Nel racconto di Luciano sulla Venere di Cnido la disperazione del mancato incontro uomo-donna
di Francesco Lamendola - 21/05/2008
Quello spirito arguto e malizioso che fu Luciano di Samosata (120 circa - dopo il 180 d.C.), scrittore e sofista greco del quale poco sappiamo, ci ha lasciato un corpus letterario fra i più sostanziosi dell'antichità: più di 80 opere fra dialoghi, saggi, epistole, un romanzo di avventure che, oggi, si classificherebbe nel genere fantascientifico (la cosiddetta Storia vera), e una cinquantina di epigrammi.
Forse di origine aramaica (Samosata è in Siria), avvocato ad Antiochia, conferenziere itinerante e retore in Grecia, Italia e Gallia, trascorse gli ultimi vent'anni della sua vita errabonda e irrequieta stabilendosi definitivamente ad Atene, ove approfondì lo studio della filosofia e compose le sue opere più importanti.
Spirito irriverente, per non dire dissacratore, più brillante che profondo, più esuberante che robusto, raggiunge talvolta, nei Dialoghi, vette di ironia esilarante, facendosi beffe, in ugual misura, di uomini e dei; e, fra gli uomini, dei morti non meno che dei vivi.
Atticista nella lingua, è considerato uno degli scrittori più eleganti dell'età ellenistica e si può considerare, nella parte dell'Impero Romano di lingua greca, l'equivalente di ciò che rappresentò, nella parte di lingua latina, il suo contemporaneo Apuleio di Madaura, il celebre autore del De magia e del romanzo L'asino d'oro (meglio noto con il titolo Le metamorfosi; da non confondersi, ovviamente, con l'omonima opera di Ovidio).
In questa sede, peraltro, non desideriamo soffermarci sull'insieme della sua produzione e della sua figura di scrittore e filosofo, bensì limitarci a prendere spunto da uno dei suoi Dialoghi, intitolato Gli amori, anzi da un singolo episodio in esso narrato, quello relativo a un racconto sulla Venere di Cnido.
Opera dello scultore Prassitele (attivo fra il 375 e il 330 a. C.), l'Afrodite cnidia, in marmo, raffigurava la dea nuda, in tutta la sua smagliante bellezza, mentre si apprestava al bagno sacro: una innovazione decisamente audace, per quell'epoca, che diede luogo a discussioni e polemiche, ma anche a innumerevoli tentativi di imitazione, specialmente in età ellenistica. Benché l'originale, purtroppo, sia andato perduto, l'opera ci è nota attraverso non meno di cinquanta copie, tra le quali due conservate presso i Musei vaticani, una presso il Museo Nazionale Romano ed una presso il Museo Archeologico di Firenze.
Sembra che quella di Prassitele sia stata una delle prime opere (dopo la flautista del Trono Ludovisi) in cui l'arte greca si sia confrontata con il tema del nudo femminile. Afrodite era raffigurata mentre stava per entrare nel bagno, dopo aver posato la veste su di un vaso. La statua era esposta su di un'edicola visibile da tutti i lati e, quindi, era stata concepita sin dall'inizio per essere osservata da un punto di vista plurimo, come si rileva anche dal racconto di Luciano. Per essa, che gli antichi considerarono il punto più alto toccato dall'arte dello scultore ateniese, aveva posato come modella Frine, la splendida cortigiana la cui bellezza diede luogo, dopo la sua morte, a numerose leggende. Era stata anche amante di Pericle; e i giudici l'avevano mandata assolta da un famoso processo, dopo che lo statista si era limitato ad aprirle la veste davanti ad essi e lasciare che l'ammirassero senza veli.
Secondo lo storico dell'arte Piero Adorno (L'arte italiana, Firenze, Casa Editrice G. D'Anna, 1998, vol. 1, p. 242),
La grazia con la quale Prassitele tratta le superfici marmoree è particolarmente adatta a rendere la bellezza del corpo femminile nella sua nudità.
Nel dialogo Gli amori, il narratore Licino, interrogato dall'amico Teomnesto, racconta di un suo viaggio da Rodi a Cnido, al termine del quale aveva incontrato due suoi amici, Caricle di Corinto e Callicratide ateniese: il primo, grande amatore di donne; il secondo, infaticabile amante di ragazzi. Era nata, così, una disputa se fosse da ritenersi superiore l'amore eterosessuale o quello omosessuale, controversia sostenuta dai due giovani, e alla quale Licino era stato chiamato, per così dire, a far da giudice.
Noi non diremo come la cosa andò a finire - se non altro, per non sciupare il piacere della scoperta al lettore che si sentisse stimolato a confrontarsi direttamente con il testo di questo bizzarro, ma simpatico scrittore dell'epoca ellenistica; ma, per i nostro scopi, ci limiteremo a riportare il breve episodio che funge da introduzione alla disputa vera e propria, quello - appunto - relativo alla statua di Afrodite nel tempio di Cnido (seguiamo la traduzione de I dialoghi e gli epigrammi di Luigi Settembrini, ristampata dai Fratelli Melita, Genova, 1988, 2 voll., I, pp. 491-494).
Avendo girato per il portico di Sostrato, e per altri luoghi che potevano dilettarci, ci avviammo al tempio di Venere, noi due, Caricle ed io, assai volentieri, Callicratide di male gambe perché andava a vedere una femmina; e penso che avrebbe scambiato la Venere di Cnido per l'Amore di Tespe. Ed ecco verso noi dal sacro recinto spirare aure lascive; ché l'atrio non era un suolo sterile lastricato di pietre lisce, ma, secondo luogo sacro a Venere, era fertile d'ogni specie d'alberi fruttiferi, che spandendo i fronzuti rami coprivano quell'aere come d'una coltre di verzura. Specialmente verdeggiavano pieno di coccole il mirto, che presso la sua regina cresceva rigoglioso e superbo, e ciascuno degli altri alberi che hanno vanto di bellezza, i quali per vecchiaia non seccano, ma mettono nuovi rampolli, e son sempre giovani. Misti a questi v'erano altri alberi infruttiferi, ma che hanno vaghezza invece di frutto, come cipressi, e platani con le aeree cime, e l'albero di Dafne già fuggitiva di venere e tanto schiva. Ad ogni albero s'aggrappava e aggraticciava l'edera amorosa; e le pampinose viti pendevano cariche di grappoli; ché più dilettosa è Venere insieme con Bacco, la loro dolcezza è mista, e se li dividi piacciono meno. Sotto l'ombra più fitta del boschetto sono lieti sedili per chi vuole banchettare, dove raramente va qualche persona civile, ma il popolo vi corre a folla nelle feste, e vi fa ogni sacrificio a Venere. Pigliato assai diletto di quelle piante, entrammo nel tempio. Nel mezzo sta la statua della dea di marmo paio, bellissima, splendidissima, e con la bocca mezzo aperta ad un sorriso. Tutta la sua bellezza è scoperta, non ha veste intorno, è nuda, se non che con l'una mano cerca di ricoprire il pudore. Tanto poté lo scultore con la sua arte, che la pietra così ripugnante e dura pare morbidissime carni. Sicché Caricle, come uscito fuori di sé, ad alta voce gridò: «O Marte felicissimo fra gli dei, che fosti legato per costei!». E così slanciandosi con le labbra strette, ed allungando quanto poteva il collo, la baciò. Callicratide rimase tacito, e nella sua mente ne maravigliava. Il tempio ha un altro uscio per chi vuole vedere la dea anche dalle spalle, acciocché sia ammirata tutta quanta; e facilmente si può entrare per l'altra porta, ed osservare la formosità delle parti posteriori. Noi dunque, volendo vedere tutta la dea, girammo dietro il tempietto; ed apertaci la porta da una donna che ne serbava le chiavi, rimanemmo subito abbagliarti a quella bellezza. Per modo che l'ateniese che testé aveva rimirato in silenzio, come ebbe fissati gli occhi su quelle parti della dea, subito, più di Caricle impazzendo, gridò: «Oh! Che bellezza di schiena! Come quei fianchi pieni t'empirebbero le mani ad abbracciarli! Come ben si rilevano e tondeggiano le mele, non molto scarse ed attaccate all'ossa, né troppo grosse e carnose! E quelle fossette nell'una e l'altra anca sono una grazia che non si può dire; e quella coscia e quella gamba così ben tirata sino al piede, sono di eccellenti proporzioni. Così è fatto Ganimede che mescendo a Giove in cielo gli rende più dolce il nettare: ché quella Ebe, oh non vorrei io che mi porgesse da bere». Mentre come un invasato Callicratide così gridava, Caricle per il grande stupore rimase immobile, e gli si imbambolarono gli occhi per la passione. Ma dopo che cessò la prima maraviglia, vedemmo in una delle cosce una chiazza, come macchia in veste, che pareva più brutta per la candidezza del marmo. Io feci una ragionevole congettura, che la pietra fosse naturalmente così; ché anche in queste cose può la ventura; un'opera potrebb'essere di bellezza perfetta, e la fortuna ci mette una teccola. Credendo adunque che quel nero fosse un naturale neo, più io ammirava Prassitele che seppe nascondere la difformità della pietra dove meno si può biasimare. Ma la sagrestana che ci stava vicino, ci narrò una nuova ed incredibile storia. Disse adunque che ci fu un giovane di non ignobile famiglia (per quel che fece, se n'è perduto il nome), il quale, venendo spesso in questo sacro recinto, per sua mala ventura s'innamorò della dea; e passando le giornate intere nel tempio, dapprima fu creduto timorato e devoto. La mattina su levava con l'alba, e veniva qui, e la sera malvolentieri se ne tornava a casa; e tutto ik giorno seduto dirimpetto la dea, teneva gli occhi fissi in lei. Faceva un continuo pissi pissi, e con certe mezze parole si lagnava sempre d'amore. Quando poi voleva per poco ingannare la sua passione, diceva un motto, pigliava una tavola, vi contava sopra quattro dadi di damma libica, e provava la sua speranza. Traeva, e guardava: se il tiro era buono, se era quello di venere, ed ogni dado presentava una faccia diversa, egli scoccava baci, e lieto credeva otterrebbe il suo intento; ma se, come suole avvenire, traeva male sulla tavola, de i dadi facevano il peggior punto, se la pigliava con tutta Cnido, come se avesse una terribile e insanabile calamità; indi a poco ripigliava i dadi, e con un altro tratto rimediava alla prima sventura. Crescendogli sempre più questa frenesia, sopra ogni muro, sopra ogni scorza di tenero arboscello scolpiva il nome della bella Venere; Prassitele per lui era un altro Giove; e quanti begli arredi e masserizie aveva in casa tutto offriva ala dea. Infine la soverchia passione gli tolse il senno, e con l'ardire sfogò il suo desiderio. Un dì al calar del sole, senza farsi veder da nessuno, si ficcò dietro la porta, e quivi rincantucciatosi, stette senza muover fiato. Le sagrestane secondo il solito tirarono la porta di fuori, e rimase dentro il novello Anchise. Ciò che avvenne in quella nefanda notte come potrebbe io o altri narrarvelo? Degli amorosi abbracciamenti questi segni apparvero la mattina, , e la dea ha quella macchia, per mostra dell'oltraggio che le fu fatto. Il giovane poi, come narra la voce del popolo, o che si gettò da una rupe, o che si annegò in mare, scomparve, e non se ne seppe mai più novella.
Mentre la sagrestana così raccontava, Caricle interrompendo il discorso gridava: «Dunque la femmina, anche di pietra, è amata; or che sarebbe vedere animata tanta bellezza? E quella sola notte non valse lo scettro di Giove?». E Callicratide sorridendo: «Non sappiamo ancora, o Caricle - rispose - se di questi racconti ne udiremo molti altri quando saremo in Tespe. Ed ora questa venere stessa che tu ammiri mi dà una chiara prova». «Quale?»domandò Caricle. E Callicratide: rispose e, mi parve, a proposito: «Il giovane innamorato, avendo un'intera notte di tempo per poter saziare il suo desiderio, si congiunse con la statua come si fa coi garzoni, sapendo che neppur nella femmina è migliore la parte femminile»…
La storia narrata da Luciano, per bocca di Licino, è - come quasi tutte le altre di questo Autore - ferocemente irrispettosa e pervasa da una sapida malizia, per cui l'impressione complessiva risulta, almeno a una lettura superficiale, non troppo seria e, anzi, quasi tendente all'effetto comico. Invece, dal nostro punto di vista, si tratta di una storia serissima, addirittura tragica. Di più: ci sembra che, in essa, sia possibile cogliere una sorta di parabola del vicolo cieco in cui si stanno spingendo i rapporti reciproci fra i due sessi, anche nella società odierna.
Innanzitutto, possiamo osservare che il giovane di Cnido che, per sua malasorte, si era innamorato della scultura di Prassitele, tentando di congiungersi sessualmente con essa, si reste autore di un atto tre volte innaturale e riprovevole: perché commise sacrilegio contro una dea; perché fece l'amore con un oggetto inanimato; perché tentò di usare di una donna come se fosse stata un maschio.
L'ultima circostanza, ossia l'atto di sodomia, è quella che l'omosessuale impenitente Callicratide porta a suo vantaggio, per asserire la superiorità dell'eros omofilo. Si potrebbe pensare, secondo la mentalità moderna, che fosse considerata la meno grave di tutte; invece sappiamo che già nell'antichità era considerata sommamente disdicevole. Erodoto, nelle Storie (libro I, 61) riferisce che la seconda rivolta degli Ateniesi contro Pisistrato fu occasionata dal fatto che Megacle, suo suocero, era venuto a sapere che quegli si univa alla moglie mediante il coito anale.
Scrive infatti lo storico greco (traduzione di Luigi Annibaletto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, 1982, vol. 1, p. 62):
Salito al potere nel modo che s'è detto, Pisistrato, secondo l'accordo convenuto con Megacle, ne sposò la figlia. Ma siccome egli aveva già dei figli adulti e gli Alcmeonidi avevano fama di essere maledetti, non desiderando che dalla nuova sposa gli venisse della prole, si univa ad essa contro natura.
In principio la donna tenne nascosto a tutti questo particolare; ma poi, ne fosse stata interrogata o meno, ne parlò alla propria madre, e questa al marito.
Megacle fu preso da vivo risentimento per l'ingiuria che da Pisistrato gli veniva fatta; e, accecato com'era dall'ira, fece tacere il rancore verso quelli del suo partito.
Informato di quanto si tramava ai suoi danni, Pisistrato si allontanò con tutti i suoi dal pese, e, ritiratosi ad Eretria, tenne consiglio con i suoi figli…
In questo episodio è evidente che l'ingiuria fatta a Megacle (a Megacle, si badi: non alla figlia di lui, ossia alla giovane sposa!) servì da pretesto per una ribellione politica che doveva essersi originata da ben altre cause; così come è facile dedurne che il coito anale doveva essere una forma abbastanza diffusa di controllo delle nascite. D'altra parte, dal racconto di Erodoto risulta senza ombra di dubbio che tale pratica era considerata altamente disdicevole e tale, se risaputa, da gettare un'ombra di vergogna sull'uomo che la praticasse.
Tornando al dialogo di Luciano, la circostanza che il giovane protagonista del racconto della custode abbia tentato di congiungersi non ad un corpo vivo, ma a un corpo di marmo, rientra in un genere di perversione che anche i moderni conoscono assai bene (vedi le bambole gonfiabili e simili; cfr. il bel film di Nelo Riso Ondata di calore, del 1970, interpretato da Jean Seberg). In essa, quello che più colpisce non è tanto l'inganno dei sensi in cui è caduto l'uomo di fronte alla statua (si pensi al Perché non parli? del Mosé michelangiolesco), quanto la difficoltà fisica, se ci è consentito adoperare questa espressione, data la durezza della materia di cui il simulacro è fatto; difficoltà che sembra sottolineare, simbolicamente, la disperata vanità dello slancio amoroso.
Infine vi è la circostanza aggravante per eccellenza. Ossia che non di una immagine qualsiasi si trattava, ma di quella di una divinità, e sia pure la divinità ispiratrice dell'amore sensuale. Si ricordi il destino del cacciatore Atteone, finito sbranati dai suoi sessi cani per aver spiato Artemide che faceva, nuda, il bagno in un fiume, e si capirà come, per la mentalità greca, la colpa del giovane di Cnido (ci era scivolata dalla pena la parola "peccato": ma questo, naturalmente, è un concetto che non appartiene al mondo antico) fosse veramente una delle più gravi in assoluto, e tale da meritargli senz'altro la morte. Sentenza che egli stesso provvide ad eseguire, tormentato dal senso di colpa, o precipitandosi da una rupe o annegandosi in mare. In effetti, bisogna arrivare fino alle pagine deliranti del marchese De Sade per trovare delle forme sessuali di sacrilegio contro la divinità; ma in ben altro clima morale e con ben altra prospettiva.
Perché, dunque, abbiamo sostenuto che questo dialogo di Luciano di Samosata offre un utile strumento di riflessione sul dramma dell'incontro mancato fra il genere maschile e quello femminile, così caratteristico del nostro tempo?
In prima battuta, possiamo osservare che già molti storici e molti filosofi della storia - da Oswald Spengler ad Arnold Toynbee, ad Eugen Rosenstock-Huessy - hanno istituito un parallelismo fra la tarda antichità e il mondo contemporaneo, ravvisando in entrambi i sintomi tipici di una «cultura del tramonto», ossia di una civiltà giunta nello stadio senile. Ed è chiaro che uno scrittore come Luciano poteva permettersi di farsi beffe degli dei e della religione, semplicemente perché il sentimento religioso si era talmente affievolito (come notava già, due secoli prima, Cicerone), che ormai quasi soltanto le vecchiette continuavano a praticarlo con sincera devozione; mentre, fra le classi colte ed agiate, erano largamente diffusi un agnosticismo ed un relativismo a tutta prova (cfr. il beffardo: Che cos'è la verità? di Pilato a Gesù Cristo, durante il processo a quest'ultimo). Luciano, pertanto, poteva esprimersi in quei termini, ed anzi incontrare i favori del pubblico, proprio perché il vero sentimento religioso era ormai quasi scomparso dal mondo greco-romano - o, quantomeno, dall'ambiente cittadino del medio Impero Romano (altro discorso, probabilmente, andrebbe fatto per la società rurale).
Ma un'altra analogia fra la situazione nel mondo greco-romano del II secolo dopo Cristo e quella odierna della società occidentale ci sembra risiedere proprio nell'elemento sessuale del racconto sull'Afrodite di Cnido. Non intendiamo qui allargare a dismisura la nostra riflessione, considerando in termini generali il fenomeno della omosessualità nel mondo antico. Altri lo hanno già fatto prima di noi, con metodo eccellente ed autentica acribia filologica; e, fra tutti, lo storico inglese Kenneth J. Dover, al cui esauriente volume L'omosessualità nella Grecia antica (titolo originale: Greek Homosexuality, 1978; traduzione italiana Torino, Einaudi, 1985) rimandiamo il lettore desideroso di approfondire l'argomento. Ci limiteremo piuttosto all'ovvia considerazione che, in una società che finisce per considerare l'omosessualità come una pratica normale e tanto legittima, quanto quella eterosessuale, il consueto rapporto di reciproca attrazione fra il genere maschile e quello femminile ha subito, evidentemente, un progressivo e incontrollabile processo di sfilacciamento e di disintegrazione.
Callicratide fa l'elogio dell'eros omofilo come superiore a quello eterosessuale; e, come si sa, è in buona compagnia fra le grandi menti dell'antica Grecia, a cominciare dal Platone del Simposio: ma lo stesso Caricle, nell'esaltare l'amore per le donne, non sa opporgli alcun argomento che non sia di natura estetica, e dunque contestabile a priori. Non solo: mentre Callicratide è presentato come un tipo virile, vestito con semplicità e dai modi schietti, Caricle ci appare piuttosto come uno zerbinotto; il che la dice lunga sulla percezione dei due tipi di amanti, omosessuale ed eterosessuale, nell'immaginario collettivo dell'epoca. In altri termini, si ha quasi l'impressione che l'amore realmente degno di un maschio fosse, alla luce della mentalità corrente, quello per i ragazzi e non quello per le donne; quest'ultimo essendo piuttosto riservato agli uomini effeminati e poco virili - e, anche qui, Platone docet.
Dunque, la nostra riflessione nasce dalla constatazione che in una società ricca, sazia e raffinata, dominata da una cultura piuttosto intellettualistica che profonda, piuttosto interessata ai valori formali che alla sostanza delle cose, il reciproco interesse fra l'uomo e la donna tende ad attenuarsi e gradualmente a scomparire, per lasciare campo libero alla ricerca, dapprima timida e incerta, poi sempre più smaniosa e ostentata, di forme «alternative» di ricerca del piacere, ivi compreso il piacere sessuale.
Ora, secondo la nostra opinione, la naturale attrazione fra uomo e donna è il cemento di una qualsiasi società; tanto più necessario ed essenziale, quanto più essa è sottoposta a continue tensioni e sollecitazioni, come è il caso del dilagare della tecnica e degli sconvolgimenti nello stile di vita da essa introdotti. Se tale attrazione vien meno, la famiglia si distrugge o sopravvive come vuoto simulacro; i figli, lasciati sempre più a sé sessi (o, peggio, nelle "amorevoli" mani della televisione e del computer), non riescono ad elaborare saldi valori per il loro progetto di vita; al senso del dovere, dell'onore, del lavoro, subentra un edonismo spiccio sempre più sguaiato e onnipervasivo, per cui anche le attività produttive, i servizi sociali, la politica come impegno nella res publica vengono travolti da una generale ondata di rilassamento. E l'intero corpo sociale, con il riso sulle labbra (il riso idiota del Grande Fratello o quello allucinato delle pasticche di exstasy), corre sul binario morto che lo conduce verso l'autodistruzione.
Quel giovane ossesso che volle far l'amore con la statua di Afrodite è, perciò, il simbolo del profondo malessere che attanaglia la relazione fra uomo e donna in una società che ha smarrito le proprie basi morali e spirituali, dominata da un piatto materialismo e protesa all'inseguimento di un edonismo sfrenato.
Nel romanzo di Mary McCarthy Il gruppo, del 1954 (da cui Sidney Lumet ha tratto il bel film omonimo, nel 1965) vi è un significativo scambio di battute fra Harald, vedovo di Kay, morta suicida (si è gettata nel vuoto dal balcone di un grattacielo) e Lakey, una ragazza lesbica amica di lei, mentre i due si stanno recando in automobile al suo funerale. Lui, che non ha mai amato la povera Kay e che l'ha ripetutamente tradita, si sente improvvisamente attratto dalla raffinata bellezza di Lakey, ma è tormentato, al tempo stesso (o forse eccitato?) dal pensiero che le due ragazze, forse, sono state amanti. L'altra, invece, lo disprezza e lo ritiene, in cuor suo, almeno in parte responsabile del disagio di Kay e, in definitiva, del suo gesto disperato, ed è intenzionata a "vendicarla", negando all'uomo di sapere la verità sui loro rapporti e obbligandolo, così, a mostrare apertamente tutta la sua bassezza morale.
Vale la pena di riportare alcune battute di Harald a Lakey (nella traduzione di Magda de Cristofaro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1964, 1976, p. 448), perché ci sembrano esemplari di quella incapacità di tanti uomini, oggi, di amare le donne, e di quella speculare impossibilità, da parte di tante donne, di amare gli uomini, che sono una delle manifestazioni più evidente della odierna crisi spirituale.
«Cristo, non sia così conformista», disse lui. «Non me l'aspettavo proprio da lei. Noi due ci capiamo. Avrei potuto amarla, Lakey, se lei non amasse le donne. Lei avrebbe potuto salvare me; io avrei potuto salvare lei. Lei non può amare gli uomini; io non posso amare le donne. Avremmo potuto amarci a vicenda; chissà? Siamo due esseri superiori in una folla di sciocchi e di comparse. Alla fine ci incontriamo per incrociare le spade. Perché non facciamo un duello sulla tomba di Kay?».
L'elemento necrofilo, che nel dialogo fra Harald e Lakey è rappresentato dalla salma ancora insepolta di Kay, sorta di vittima espiatoria di un malessere psicologico e sociale molto più grande di lei, è presente anche nel racconto di Luciano, in quel corpo di pietra di Afrodite che adombra il corpo di una donna non viva, sul quale si consuma l'atto sessuale nefando che, subito dopo, spingerà al suicidio il ragazzo sacrilego.
Quanti uomini, oggi, vorrebbero amare le donne soltanto come delle belle statue (o, magari, come delle automobili di lusso), degradandole a corpi senz'anima, perché di quest'ultima nulla interessa loro? Allo stesso modo, un romanzo di Kawabata è ambientato in una casa d'appuntamento ove le ragazze vengono possedute dai clienti mentre giacciono in un sonno profondo, procurato loro mediante potenti sonniferi.
Possedere la donna come un oggetto, come una cosa: non è forse questo il sogno di tutti gli uomini psicologicamente impotenti, incapaci di accostarsi a lei come a un soggetto dotato di interiorità, oltre che di belle apparenze? Non è forse l'ennesima manifestazione della negazione dell'altro, del volto dell'altro; della vecchia brama di ridurre il soggetto ad oggetto; di appagare l'io senza doversi sobbarcare l'impegno di entrare in relazione con un tu?