La geografia di Aristotele e l'ampliamento dell'ecumene in età ellenistica
di Francesco Lamendola - 07/03/2008
Nel precedente saggio La visione del mondo tolemaico-aristotelica è alla base delle geografia moderna (sempre sul sito di Arianna Editrice) abbiamo visto in che modo la geografia sia nata come scienza fin dalle origini del pensiero filosofico greco, con Talete e, soprattutto, con Anassimandro. Secondo Diogene Laerzio, infatti, Anassimandro (il secondo filosofo della grande triade della scuola di Mileto, in Asia Minore) “per primo disegnò i contorni della terra e del mare (…) e costruì anche una sfera” (cfr. Renato Laurenti, Talete, Anassimandro, Anassimene, Bari, Laterza Editori, 1971, 2000, p. 88), ossia separò in modo specifico la sua attività di cartografo da quella di scrittore.
Ci si potrebbe aspettare che il massimo filosofo-scienziato dell’antichità, Aristotele, abbia dedicato alcuni scritti o alcuni lavori altrettanto specifici alla geografia, tanto più che, ai suoi tempi, le imprese di Alessandro Magno in Oriente andavano schiudendo nuovi, prodigiosi scenari dell’oikoumene: dal cuore dell’Asia centrale (odierni Tukestan e Afghanistan) ai mari semi-sconosciuti dell’Oceano Indiano (Mare Arabico e Golfo Persico), mettendosi, in questo secondo caso, sulla via di un autentico imperialismo marittimo (la definizione è di uno storico francese contemporaneo).
Invece, strano a dirsi, lo spirito metodico del grande Stagirita non si è occupato della geografia in nessuna delle sue opere specifiche o, come pare, delle lezioni che dettava ai suoi allievi. In compenso, egli aveva uno spiccato interesse per ogni genere di questioni naturalistiche; tanto che le sue accurate osservazioni, sparse in vari testi e specialmente nella Meteorologia, gli hanno valso, più tardi, la qualifica di “padre della scienza geografica”.
Il trattato Meteorologia, composto intorno al 340 a. C., si occupava specificamente delle “cose sollevate da terra”: infatti la parola greca meteoron sta a indicare “oggetti che si trovano in alto nel cielo”, mentre logos designa qui lo “studio”; per cui la meteorologia sarebbe lo studio delle cose che si trovano fra la Terra e il Cielo (e una reminiscenza di questo concetto potrebbe avere, in qualche modo, ispirato la famosa battuta che Shakespeare fa pronunciare ad Amleto nel I Atto dell’omonima tragedia: “Vi sono più cose tra la terra e il cielo, Orazio, di quanta ne possa immaginare tutta la vostra filosofia”).
Aristotele condivise la teoria dei quattro elementi fondamentali dell’universo: terra, acqua, aria e fuoco. La parola greca stoicheion, che noi traduciamo con “elementi”, significa letteralmente “lettera dell’alfabeto”, ossia, in senso traslato, l’unità fondamentale da cui tutte le cose (le parole) sono composte. Platone si riferisce alla teoria dei quattro elementi attribuendone l’origine al filosofo Empedocle (vissuto intorno al 450 a. C.), che li chiama “radici”; pare che Platone sia stato il primo a definire gli elementi con il termine stoicheion, nel suo dialogo Timeo (48 b-c), famoso tra tutti anche perché vi si parla del mito di Atlantide. E la teoria dei quattro elementi sta alla base della concezione geografica e, in genere, naturalistica, di Aristotele.
Quello che, in genere, il pubblico occidentale non sa, è che la teoria dei quattro elementi fondamentali (cui, talvolta, se ne aggiunge un quinto, l’etere) è presente in quasi tutti i sistemi filosofo-religiosi del mondo antico, dall’induista al buddista, al giapponese (nel quale il quinto elemento è il vuoto), al cinese (nel quale gli elementi sono cinque e sono sia “generativi”: il legno che alimenta il fuoco; il fuoco che crea la terra o cenere; la terra che genera il metallo; il metallo che raccoglie l’acqua; l’acqua che nutre il legno), sia “distruttivi” (il legno che divide la terra; la terra che assorbe l’acqua; l’acqua che spegne il fuoco; il fuoco che scoglie il metallo; il metallo che abbatte il legno).
Ad ogni modo, Aristotele ha avuto un’influenza enorme sul pensiero greco non solo per i contenuti speculativi e per la sua impostazione concettuale dei problemi filosofici, ma anche per la metodologia rigorosa e per lo spiccato interesse scientifico verso i fenomeni della natura. Tale influenza è pienamente maturata nel corso dell’età ellenistica, e si può ravvisare non solo nell’opera dei suoi discepoli e continuatori, come Dicearco di Messina e Stratone di Lampsaco, ma anche negli allievi di questi ultimi, come Aristarco di Samo - il primo studioso occidentale che sembra aver intuito la struttura eliocentrica del sistema planetario di cui la Terra fa parte e che pertanto, con espressione un po’ retorica, è stato da alcuni definito “il Copernico dell’antichità - e, più in generale, in tutto l’ambito della cultura alessandrina.
Bisogna attendere, però, fino al II secolo dopo Cristo perché Tolomeo di Alessandria, con la sua Geografia, realizzi un’opera complessiva che si pone come sintesi del sapere geografico accumulato dai Greci e come punto di riferimento obbligato per la cultura dei secoli seguenti, fino a tutta la Scolastica (per non parlare della cultura araba, cui si deve il titolo, Almagesto, dell’altra fondamentale opera di Tolomeo, il Grande compendio, dedicata all’astronomia). Ma Tolomeo utilizza e rielabora gli studi e le ricerche di più generazioni di scienziati i quali, in genere, hanno appreso l’amore per i fenomeni naturali e la chiarezza e il rigore della deduzione logica proprio da Aristotele. Così Eratostene riprende e razionalizza la tecnica di rappresentazione cartografica di Dicearco, come Dicearco sviluppa una differente tecnica, rispetto a Eudosso, per la determinazione della longitudine.
La Geografia di Tolomeo costituisce uno dei testi più significativi del pensiero antico, sia per la vastità della concezione e la rigorosità del metodo scientifico (sforzo che già Plinio il Vecchio, nell’ambito della cultura latina, aveva compiuto con la sua monumentale Naturalis historia, ma senza uscire dai limiti di una scienza descrittiva che si perde nei mille rivoli delle curiosità aneddotiche), sia per l’unitarietà del piano di lavoro, corredato da un ricco atlante di carte geografiche, realizzate con la tecnica dei meridiani e dei paralleli. Pertanto, nell’opera di Tolomeo culmina e riceve una veste definitiva quella impostazione scientifico-matematica della geografia, basata su calcoli precisi e su rigorosi metodi di rappresentazione cartografica, che già era stata alla base dell’opera di Talete e Anassimandro, ed era stata poi mirabilmente sviluppata – sia pure in maniera sporadica - in quella di Aristotele.
Un posto particolare spetta, in ogni caso, ai lavori di Dicearco di Messina (350-290 a. C.) e di Eratostene di Cirene (273-193 a. C.), autore, quest’ultimo, della prima opera che abbia portato il titolo di Geografia. Eratostene costruì una pinax, una grande carta geografica del mondo conosciuto, utilizzando un parallelo fondamentale (diafragma), passante per le Colonne d’Ercole, Atene e Rodi; e un meridiano principale, passante per la foce del Boristene (Dnjepr), Bisanzio, Rodi, Alessandria e Siene, nell’Alto Egitto. Eratostente – che, nel campo della geografia antropica, rifiutò di distinguere il genere umano in Elleni e barbari, distinzione allora ammessa quasi universalmente – è, fra l’altro, autore di una ingegnosa misurazione della circonferenza terrestre, basata sull’altezza del Sole nel solstizio d’estate e sull’ombra da esso proiettata sulla terra in due località distanti fra loro 5.000 stadi, ma giacenti sullo stesso meridiano: Alessandria e Siene (oggi Assuan). La circonferenza da lui calcolata dava una misura di 250.000 stadi, pari a 39.960 km. (uno stadio equivale a 157 metri circa), notevolmente approssimata rispetto a quella reale - con un errore di meno di 100 km. – e, comunque, molto più precisa di quella che avrebbe indicato, più tardi, lo stesso Tolomeo.
Un’altra figura importante da ricordare, quando si parla della nascita della geografia come scienza della Terra, è - oltre al già ricordato Eudosso di Cnido (vissuto fra il 409 e il 356 a. C.), esponente dell’Accademia platonica e segnalatosi particolarmente per i suoi studi astronomico-matematici -, quella di Teofrasto (natio a Ereso, nell'isola di Lesbo, fra il 373 e il 370 e morto ad Atene verso il 287 a. C.), più noto come filosofo e specialmente come autore dei Caratteri morali. Egli, fra le altre cose, è considerato il padre della fitogeografia o geografia degli organismi vegetali. Avvalendosi, infatti, dei numerosissimi campioni di piante esotiche portati in Grecia, a scopo di studio, al tempo della spedizione asiatica di Alessandro Magno, Teofrasto ebbe modo di ampliare enormemente il campo della botanica conosciuta ai suoi tempi, ampliamento che trova compiuta espressione nei suoi due libri Ricerche sulle piante e Cause dei fenomeni vegetali.
Scrive Ilaria Caraci in Ai confini dell'orizzonte. Storia delle esplorazioni e della geografia, di cui è autrice insieme a Gaetano Ferro, Milano, Mursia Editore, 1979, pp. 122-125):
"Il IV secolo è (…) dominato, anche per quel che riguarda la ricerca geografica, dalla potente personalità di Aristotele (384-322 a. C.).
"Molti sono gli scritti di Aristotele che hanno interesse per la storia del pensiero geografico, anche se nessuna delle sue opere si può definire geografica in senso stretto. Naturalista preciso ed osservatore attento, autore di descrizioni così accurate di fenomeni naturali (particolarmente nella Meteorologia) da essere considerato il «padre» della geografia fisica, Aristotele ha nei confronti del mondo che osserva la stessa preoccupazione fondamentale dei suoi predecessori: ricollegare l'origine dei fenomeni ad un principio unico, capace di spiegarne in qualche modo la pluralità. Tale principio del mondo è per Aristotele lo Spirito o Ragione, che si materializza nei quattro elementi fondamentali: (aria, acqua, fuoco, terra), ognuno dei quali può trovarsi in diversi stati (caldo, freddo, umido e secco) e dal cui movimento hanno origine tutti i fenomeni. Così, in una maniera piuttosto elementare, attraverso le molteplici combinazioni e i vari stati degli elementi, egli riusciva a dare un senso a fenomeni naturali che alla luce delle sue conoscenze non avrebbe altrimenti potuto spiegare. Se tuttavia il metodo è ingegnoso, il risultato è piuttosto deludente e, in definitiva, il merito di Aristotele nei confronti della geografia risulta essere quello di un tentativo di razionalizzazione e di rivalutazione dello spirito di osservazione rispetto alla pura speculazione.
Occorre ricordare che la dottrina dei quattro elementi, giunta ad Aristotele da Empedocle attraverso fonti forse molto più antiche, rimase indiscussa fino all'età moderna e costituì uno dei presupposti della teoria medievale intorno alla natura. La funzione esercitata da Aristotele nel campo degli studi geografici non si arrestò quindi ai suoi contemporanei; anzi, per comprenderne il significato, bisogna ricordare il peso che la sua opera ha avuto sull'evoluzione complessiva della cultura occidentale. Compatta e coerente, la summa aristotelica si comportò, ogni volta che venne riscoperta (prima in epoca romana e poi, tramite la cultura araba, al tempo della Scolastica, come un corpo di precetti inviolabili, destinati a servire da modello più che a stimolare gli studi. Così, nato come ricerca problematica e nel più assoluto rispetto dell'iniziativa individuale, l'aristotelismo si trasformò, paradossalmente, in un sistema dogmatico e deterministico. E poiché la base teorica della distinzione della scienza elaborata da Aristotele non contemplava la geografia come scienza a sé, quest'ultima non ebbe mai nei molti seguaci di Aristotele una vita autonoma. La difficoltà di collocamento della geografia nell'ambito delle successive classificazioni del sapere deriva anche, in parte, dalla posizione ambigua che aveva avuto nella scienza aristotelica. (…)
"Tenendo conto delle dimensioni limitate dell'ecumene greca nel IV secolo, delle difficoltà che si incontravano nei viaggi, sia marittimi sia terrestri, per le ancora rudimentali tecniche utilizzate e per la limitatezza dei mezzi a disposizione, la grande impresa di Alessandro e il viaggio di Pitèa di Marsiglia rappresentano due avvenimenti destinati a lasciare sulla cultura geografica un'impronta altrettanto profonda e determinante quanto quella che, diciotto secoli più tardi, provocherà la scoperta della via delle Indie e del continente americano. Non è dunque fuori di luogo parlare dn un «Nuovo Mondo» che si svela in questi anni, anche se in gran parte le età precedenti ne avevano percepito l'esistenza e avevano tentato di valutarne le dimensioni. Come diciotto secoli più tardi poi, non è tanto la scoperta in sé ad alimentare l'elaborazione scientifica dei dati raccolti, il loro coordinamento in una sintesi organica e, in definitiva, la diffusione delle nuove conoscenze, quanto piuttosto la conquista, con le sue pratiche necessità di organizzazione territoriale. Possiamo dire che le grandi scoperte della fine del IV secolo ebbero in definitiva per i Greci il significato di un cambiamento di prospettiva, da una visione mediterranea, circoscritta del mondo, ad una continentale, dai caratteristici confini sfumati. Troppo ampia per esprimersi compiutamente nella forma tradizionale, descrittiva e analitica dei trattati, essa pose innanzi tutto il problema di una sintesi e quindi di una rappresentazione cartografica. Così la compilazione di carte geografiche, sempre più precise e particolareggiate, divenne la preoccupazione principale dei geografi, al punto che la geografia, ad un certo momento, si identificò con essa. Grande impulso ebbe pure la geografia matematica, il cui studio è ovviamente connesso a quello della cartografia; la geografia descrittiva era per contro concepita più come spiegazione della carta geografica, che come analisi a sé stante.
"I primi a rendersi conto della nuova situazione furono gli allievi di Aristotele, tra i quali si deve soprattutto ricordare Dicearco per il suo tentativo, poi ripreso e perfezionato da Eratostene, di razionalizzare la rappresentazione cartografica con l'introduzione di un elemento di riferimento, una coordinata orizzontale, o diaframma, rispetto alla quale erano calcolate le posizioni dei punti, e per l'ingegnoso sistema con cui si propose di misurare la circonferenza terrestre. (…) Eudosso di Cnido aveva utilizzato per lo studio della latitudine l'altezza di una stella fissa sull'orizzonte di due diverse località; Dicearco prese invece in considerazione due diverse costellazioni (Testa del Dragone e Cancro), che nel giorno del solstizio di estate (21 giugno )si trovano allo zenit rispettivamente della città di Lisimachia, in Tracia, e di Siene, in Egitto. Poiché l'arco di meridiano celeste compreso tra le due costellazioni (1/5 dell'intera circonferenza) è proporzionale a quello tra le due località sulla circonferenza terrestre, misurando la distanza lineare tra le due città (20.000 stadi) e moltiplicando tale valore per 5, egli ottenne per la circonferenza terrestre una lunghezza di 300.000 stadi, sempre superiore a quella reale, ma con una approssimazione maggiore di quella ottenuta da Eudosso.
"Per quanto la sua opera, Descrizione del mondo (Περίοδος γης) sia andata perduta, sappiamo ancora che Dicearco aveva misurato l'altitudine di diverse montagne (probabilmente con metodo matematico) e si era dedicato ad osservazioni di geografia fisica.
"A questa si volse anche un altro dei più noti tra i primi peripatetici, Stratone di Lampsaco, ricordato anche come maestro di Aristarco di Samo, che a sua volta è l'autore della prima vera teoria eliocentrica. Purtroppo l'opera in cui quest'ultimo l'esponeva è andata perduta, sicché possiamo parlarne solo per quanto ne sappiamo da Archimede, che ne discute nel suo Arenario. Ed è un peccato, perché Aristarco sembra aver intuito, pur senza poterne valutare appieno i meccanismi, la struttura del sistema solare, con il Sole al centro e i pianeti in moto attorno ad esso, con la Luna satellite della Terra e con quest'ultima ruotante attorno al proprio asse. Un'altra felice intuizione fu quella di considerare la sfera delle stelle fisse enormemente più grande dell'orbita terrestre, in modo da spiegare la variazione nell'aspetto del cielo a seconda della posizione che la Terra assume nel suo moto annuo. Tuttavia, convinto come tutti i suoi contemporanei della perfezione del moto degli astri, e quindi non potendo ammettere l'esistenza di orbite che non fossero circolari, Aristarco non riuscì a spiegare l'anomalia dei moti planetari. Su quest'ultima fecero soprattutto leva i contestatori, che trovavano viceversa una giustificazione accettabile nel sistema eudossiano, pur tanto più complesso. Così la teoria di Aristarco non ebbe successo nell'antichità e fu dimenticata."
Ci sembra che, dopo i grandi nomi di Eudosso, Aristotele, Aristarco, Eratostene e Claudio Tolomeo, il pensiero geografico occidentale, dopo aver vegetato per un lungo spazio di secoli, solo tra XVIII e XIX secolo, con Alexander von Humboldt (1769-1859) abbia ritrovato uno scienziato-naturalista capace di ripensare, nella sua grande opera Kosmos, la globalità e la specificità di questo ramo del sapere.
Ma la grande opera di Humboldt è stata un po’ il canto del cigno della geografia fisica, dopo di che è ricominciato un lento declino, di cui non si intravede la fine e che trova nella eliminazione, o nella drastica riduzione, di questa disciplina dall’ambito dell’istruzione superiore, un segno quanto mai allarmante.
La geografia sarebbe dunque una scienza inutile o, quanto meno, secondaria, della quale l’uomo di media cultura può fare tranquillamente a meno?
Noi non lo crediamo.
La decadenza degli studi geografici e del pensiero geografico, non solo a livello scolastico, è la spia significativa di un malessere profondo della cultura occidentale moderna, al quale occorre reagire con la massima energia.
In fondo, la geografia ci offre una immagine complessiva di quel mondo fisico – geologico climatico, botanico, zoologico e antropico – che sta alla base di ogni ulteriore speculazione filosofica della realtà. Misconoscere l’importanza di quella immagine nel delineare la mappa interiore, se così vogliamo chiamarla, che ogni essere umano dotato di ragione costruisce, nel corso della propria vita, di sé e dell’altro, significa sminuire l’immagine che la persona ha di sé stessa e ignorare la profonda tensione verso la verità che la caratterizza.
Così come la geografia cerca di delineare un’immagine coerente e unitaria del mondo degli enti, allo stesso mondo la filosofia ci guida nella costruzione di un’immagina coerente e unitaria del mondo delle essenze, dei valori e della verità interiore. Pertanto si possono considerare la ricerca geografica e il pensiero geografico come propedeutici a quella ricerca e a quel pensiero che, mediante la costruzione di una geografia interiore, ci avviano alla scoperta e alla contemplazione delle più alte e nobili verità dello spirito, senza le quali l’essere umano risulta gravemente mutilato di una parte essenziale della sua stessa natura.