dire include nel rapporto sociale di cui esso consiste e
rende quindi funzionale alla logica della sua autoriproduzione, modi di essere
del lavoro umano che si sono costituiti prima e indipendentemente da esso, e
che esso piega ai suo interessi senza modificarne il contenuto. Il termine
sussunzione formale vuol indicare appunto che il modo di produzione che tale
sussunzione istituisce è capitalistico soltanto nella forma, non anche nel
contenuto. La nozione di forma qui utilizzata da Marx per oggettivare la
sussunzione inaugurale della produzione capitalistica è visibilmente tratta
dalla logica hegeliana. Hegel studia la forma come nozione logica nella prima
sezione del secondo libro della
Scienza della logica, definendola “relazionefondamentale le cui determinazioni stanno di contro al contenuto” e
specificando che, così posto, “il contenuto è determinato già in lui stesso
come fondamento della sua unità particolare con sé, e sta di contro alla forma
quale relazione intera di fondamento e fondato”. Diradando l’oscurità, per i
non addetti ai lavori, di questa terminologia hegeliana, il suo senso si ritrova
nel discorso che Marx svolge nel Capitolo VI inedito. Il lavoro artigiano, o il
lavoro contadino indipendente, sono “contenuto” della storia, e sono un
contenuto ”determinato già in lui stesso”, nel senso che il suo concreto
svolgimento nasce dalla sua natura, e non da alcunché di esterno. Il lavoro
artigiano, cioè, è determinato dai suoi strumenti, dalla sua materia prima e
dalla sua tecnica specifica, ovvero “in lui stesso”, indipendentemente dal fatto
se sia sfruttato oppure no da un potere esterno, e da chi e secondo quale
finalità sia eventualmente sfruttato. Esso è, come tipo di lavoro particolare,
dotato di una sua particolare identità, fondamento determinato, nel senso che
fonda competenze, relazioni e stili di vita, e ciò è significato dall’espressione
“fondamento nella sua particolare unità con sé”. Di fronte a questo contenuto
come fondamento particolare sta “la relazione intera di fondamento e
fondato”, cioè una relazione più generale che, includendo il fondamento
particolare, lo riduce a un fondato, essendo quella più generale la relazione
fondamentale. Ad esempio il lavoro contadino indipendente come lavoro è
fondamento, fondamento della vita del contadino, nella sua particolarità
avulsa dal più generale contesto storico di relazioni sociali, ma, se viene
inserito in un tale contesto relazionale, ad esempio in un rapporto di
dipendenza feudale da una signoria rurale, si rivela fondato dalle regole e
dagli scopi di tale rapporto, pur rimanendo fondamento a livello della sua
particolarità specifica.
La forma in senso hegeliano è quindi forma di assunzione, da parte di una
relazione generale, di un contenuto più particolare determinato in se stesso,
indipendentemente da essa, dalla propria stessa particolarità. Nella sua
trasposizione marxiana nella sfera dei rapporti di produzione, questa forma
diventa forma di appropriazione, da parte di un rapporto sociale globale ed in
funzione della sua autoriproduzione, del prodotto di un lavoro predeterminato
ad esso nel suo modo di essere. Ciò accade, ad esempio, quando il capitale,
radunando sotto di sé, senza modificarne la natura, ma lasciandolo come lo
ha storicamente trovato, il lavoro di molti artigiani, si appropria ai suoi fini del
prodotto di tale lavoro attraverso la riduzione degli artigiani che lo erogano a
lavoratori suoi salariati. Se si vanno a rileggere, dopo questo chiarimento, le
frasi citate di Hegel sulla nozione di forma, e le pagine di Marx sulla
sussunzione formale, le une e le altre dovrebbero risultare del tutto
trasparenti.
La sussunzione formale del lavoro al capitale è dunque, dice Marx, la
funzionalizzazione al rapporto sociale capitalistico di un modo di lavoro già
sviluppatosi fino ad una sua propria maniera di svolgersi prima che il rapporto
sociale capitalistico si sia costituito rispetto ad esso. La produzione che ne
nasce è capitalistica, prosegue Marx, perché ha la forma generale della
relazione capitalistica, ovvero la generazione di plusvalore da accumulare
come capitale, ma non è, egli precisa, specificamente capitalistica, perché il
suo contenuto lavorativo è un contenuto particolare storicamente preformato
al capitale, e non un risultato della sua produzione. Il plusvalore come forma a
cui quel contenuto è sottomesso è il genere di plusvalore che Marx chiama
plusvalore assoluto. Per plusvalore assoluto egli intende il plusvalore
generato dal maggior tempo di lavoro a cui il lavoratore viene obbligato dal
comando capitalistico a cui è stato sottomesso. Poiché infatti il tempo di
lavoro necessario al suo mantenimento a cui era abituato produce ora il
valore che serve al pagamento del suo salario, e poiché il suo modo di
lavorare non è modificato dalla sussunzione formale, tale sussunzione non
può evidentemente generare plusvalore se non attraverso il prolungamento
del tempo di lavoro. Marx chiama invece plusvalore relativo il plusvalore
generato, con un tempo di lavoro immutato, dalla minore quantità di lavoro
contenuta nella merce. Solo una modificazione del processo lavorativo può
evidentemente consentire la produzione nello stesso tempo di una maggiore
quantità di merce, e dunque di una minore quantità di lavoro incorporata in
un’unità di merce, per cui il plusvalore relativo è necessariamente associato
ad una sussunzione non più formale, ma reale.
Marx chiama sussunzione reale del lavoro al capitale la determinazione del
modo stesso di essere del lavoro da parte del rapporto sociale capitalistico
che lo ingloba. Il capitale si appropria quindi, dice Marx, non soltanto del
prodotto del lavoro, ma anche della sostanza del lavoro, che riplasma per
adattare alla sua teleologia la maniera stessa del suo svolgersi. La
produzione che ne nasce, egli prosegue, è specificamente capitalistica, in
quanto è il suo stesso contenuto lavorativo che è formato dal capitale, non già
storicamente trovato da esso.
Questa categoria marxiana di sussunzione reale è la trasposizione nella sfera
dei rapporti di produzione di precedenti categorie logiche di Kant e di Hegel, e
precisamente della categoria kantiana di sussunzione del particolare
all’universale nel giudizio determinante, in cui l’universale determina il
contenuto fenomenico del particolare, e della categoria hegeliana di
fondamento integrale, in cui “il reale stesso è tornato al suo fondamento e si è
ristabilita in lui l’identità di fondamento e fondato”.
Marx mostra, con straordinaria forza interpretativa, come la logica stessa
della sussunzione formale conduca alla sussunzione reale, in quanto la sola
forma della produzione capitalistica esige una accumulazione allargata di
plusvalore, la quale esige un incessante aumento di scala della produzione,
che ad un certo momento esige un’appropriata modificazione del processo
lavorativo, di cui sono strumenti le macchine industriali e le scienze fisiconaturali.
Questa logica ha un campo di applicazione potenziale che è più vasto di
quello pensato da Marx, e che è diventato attuale proprio nel nostro presente
storico. Allo sviluppo illimitato della produzione, insito nel rapporto sociale
capitalistico, non può infatti bastare, oltre un certo limite, neppure la
sussunzione reale del lavoro al capitale, perché è impossibile ridurre oltre un
certo limite il tempo di lavoro incorporato nella merce senza separare del tutto
la merce dal lavoro, e quindi dalla base stessa del plusvalore. Oltre un certo
limite, quindi, lo sviluppo ulteriore della produzione richiede la riduzione del
tempo di circolazione del capitale, che può realizzarsi sussumendo al capitale
altre realtà oltre quella lavorativa.
Nel seguito di questo articolo mostreremo come alcuni aspetti decisivi della
realtà contemporanea possano essere compresi grazie all’apparato
categoriale marxiano che abbiamo fin qui delineato. Questa comprensione ci
fornirà gli strumenti per una critica degli aspetti devastanti, sul piano ecologico
e antropologico, del capitalismo contemporaneo.
II.
Il dominio sul vivente.Nel XX secolo si è verificato gradualmente, per lungo tempo del tutto
inavvertito, il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale
della materia vivente al capitale. L’allevamento capitalistico degli animali è
cominciato, già nell’Inghilterra del Seicento, con la sussunzione formale al
capitale di pecore, mucche, galline e conigli. Lana, latte, carne e uova hanno
allora cominciato a produrre plusvalore attraverso il lavoro salariato degli
allevatori, ed a realizzare plusvalore attraverso la loro vendita come merci in
quantità crescenti nei mercati urbani. Le pecore producevano però lana
secondo i loro ritmi biologici di sempre, e così le mucche il latte e le galline le
uova. Le quantità crescenti di prodotti venivano perciò ottenute aumentando il
numero di pecore, mucche e galline allevate. La sussunzione reale ha
cominciato ad affacciarsi già negli anni Venti del Novecento, con i primi
esperimenti di stabulazione intensiva degli animali sulla costa atlantica degli
Stati Uniti. La stabulazione intensiva forzava infatti, ai fini di una maggiore
produzione, lo spontaneo ciclo vitale degli animali, fino ad allora, invece,
utilizzato come tale. Si trattava, però, soltanto di una prima debole
manifestazione di sussunzione reale, che è stata programmaticamente
accentuata prima con la somministrazione agli animali di vitamina D in
sostituzione della luce solare sempre più sottratta da una stabulazione
sempre più concentrazionaria, poi, dopo la scoperta degli antibiotici all’epoca
della seconda guerra mondiale, con il loro uso massiccio per prevenire le
infezioni altrimenti prodotte negli animali dalla condizione stressante e
contagiosa della loro concentrazione in spazi sempre più ristretti. Nella
seconda metà del XX secolo la stabulazione intensiva si è progressivamente
diffusa anche in Europa, ed è diventata sempre più una macchinizzazione
degli animali per accrescere la quantità dei loro prodotti rispetto a quelli forniti
dal loro ciclo vitale. Questa prima macchinizzazione ha aperto la strada alla
ingegnerizzazione genetica dell’animale, che ne ha completato la riduzione a
macchina.
La tecnica del DNA ricombinante è stata scoperta nel 1973 nelle università
degli Stati Uniti da Stanley Cohen ed Herbert Boyer, e la sua prima
produzione è stata, nel 1975, quella, finanziata dalla General Electric, di un
batterio ingegnerizzato per degradare idrocarburi galleggianti. Dopo che
l’Ufficio Brevetti aveva respinto la domanda di brevettazione di questo
batterio, prevedendo la normativa soltanto la brevettabilità di materiali fisici,
non biologici, nel 1980 una sentenza della Corte Suprema dichiarava
brevettabile il batterio, in quanto più simile ad un reagente chimico che ad un
vivente, e nel 1987 un’altra sentenza dichiarava brevettabile, sulla base di
pretestuosi artifizi giuridici, qualsiasi processo biologico eccetto quello
integrale di un corpo biologico umano.
Le due sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1980 e del 1987
segnano l’adattamento della società alla sussunzione reale della materia
vivente al capitale, che è oggi rappresentata dalla mucca artritica, sterile,
appesantita da mammelle ipertrofiche, ma produttrice di una quantità doppia
di carne e quadrupla di latte rispetto ad una mucca normale, già creata
dall’ingegneria genetica, anche se non ancora utilizzata commercialmente a
causa del suo troppo breve ciclo artificiale di vita.
Il processo di sussunzione reale della materia vivente al capitale è ormai ad
uno stadio avanzato, perché sono ormai tanti i campi nei quali il capitale non
si limita più a produrre plusvalore attraverso l’utilizzazione dei cicli biologici
dati dalla natura, ma crea, ricombinando a suo modo spezzoni di materia
vivente, cicli biologici artificiali per esso più produttivi. Oggi abbiamo infatti
piante ingegnerizzate per essere serializzate ad uso commerciale e
conservate a tempo indefinito, frutti ed ortaggi di serra al di fuori delle loro
stagioni naturali.
Non capire questo nuovo scenario significa allontanarsi senza saperlo dalla
possibilità stessa di un reale antagonismo al sistema capitalistico. Occorre
sapere che chi oggi mangia spesso carne, chi consuma regolarmente prodotti
vegetali fuori della loro produzione naturale, chi accetta la frutta
standardizzata e non maturata da supermercato, non solo si nutre male e
perde il senso dei sapori, ma dà, per così dire, il suo democratico voto
quotidiano a favore dello sfruttamento capitalistico (molto più democratico e
molto più determinante del voto nella cabina elettorale), proprio come chi usa
frequentemente l’automobile e si affretta a comprare gli ultimi ritrovati della
tecnologia immessi sul mercato. Occorre poi una battaglia culturale contro lo
scientismo ed i suoi riduzionismi, che sono gli strumenti della sussunzione
reale della materia vivente al capitale. Prendiamo ad esempio la
somministrazione della vitamina D agli animali stabulati. Essa è legittimata dal
pensiero riduzionistico per cui il frequente spezzarsi delle gambe di certi
animali stabulati è linearmente riconducibile al mancato assorbimento del
calcio dalle ossa, e il mancato assorbimento del calcio è linearmente
riconducibile al mancato apporto di vitamina D. E’ in realtà provato che, senza
urti traumatici e al di fuori di un’età avanzata, ossa anche molto decalcificate
non si spezzano senza cause concomitanti, che nel caso degli animali
stabulati sono l’immobilità e le atrofie muscolari. Ed è altresì provato che le
vitamine chimicamente sintetizzate hanno minori effetti benefici di quelli dei
processi naturali, in questo caso dell’esposizione alla luce solare.
Contrastando anche sul piano teorico questa scienza del capitale, può
diventare un obiettivo di lotta politica che agli animali dei cui prodotti ci
cibiamo siano assicurati un adeguato spazio di vita, libero movimento,
fruizione dell’aria e del sole. I difensori dei metodi moderni di allevamento ci
dicono che, se tali metodi fossero abbandonati, avremmo carne, latte ed altro
in quantità molto minori e a prezzi molto maggiori. Su questo punto hanno
ragione. Il torto marcio che è insito in tale ragione può emergere soltanto se
alla prospettiva capitalistica dello sviluppo sostituiamo quella riumanizzata
della decrescita.
I polli, certo, quando ancora ruspavano, ormai diversi decenni fa, erano un
cibo quasi di lusso, inaccessibile alle tasche dei ceti inferiori della società, se
non eccezionalmente, in occasione di qualche festa. Ora, invece, che sono
allevati in batteria, rappresentano un consumo popolare, accessibile a tutti. E’
stato un guadagno? Lo sarebbe stato se i meno abbienti potessero
regolarmente cibarsi, ora, dei polli di allora. Ma non a quei polli essi hanno ora
accesso. Capire la sussunzione reale di un certo contenuto al capitale
significa capire che il capitale ne cambia il modo di essere, e che esso non è
più quindi lo stesso contenuto, proprio come il lavoro dell’operaio alla
macchina non è più lo stesso lavoro dell’operaio con i suoi attrezzi. Il pollo
che oggi tanto facilmente compare nelle mense dei ceti popolari ha una carne
senza sapore, che si stacca facilmente dalle ossa per le tossine derivanti
dallo stress dell’allevamento in batteria, carica di antibiotici che il consumatore
ovviamente ingerisce, e che gli renderanno meno efficaci o del tutto inefficaci
gli antibiotici che in futuro dovesse eventualmente prendere per ragioni
mediche. Mangiare carne simile, come la carne bovina che si restringe alla
cottura perché rigonfiata artificialmente durante l’allevamento con la
somministrazione di farine fatte letteralmente di merda e di residui di
idrocarburi, non rappresenta affatto una maggiore diffusione del benessere.
Maggiore benessere sarebbe mangiare una o al massimo due volte la
settimana buona carne, anziché tutti i giorni cattiva carne (un consumo
quotidiano di carne è comunque nocivo, anche nel caso di buona carne). Ma
senza i moderni metodi di allevamento non si tornerebbe a togliere del tutto la
carne ed altri prodotti di origine animale ai ceti meno abbienti? Quando si
pensa questo, lo si pensa perché si immagina la decrescita come una
riduzione delle quantità a rapporti sociali invariati. Ma a rapporti sociali
invariati la decrescita è impossibile, perché i rapporti sociali vigenti si
autoriproducono soltanto attraverso lo sviluppo, in quanto poggiano sulla
crescita illimitata del plusvalore. L’attuazione della decrescita scardinerebbe
di per se stessa i rapporti sociali vigenti, e non solo consentirebbe, ma
esigerebbe redistribuzioni di ricchezza sociale.
III.
Il senso comune “sviluppista” e la sua critica.Se si giunge a comprendere a fondo tutta la valenza interpretativa della
coppia categoriale di sussunzione formale e sussunzione reale, diventa chiaro
che, se si vuole contrastare il vigente sistema dei rapporti sociali con i suoi
odierni corollari di barbarie, l’ostacolo principale da rimuovere sul piano delle
forme di coscienza, il nemico ideologico da battere, è l’ottusa ideologia dello
sviluppo, in quanto essa oggi (non ieri) contiene implicitamente in se stessa
tutti gli altri ingredienti mentali dell’accettazione dell’attuale capitalismo. Non a
caso l’atto di fede nello sviluppo è
conditio sine qua non, proprio come lafedeltà all’alleanza americana e alla sua propaggine sionista, per l’ingresso
nell’area di governo. E’ per questo che Rifondazione comunista, una volta
entrata nell’Unione, da un lato ha attenuato la sua denuncia della politica di
Israele, mettendo in primo piano la falsa priorità del pericolo
dell’antisemitismo e la ridicola questione del riconoscimento del diritto
all’esistenza di Israele, ed accettando la partecipazione italiana alla missione
militare di sostegno ad Israele in Libano, da un altro ha sposato senza residui
la tesi dello sviluppo, chiedendo ripetutamente una legge finanziaria capace di
promuovere lo sviluppo stesso.
Chi, perciò, sta dalla parte dello sviluppo, sta di fatto dalla parte del sistema
vigente, qualunque illusione coltivi riguardo alla sua collocazione, e si
condanna all’inintelligenza della trama di connessioni effettive tra i molteplici
aspetti del mondo attuale. Questa adesione all’ideologia dello sviluppo da
parte di chi si proclama anticapitalista può assumere le forme più diverse, può
venire dal raffinato intellettuale o dal semplice militante, ma in sostanza girerà
attorno a pochi argomenti di senso comune che possono essere più o meno
riassunti come segue: “I teorici della decrescita vogliono il ritorno all’economia
del passato, a costumi sociali arcaici, ai buoni tempi andati. Ma noi non
vogliamo tornare alle condizioni di una volta, alla vita media brevissima, alle
malattie che non si sapevano curare, alle carestie, alle giornate di lavoro
lunghe e tormentose. Vogliamo, come è sempre stato nella tradizione del
movimento operaio, lo sviluppo economico, scientifico e tecnologico liberato
però dai condizionamenti, dai vincoli e dalle priorità dell’organizzazione
sociale capitalistica”.
A queste argomentazioni di senso comune si possono contrapporre almeno
sei osservazioni estremamente sintetiche, il cui approfondimento va oltre i
limiti di questo articolo.
Primo.
La decrescita mira ad una riduzione progressiva della quantità di mercie dell’ammontare del prodotto interno lordo, quindi del consumo di energia e
di materie prime, ma niente affatto del tenore di vita, che vuole anzi innalzare.
Banalmente: quanto più il traffico automobilistico urbano è denso, caotico e
lento, e addirittura, quanti più incidenti automobilistici ci sono, tanto più c’è
sviluppo (per il maggior consumo di carburante e veicoli, e per il giro di
assicurazioni e riparazioni), mentre un sistema efficiente di trasporto pubblico,
in una città chiusa al traffico privato, sarebbe decrescita, una decrescita che,
in tutta evidenza, migliorerebbe il tenore di vita. Gli esempi di questo tipo sono
numerosissimi. Lasciamo a Bush, quando dice “il nostro tenore di vita non è
negoziabile”, la confusione fra tenore di vita e quantità di merci, sviluppo e
benessere.
Secondo.
La decrescita non è affatto antimodernista, perché anzi, mirando asostituire tecnologie ecologicamente leggere al posto di quelle pesanti,
tecnologie di risparmio energetico (non di fonti alternative di energia, a cui
essa è in linea di principio contraria) al posto di quelle dissipatrici di energia,
promuove, anche in pratica (si pensi alle invenzioni documentate, anche se
rifiutate dall’industria, di alcuni scienziati impegnati su questa linea),
tecnologie in cui ci sono più “logie”, cioè apporti scientifici, che mere tecniche,
e promuove, quindi, una modernità più evoluta.
Terzo.
La decrescita non vuole proprio per niente tornare a costumi socialiarcaici e ad una economica arcaica. Al contrario, la decrescita è finalizzata ad
una evoluzione dell’economia che la connetta più strettamente ai bisogni
sociali, ad uno stile di vita più edonista perché non trascinato dalla rincorsa
stressante a consumi superflui o, peggio, resi necessari dalla cattiva
organizzazione sociale. Il benessere ed i piaceri della vita non crescono al
crescere della quantità di merci, rifiuti e scarichi tossici (il consumismo è il
falso edonismo di gente interiormente vuota e disperata), ma crescono con la
selezione qualitativa dei beni prodotti.
Quarto.
Ciò che eventualmente fa ricadere nei mali dei tempi andati non è ladecrescita, ma proprio lo sviluppo. Quello che oggi chiamiamo progresso ci
sta riportando ai mali di cento anni fa, come la mancanza di ogni diritto del
lavoro attraverso lo smantellamento progressivo di tutte le conquiste delle
lotte operaie dell’epoca keynesiano-fordista, ormai irreversibilmente
tramontata, e persino a certi mali di trecento anni fa, che si ritenevano
definitivamente debellati. Si pensi a come stanno ridiventando incerti e
pericolosi i viaggi ed il turismo, ai danni fatti ogni anno da pochi giorni di
pioggia o di neve, al riaffacciarsi di gravi epidemie. Ciò che è lo sviluppo
andrebbe visto da una prospettiva più ampia di quella delle metropoli
occidentali. La recente strage provocata in Costa d’Avorio dai rifiuti “importati”
è un tipico prodotto dello sviluppo, che fa crescere a dismisura i rifiuti tossici e
ne devia lo scarico nei paesi più deboli.
Quinto.
L’idea di uno sviluppo non capitalistico è una illusione. L’intera storiadel Novecento dimostra in abbondanza che non c’è altro sviluppo che quello
interno al capitalismo. Chi sogna uno sviluppo non capitalistico deve
assumersi l’onere della prova, deve spiegarci dove si potrà mai trovare questa
araba fenice. Nella realtà, chi vuole lo sviluppo vuole il capitalismo, qualsiasi
siano le illusioni ideologiche con le quali occulta questa semplice verità.
Sesto
. La crescente aggressività imperialistica è figlia dello sviluppo, cheobbliga ad un sempre più vasto accaparramento delle risorse mondiali da
parte delle principali potenze, e spinge l’Europa a stare sempre, alla fine, per
le paure dei suoi ceti dirigenti, a rimorchio degli Stati Uniti. La frase prima
citata di Bush è stata del resto pronunciata proprio per giustificare la “guerra
infinita”. Non si possono contrastare le derive belliche dell’imperialismo
attuale se non in una prospettiva di decrescita. Chi è a favore dello sviluppo è,
anche se crede il contrario, a favore delle guerre imperialistiche che dello
sviluppo sono un corollario.
IV.
La sussunzione della persona umana.Un momento di straordinaria importanza nel passaggio dalla sussunzione
formale alla sussunzione reale al capitale è quello che riguarda le strutture
delle condotte personali. Il capitale, man mano che ha sussunto realmente
sotto di sé il lavoro, ha piegato alle sue esigenze le personalità dei lavoratori,
personalità, però, strutturate precedentemente ad esso. I lavoratori che hanno
erogato lavoro al capitale secondo le modalità imposte dalla macchina della
produzione capitalistica, cioè, vi si sono adattati con le loro personalità
costituite da processi educativi propri delle tradizioni dei loro paesi, e sempre
incentrati prioritariamente sulle comunità familiari (secondariamente su
parrocchie, corporazioni di mestieri, comunità di villaggi, collegi). Le società
capitalistiche dell’Ottocento, largamente determinate dalla cultura e dall’etica
delle classi borghesi, hanno accentuato il peso della famiglia nella formazione
della personalità individuale. Tale contesto spiega la nascita della psicoanalisi
e la concettualizzazione della psiche come meccanismo funzionalmente
autonomo dell’interiorità individuale. La psiche così intesa è stata l’indiscusso,
comune postulato di base di tutte le teorie psicoanalitiche, e la sorgente,
secondo l’opinione generalmente condivisa, delle condotte personali degli
individui.
Nella seconda metà del XX secolo avviene però il passaggio di straordinaria
importanza cui si è accennato, e cioè la graduale sussunzione reale delle
strutture stesse delle condotte personali sotto una produzione capitalistica
orizzontalmente dilatatasi su scala sempre più vasta, e verticalmente
penetrata a livelli sempre più profondi dell’esistenza umana.
La personalità individuale degli esseri umani comincia così a diventare una
determinazione sociale sempre più diretta della riproduzione allargata del
capitale, ovvero dell’economia del plusvalore. Se non si comprende questa
trasformazione, ogni impegno anticapitalistico diventa vano e verbalistico. Le
personalità stesse di coloro che intendono contrastare il sistema sociale
vigente sono infatti strutturate nella loro immediatezza dal sistema stesso, ed
orientate quindi a promuoverlo inavvertitamente in tanti aspetti del loro agire e
pensare, a meno che non abbiano trasceso la loro immediatezza in una
riflessione consapevole in grado di limitarne il condizionamento (mai evitabile
ovviamente del tutto). Orientarsi contro il sistema vigente è stato in un certo
senso più facile per un individuo fino a cinquant’anni fa (ciò naturalmente non
significa che fosse più facile vincere, perché in assenza di condizioni storiche
favorevoli proprio la coerenza nell’orientamento contro il sistema esponeva ad
essere schiacciati dalla repressione). Fino ad allora, infatti, il sistema ha
operato nelle condizioni di vita sociale in cui l’individuo era incluso, mentre
oggi (naturalmente, come ogni altra schematizzazione utile, anche questa
deve essere presa con il dovuto grano di sale) opera non soltanto in quelle
condizioni dell’individuo, ma nella stessa interiorità dei suoi desideri, dei suoi
timori, e dei suoi modi di percepire e di valutare le situazioni. Così il sistema
socioeconomico vigente ha avuto il suo funzionamento sempre più assicurato
dagli automatismi comportamentali di massa, paradossalmente proprio da
quando le sue contraddizioni lo hanno reso più vulnerabile, e da quando ha
pienamente mostrato di non poter funzionare se non trascinando il genere
umano nel baratro del disfacimento sociale e del collasso ambientale. Il
compimento della sussunzione reale della personalità individuale sotto il
capitale ha infatti indebolito l’opposizione al sistema molto più di quanto il
sistema stesso sia diventato oggettivamente più vulnerabile, cosicché esso,
nonostante le sue crescenti contraddizioni interne, è diventato
comparativamente più forte. I suoi oppositori per lo più non sanno
comprendere la plasmazione capitalistica della loro personalità, e non ne
sanno quindi correggere le determinazioni immediate. In questo modo la loro
opposizione è inefficace perché non in grado di individuare i luoghi sociali
dove passano le catene sistemiche.
Ad esempio: capire che le cosiddette missioni di pace sono partecipazioni a
guerre imperialistiche, e che la guerra al terrorismo è una copertura
dell’espansionismo militare statunitense, è alla portata mentale di qualunque
persona moralmente non depravata. Succede però spesso che un militante
“antimperialista” si muova frequentemente e naturalmente in automobile,
senza rendersi conto che bruciare benzina nel motore significa votare per il
sistema in maniera ben più sostanziale che con una scheda elettorale, e che
un luogo imprescindibile di attacco al sistema stesso sarebbe quello della
circolazione autoveicolare privata. Perché non si sono mai visti “rivoluzionari”
agire sabotando il traffico cittadino e rivendicando mezzi di trasporto pubblici
e non inquinanti? Perché è così difficile comprendere che, data l’importanza
primaria di crescenti consumi energetici tanto per la produzione quanto per il
realizzo di plusvalore, e data la potenza conferita alle oligarchie
imperialistiche dall’uso di massa dei combustibili fossili, una battaglia vera
contro il sistema non può svolgersi se non anche come battaglia contro lo stile
di vita collettivo basato sulla mobilità attraverso gli autoveicoli a motore?
Essenzialmente perché lo stesso oppositore ha in molti casi una personalità
adattata a vivere senza troppo soffrirne in mezzo alle conseguenze negative
del traffico autoveicolare privato (rumori incessanti, gas di scarico, bruttezza
degli ambienti) e ad accettare quella particolare privatizzazione e
desocializzazione della strada che la circolazione automobilistica crea. La sua
personalità così adattata è una determinazione del capitale, ma egli non lo sa,
e, non sapendolo, non è emotivamente coinvolto più di tanto rispetto al
sistema della mobilità urbana, che gli appare istintivamente di poco peso
rispetto ai grandi temi. Questa situazione è quasi simboleggiata dalla tante
bandiere della pace appese a finestre e balconi dall’inizio della guerra
irachena, annerite dalla lunga esposizione all’aria inquinata delle città, e prive
della benché minima influenza politica: mettere benzina nel proprio motore è
dare benzina al turbocapitalismo imperialistico annerendo ogni lotta alla
guerra.
Un altro esempio: chi si vuole oppositore del sistema vigente vede bene che
deve opporsi alla precarizzazione del lavoro, allo smantellamento della
previdenza pubblica, alla schiavizzazione dei lavoratori stranieri, alla riduzione
dei posti di lavoro, e via dicendo, ma spesso la sua vista si appanna di fronte
al nodo dello sviluppo e alla necessità della decrescita del prodotto interno
lordo. Benché basti un po’ di serio studio per capire come i mali sopra indicati
derivino dallo sviluppo della produzione di merci, come lo sviluppo coniugato
con l’equità o lo sviluppo ecologicamente sostenibile siano pure fandonie,
essendo da quarant’anni lo sviluppo necessariamente insostenibile
dall’ambiente e fonte di crescenti diseguaglianze, e come solo la concreta
ricerca di modalità di convivenza sociale che facciano decrescere il prodotto
interno lordo consenta di combattere effettivamente la logica socialmente
devastante del profitto capitalistico, succede tuttavia che la questione dello
sviluppo lascia per lo più praticamente e mentalmente inerti quanti si sentono
e si considerano antagonisti. Anzi, si può dire che la freddezza riguardo alla
decrescita, l’incapacità di sentirne l’urgenza, e la tendenza a fraintenderne il
senso, sono tipici segni rivelatori di una struttura della personalità realmente
sussunta sotto il capitale: una tale personalità, infatti, ha interiorizzato lo
sviluppo come modello di comportamento individuale, per cui manca della
sensibilità per cogliere il valore di aspetti statici del paesaggio naturale e
sociale, e per soffrire della loro dissoluzione, cosicché i processi innovativi del
capitalismo non lo spaventano se non nelle loro conseguenze sulle condizioni
di lavoro e sui livelli di reddito. Facciamo un esempio: fino a qualche decennio
fa un aspetto statico del paesaggio sociale era la costellazione di piccoli
negozi di quartiere, che servivano una clientela fissa di abitanti del quartiere
stesso. Ebbene: per una personalità che ha interiorizzato lo sviluppo, il
passaggio alla grande distribuzione non rappresenta un vissuto negativo,
perché la più ampia gamma di merci acquistabili, ed i loro prezzi più
contenuti, fanno premio sugli aspetti negativi della grande distribuzione, che
non danno fastidio alla sua sensibilità. Fra questi aspetti negativi, possiamo
ricordare l’aumento della circolazione veicolare indotto dal maggior afflusso di
clienti in automobile e dalla maggiore quantità di merci che vengono
trasportate da lontano, l’aumento dei rifiuti prodotti dal consumo, dovuto al
fatto che le merci nei supermercati sono confezionate con maggiori quantità di
imballaggi, l’esclusione dei piccoli produttori locali che in molti casi non sono
in grado di fornire le merci nelle quantità e nei tempi richiesti dalla grande
distribuzione. Tutti questi aspetti negativi, come dicevamo, non vengono colti
dalla persona che ha interiorizzato lo sviluppo. Anzi, se l’individuo si
considera anticapitalista, la piccola distribuzione diffusa gli parrà piuttosto un
arcaismo piccolo-borghese degno di essere superato. In realtà l’adattamento
di massa alla grande distribuzione è un elemento catalizzatore dell’economia
del plusvalore, oggi quasi obbligato dalle condizioni esteriori di vita create dal
capitale, ma inizialmente facilitato da tendenze interne degli individui,
anch’esse prodotte dal capitale.
V
Le forme della personalità nella sussunzione reale: il disprezzo di sé.Torniamo ora dal livello delle esemplificazioni a quello della teoria. Si è
dunque compiuta, nel nostro tempo, la sussunzione reale della personalità
individuale sotto il capitale. Il tramite attraverso cui è avvenuto il suo
compimento è stato l’inconscio disprezzo di sé scavato nell’individuo dalla
sempre più estesa e profonda penetrazione sociale del capitale. Vediamo.
Una premessa necessaria per seguire il discorso è intendere che quando si
parla a questo livello di disprezzo di sé ci si riferisce ad un elemento della
personalità vissuto inconsciamente, e quindi non direttamente percepito né
esteriormente visibile come tale, perché le sue manifestazioni esterne si
sviluppano per compensarlo e negarlo. Chi non possiede capacità
interpretative in questo campo rischia perciò di non capire cosa sia il
disprezzo di sé nell’individuo plasmato dal capitale, perché non coglie, in
atteggiamenti che sembrano soltanto presuntuosi, inopportuni, arroganti, o
semplicemente eccentrici e sfasati, l’aspetto reattivo e occultante riguardo a
ciò che li sottende, cioè appunto il disprezzo di sé.
Cosa significa, dunque, a questo livello, disprezzo di sé? Significa la fantasia
di essere sfruttabile e depauperabile (fantasia nel significato psicoanalitico di
immagine interna inconscia). Significa disgusto per la propria debolezza,
inconsciamente rappresentata come bersaglio di aggressioni, manipolazioni e
atti di umiliazione. Significa aspettativa di una squalifica da parte degli altri, ed
ansia di confronto con loro.
L’individuo che internamente teme di essere sfruttato, depauperato ed
umiliato perché debole, non esteriorizza questo suo timore come tale,
neppure ai suoi stessi occhi, ma lo esorcizza con apparenti esibizioni di forza
fatte di prevaricazioni ed umiliazioni dell’altro. Ad esempio, la spudoratezza
aggressiva di un Vittorio Sgarbi o di un Giuliano Ferrara è una chiara
manifestazione compensatoria del disprezzo di sé (e quindi dell’altrui umanità
e dei valori morali) di questi personaggi.
Come, però, il capitale, oltre un certo livello del suo sviluppo, produce
autocoscienze individuali costituite da un’immagine disprezzata di sé? Oltre
un certo livello del suo sviluppo, il capitale non può realizzare il plusvalore che
produce se non con un ritmo particolarmente veloce degli acquisti di massa
delle merci. Questa velocità cambia l’immagine sociale della merce. Essa
diventa un oggetto da consumare in maniera rapida e definitiva, e da ridurre
poi subito a rifiuto. Il risultato di questa nuova immagine sociale della merce è
che l’individuo non trova più nei suoi beni materiali i segni esteriori della
durata dello spirito umano nel tempo. Per un giovane di oggi, ad esempio, è
difficile persino immaginare come fino a cinquant’anni fa ai mobili e agli
utensili di una casa fossero annodati usi di vita e ricordi delle generazioni
passate. Il consumo così come è determinato dall’odierna immagine sociale
della merce costituisce quindi come inessenzialità gli oggetti d’uso
dell’individuo, e di conseguenza il perimetro materiale della sua vita, e di
conseguenza lui stesso. Ma l’inessenzialità è per definizione ciò che non
merita rispetto, e non meritare rispetto significa essere disprezzabile. Perciò
l’individuo che non rispetta gli oggetti, perché li consuma velocemente, e che
non rispetta il suo ambiente, perchè lo sporca con gli oggetti trasformati in
rifiuti, si costituisce nel disprezzo di sé.
Al livello di sviluppo che esige il veloce consumo di massa per realizzare il
plusvalore, il capitale non potrebbe neanche produrlo, quel plusvalore
rappresentato da una quantità divenuta gigantesca di merci, senza la potenza
produttrice data dall’interattività generale dei mezzi tecnici. La tecnica, a
questo punto, non è più un semplice insieme per quanto numeroso di
strumenti e processi artificiali, ma è la rete mediatrice di tutte le interazioni
pratiche, ovvero sostituisce la natura come ambiente dell’uomo.
La tecnica divenuta ambiente, rendendo l’uso delle sue connessioni
condizione di efficacia delle azioni, riduce le condotte personali a
comportamenti standardizzati, cosicché l’individuo diventa nel suo agire un
esemplare del tutto intercambiabile di pratiche sociali precodificate,
togliendogli ogni unicità, e quindi ogni valore, ai suoi stessi occhi. Anche per
questa via, dunque, il capitale giunto all’odierno grado di sviluppo porta
l’individuo al disprezzo di sé.
La stessa costellazione sistemica che scava nell’individuo il disprezzo di sé gli
fornisce i mezzi con cui sfuggire alla sofferenza del suo morso allontanandolo
dalla coscienza. Alla diversità di tali mezzi corrisponde la diversità delle forme
di personalità plasmate dal capitale.
VI Le forme della personalità nella sussunzione reale: la personalità
concretista.
Un mezzo con cui sfuggire alla coscienza, e quindi alla sofferenza, del
disprezzo di sé, è quello di farsi rassicurare dalle procedure che, rendendo
efficaci le azioni dell’individuo, lo rendono riconoscibile agli altri. Nasce così
un tipo di personalità che possiamo chiamare concretista, perché è quella di
un individuo che si rappresenta a se stesso e si comunica agli altri
esclusivamente attraverso atti e ruoli funzionali alle strutture ed alle finalità
concrete di un’organizzazione concretamente operante nella società.
La personalità concretista è quindi costituita attorno all’appartenenza. Per
capire questo tipo di personalità si deve dunque porre attenzione non a ciò a
cui essa si fa appartenere, che può essere un’azienda, un partito, un
sindacato, un gruppo sportivo o altro ancora, ma al senso del suo
appartenere in quanto tale.
L’appartenenza è, per l’individuo concretista, un elemento fondamentale della
sua definizione di sé, con cui egli sfugge al sentimento della sua nullità. La
sua appartenenza soltanto gli dice chi è e che cosa vuole. Il suo agire in
funzione della sua appartenenza è ciò che lo fa sentire riconoscibile ed
efficace.
L’appartenenza è, per l’individuo concretista, il pavimento sotto il quale non
c’è che il suo vuoto. Egli non può quindi rinunciarvi per nessuna ragione,
perché rinunciandovi si affaccerebbe al baratro del disprezzo di sé, per cui gli
argomenti razionali con lui non valgono. Qualsiasi insulso sofisma gli è buono
per giustificare in ogni circostanza la perpetuazione della sua appartenenza
ad una certa organizzazione. L’appartenenza è infatti la sua stessa identità.
L’individuo concretista, cioè, non ha un essere da cui si diramano le sue
appartenenze, le sue appartenenze sono il suo solo essere, o, meglio, sono
un involucro di ruoli e compiti che gli sostituiscono l’essere che non ha,
rivestendo il suo vuoto.
Una simile personalità è congegnata per rendere più scorrevole il
funzionamento del capitalismo. Basti pensare al comportamento di milioni di
individui che fanno riferimento ai dirigenti politici ex-comunisti. Se fossero
individui razionali, o anche soltanto dotati di personalità risultanti da
un’educazione, provenendo da una tradizione di sinistra, e quindi orientata
alla pace tra i popoli e all’emancipazione del lavoro, avrebbero smesso
inorriditi di votare il loro partito quando esso per la prima volta nella storia
della Repubblica ha portato l’Italia in guerra, violando la Costituzione, e
quando esso ha dato mano allo smantellamento delle garanzie del lavoro e
alle privatizzazioni selvagge. Trattandosi invece di individui dotati di
personalità concretista, hanno mentalizzato vacuità di ogni genere con cui
ribadire, anche attraverso innocue disapprovazioni, la loro appartenenza al
partito. Così, grazie a milioni di individui privi di qualsiasi forma di personalità
che non sia la mera appartenenza fine a se stessa, il sistema vigente ha reso
funzionale la sinistra alla più laida logica capitalistica senza indebolirla sul
piano del consenso.
VII Le forme della personalità nella sussunzione reale: la personalità
narcisista.
Un altro mezzo con cui sfuggire alla coscienza, e quindi alla sofferenza, del
disprezzo di sé, è quello di trasfigurarlo in un’autorappresentazione grandiosa
della propria personalità. Nasce così la personalità narcisista. Inscenare agli
altri ed a se stessi un “sé grandioso” come scudo protettivo occultante di un
proprio sé anteriore svalutato e rifiutato è una forma di soggettivazione
esistita anche in epoche paleocapitalistiche e precapitalistiche. Un esempio
famoso e indiscutibile di personalità narcisistica è quello di Napoleone, che,
angosciato dal disprezzo di sé quando frequentava la scuola militare, dove gli
altri allievi ufficiali lo emarginavano e lo schernivano perché non nobile e non
francese, lo ha poi ipercompensato nell’immagine gloriosa e carismatica di se
stesso. L’esempio di Napoleone è istruttivo per due ragioni: serve a ricordare
sia che la personalità narcisistica è esistita prima del capitalismo, sia che
l’immagine grandiosa di sé corrisponde non infrequentemente ad un talento
reale. Il fatto, cioè, che il “sé grandioso” del narcisista sia reattivo,
compensatorio e nascondente rispetto ad un sottostante disprezzo di sé mai
dissolto, non significa che sia fittizio ed inconsistente. Mentre cioè la
personalità concretista è servile e non creativa, la personalità narcisista può
essere brillante, anticonformista e persino straordinaria. In ogni caso, però, il
disprezzo di sé che la guida la rende sprezzante per l’umanità degli esseri
umani, ed essenzialmente distruttiva. Napoleone, ancora, ne è esempio.
Personalità narcisiste, dunque, ci sono sempre state. Da mezzo secolo a
questa parte, però, il capitale le produce direttamente e in serie. Il ritmo
sempre più veloce del consumo, necessario al realizzo del plusvalore,
costruisce infatti nell’individuo, attraverso l’introiezione dei caratteri della
merce usata, la fantasia di essere sfruttabile e depauperabile, il disgusto per
la propria debolezza, la paura di essere distrutto dalle altrui valutazioni
negative. Nello stesso tempo l’industria del consumo lo indirizza a proiettare
inconsciamente la sua fantasticata sfruttabilità in quella della merce
acquistata, in modo che il suo consumo avido e fugace gli funge da
riempimento del proprio sé vuoto. L’immagine del proprio essere diventa a
questo punto quella del proprio avere esibito agli altri, che capovolge, sia pure
illusoriamente, la debolezza in potenza: se posso esibire un’automobile
lussuosa e potente, o la rumorosità assordante della mia moto, ho un senso
di potenza. L’industria della promozione del consumo fa inoltre apparire la
merce come scudo protettivo contro le altrui valutazioni negative: se sono
elegantemente vestito, mi sento accettabile, e se uso tutti gli ultimi ritrovati
della tecnica, mi sento importante anche se sono una nullità.
La costituzione del soggetto come terminale della circolazione delle merci
contiene dunque gli elementi basilari del narcisismo: disprezzo di sé a livello
più profondo, autorappresentazione ipercompensatoria di tale disprezzo di sé
a livello più superficiale, terrore della propria debolezza, distruttività
compensatoria. Ma tali elementi non sono ancora la personalità narcisistica, e
possono sfociare in altre forme di personalità di cui qui non parliamo.
Perché si formi una personalità narcisistica occorre che su questi elementi di
base si innestino altre vicende: una storia familiare che abbia iniziato e poi
accentuato il disprezzo di sé, ed un’educazione intellettuale che abbia
trasferito l’autorappresentazione ipercompensatoria dal rapporto con la merce
a quello con le persone, ed abbia consentito di investirvi abilità effettive e
talenti mentali.
Nella società contemporanea, quindi, la personalità narcisistica è molto
diffusa fra quanti sono stati acculturati dalla scuola ed esercitano professioni
intellettuali. Ci sono settori che coagulano in modo particolare le personalità
narcisistiche: il mondo dello spettacolo, quello dell’informazione, l’università e
la dirigenza politica, quest’ultima soprattutto nelle aree antagonistiche al
potere governativo. La presenza di tante personalità narcisistiche in posizioni
dirigenziali di aree antagonistiche è l’espressione della capacità del capitale di
riciclare a proprio vantaggio le forze inizialmente antagonistiche spogliandole
di ogni sostanza realmente oppositiva e lasciando loro solo l’apparenza
dell’antagonismo. Ciò è accaduto per la prima volta nel ’68 e nella successiva
vicenda dei gruppi extraparlamentari, il cui rivoluzionarismo è stato reso in