Da decenni è una delle icone del Giappone tradizionale che, nel dopoguerra, è diventato una formidabile fucina di tecnologia, riuscendo in qualche modo a sintetizzare il proprio passato imperiale con la postmodernità. Stiamo parlando dello scrittore Yukio Mishima, figura complessa ed enigmatica entrata a far parte dell’immaginario popolare anche occidentale. Con un accostamento azzardato, potremmo dire che se Mishima fosse stato un cartone animato certamente si sarebbe trovato a suo agio nei panni di Gemon, il temibile e imperturbabile Samurai, che insieme al pistolero Gigen, componeva la banda di Lupin, il famoso imprendibile ladro gentiluomo. Di Mishima rimangono infatti immagini forti, considerate da alcuni sintomo di una via guerriera difficilmente concepibile per un occidentale, foto che lo ritraggono impugnare la katana, la celebre spada dei samurai, e con la testa fasciata dalla chimachi, la fascia bianca recante il simbolo del Sol Levante. Che cosa spinse comunque Mishima a squarciarsi l’addome e a farsi mozzare il capo dal suo giovane discepolo Morita Masakatsu, il 25 novembre del 1970, quando aveva solo 45 anni? Si parlò di una forma di protesta contro l’americanizzazione del Sol Levante. Sul mistero di quel suicidio è uscito un bel libro: L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima (Liguori, pp. 342, euro 23,50) di Emanuele Ciccarella, una biografia che fa discutere. Poco prima di morire Mishima aveva scritto: «Noi ci consideriamo gli ultimi rappresentanti della cultura, della storia e delle tradizioni giapponesi. La battaglia deve essere combattuta una sola volta e fino alla morte».
È un fatto che tutti i cultori di arti marziali non possono che illuminarsi quando sentono parlare di lui e del Bushido, la via del guerriero, in cui arti marziali, filosofia e spiritualità si fondono permettendo all’individuo di raggiungere la perfezione. Per chi volesse conoscere più da vicino, e approfondire il Mishima scrittore e drammaturgo, libri e suggestioni a parte, questa sera a Milano viene proiettato, presso il Centro di Cultura Giapponese di Milano (via Lovanio 8, tel. 3489200948) il rarissimo film del regista Paul Schrader Mishima: A life in a Four Chapters (1985) che rientra in una più ampia rassegna intitolata «Bellezza e tristezza del cinema giapponese» che il Centro ha voluto dedicare ai capolavori del cinema del Sol Levante ogni giovedi alla ore 19.00 fino al prossimo 22 maggio. Questi incontri, curati da Giampiero Raganelli, Massimiliano Matteri e Yumiko Matake hanno il compito di mostrare con un occhio diverso le millenarie tradizioni del Giappone attraverso alcune pellicole d’autore che comprendono, oltre al film di Schrader, anche Sentimenti umani e palloncini di carta di Sadao Yamanaka, film del 1937 e presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2005. Il film dedicato a Mishima rievoca lo scrittore nipponico – autore di libri quali Confessioni di una maschera o Sole e acciaio – come l’ultimo erede della tradizione nipponica e del culto dell’Imperatore. Lo scrittore infatti mise fine alla sua esistenza con il seppuku, ovvero il suicidio rituale tipico dei samurai, diventanto un’icona del mondo tradizionale che non si voleva arrendere ad un dopoguerra dove la sconfitta del Giappone ne aveva condizionato gli usi e costumi. Mishima, ad esempio, da intellettuale e scrittore si era sempre opposto, non riconoscendolo, il trattato di San Francisco del ’51 col quale gli Stati Uniti imponevano al Giappone il divieto di avere un proprio esercito. Era il 25 novembre del 1970 quando Mishima, dopo aver preso in ostaggio nel suo ufficio il generale dell’esercito di autodifesa Mashita, e dopo un accorato appello-testamento recitato dalla finestra dell’ufficio di fronte a tutti gli uomini del reggimento e alla presenza di giornalisti e televisioni, si tolse la vita con l’antico rito samurai.
In Italia lo scrittore venne subito etichettato come fascista e decadente in quanto assoluto cultore del fisico e della disciplina marziale senza interpretarne il pensiero fino in fondo. Solo di recente, grazie a nuovi studi approfonditi si è riusciti ad andare oltre alle analisi superficiali. Lo stesso Alberto Moravia che lo aveva incontrato personalmente non aveva esitato a definirlo «un dannunziano decadente». E in un certo senso Mishima lo era, figlio di un Giappone costretto a rinnegare il proprio passato e a subire la cultura del vincitore. Il film di Schrader è diviso in quattro capitoli, ognuno ispirato ad un’opera dello scrittore. Il primo, intitolato «La bellezza» è tratto dal romanzo Il padiglione d’oro del 1956 e narra la storia di un ragazzo, un accolito buddhista fisicamente deforme, che rimane a tal punto affascinato da quest’esempio di architettura da diventare balbuziente; il solo modo per liberarsi dalla malia di ciò che ha visto sarà distruggere il padiglione stesso. Il tema dell’estetica e della bellezza inseguita che diventa un ossessione domina questa sorta di parabola tipica della tradizione Zen. Nel secondo capitolo, «L’arte», ispirato al romanzo La casa di Kioko (1956) il protagonista è un giovane attore di nome Osanu che vive un rapporto di conflittualità con la madre e che non riesce ad accettare il proprio corpo quando è a letto con la sua donna Mitsuko. Osanu decide così di intraprendere la via delle arti marziali per raggiungere un ideale di bellezza perfetta al cui vertice rimane solo il suicidio. Il tema del suicidio rituale, dell’esercizio delle arti marziali come veicolo per raggiungere un ideale di perfezione spirituale e guerriera sono, come abbiamo visto, fondamentali in Mishima. Non dimentichiamo che oltre a essere un prolifico scrittore di romanzi e di testi teatrali, che gli valsero tra l’altro riconoscimenti internazionali, Mishima dal 1955 iniziò a dedicarsi sempre di più alla pratica del Kendo e alle discipline militari in genere. Fondò una vera e propria associazione di combattenti privati denominata Tate no Kai, ciè Società degli Scudi, che secondo lo scrittore era dove incarnare lo spirito del giappone tradizionale e imperiale di fronte al Trattato di San Francisco imposto dal vincitore. Il terzo capitolo intitolato «L’azione» sembra riassumere in sé tutta la parabola di Mishima scrittore-guerriero: Isao, studente di Kendo, l’antica arte della scherma, e cadetto dell’esercito, si dedica unicamente al culto dell’Imperatore e con i suoi compagni decide di eliminare dal Giappone la piaga del capitalismo americano, ma una volta che il suo piano d’azione viene scoperto non ha scelta. Imprigionato e torturato per il suo progetto di colpo di stato, una volta evaso riesce a uccidere il politico responsabile del suo fallimento. Dopodichè Isao sceglierà la via del seppuku, suicidandosi in riva a un fiume. Esattamente come Mishima nella realtà e nelle sue opere; lo scrittore fu sempre ossessionato dalla morte, così come testimonia il biglietto che la mattina in cui suicidò lasciò nel suo studio e sul quale vi era scritto: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere sempre». Nell’ultimo capitolo, «Armonia tra penna e spada», viene messa in scena l’ultima azione di Mishima, il suo proclama e la sua morte. E con questo finale in apparenza tragico Mishima e inspiegabile agli occhi di molti, riuscì a consegnarsi all’immortalità, grazie ad un’idea sulla quale aveva plasmato la sua intera esistenza.
Le immagini di Mishima mentre lancia il suo ultimo appello, il suo sguardo gettato oltre la realtà delle piccole cose, lo scrittore samurai, armato di Katana, ultimo simbolo della tradizione guerriera nipponica in un secolo dominato dalla grande industria, ancora oggi continuano a fare il giro del mondo e a raccontare di questo ultimo samurai.
Dal Secolo d'Italia