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Perché la sinistra é rimasta antipatica

di Luca Ricolfi - 12/06/2008

 

 

La sinistra ha perso le elezioni perché non è ancora guarita dalle malattie che affliggono il suo discorso? Detto brutalmente, siamo ancora troppo antipatici per vincere? Sì e no. O meglio: siamo ancora discretamente antipatici, ma forse il nostro più grande problema sta diventando un altro. Vediamo quale

 

Da un certo punto di vista le elezioni del 2008 sono state una prova generale anticipata di quel che, quando scrissi "Perché siamo antipatici?" (ossia nel 2005), era ragionevole aspettarsi per il 2011: una campagna elettorale senza l’arnia dell’antiberlusconismo. Contrariamente a molti studiosi di mass media, ho sempre ritenuto, sulla base delle mie ricerche empiriche, che l’antiberlusconismo fosse un’arma magari politicamente discutibile ma elettoralmente molto efficace Non ho mai pensato che, limitandosi a deporre l’antiberlusconismo, la sinistra avrebbe conquistato più voti, ma semmai che ne avrebbe conquistati di meno. Per questo, immaginando che l’uscita di scena di Berlusconi sarebbe avvenuta nel2011, mi attendevo una pesante sconfitta elettorale per quell’anno. Quel che è successo, invece, è che grazie alla fine anticipata della legislatura e alla scelta di Veltroni di non brandire l’arma dell’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto sperimentare fin dal 2008 che cosa significa combattere la destra senza l’aiuto di quell’arma. L’antiberlusconismo, infatti, è stato per quindici anni la risorsa che ha permesso alla sinistra di non fare i conti con se stessa Venuta meno quella risorsa la sinistra si è trovata, per così dire, nuda di fronte all’elettorato: forse un po’ meno antipatica di prima, grazie a Veltroni che ha aperto una stagione di chiarezza programmatica e di rispetto delle persone ‘di destra", ma ancora drammaticamente distante dalla sensibilità degli strati popolari, perché la stagione dei salotti è stata troppo lunga e l’opera di costruzione di un’identità sociale nuova richiede anni di duro lavoro.   Per toccare con mano questo ritardo, basta osservare come le persone politicamente impegnate, gli intellettuali, i giornali vicini alla sinistra hanno reagito alla doppia vittoria del centrodestra, che prima ha conquistato il governo centrale (13 aprile 2008) e subito dopo - con Alemanno - è riuscito nell’impresa storica di espugnare il comune di Roma, da ormai quindici anni feudo della sinistra riformista. C’è chi è semplicemente sgomento, come un pugile suonato. C’è chi non si capacita che così tanti italiani si siano fatti abbindolare da un tipo come Berlusconi. C’è chi straparla di ritorno del fascismo. C’è chi, al solito, dice di voler emigrare all’estero. C’è chi tenta un’analisi, e constata che quelli di sinistra sono una «minoranza di massa», irrimediabilmente diversa dalla maggioranza degli italiani. C’è chi dice che la «pancia del paese» ha scelto la destra. C’è chi ti guarda con gli occhioni smarriti e ti chiede: ma tu non sei preoccupato? (però non si sognava di chiedertelo mentre Prodi propugnava l’indulto e contro-riformava il paese). Insomma, Veltroni ci ha pure provato a non alimentare il «razzismo etico» di una parte dell’elettorato di sinistra ma, non avendo neppure incominciato a ridefinire davvero identità e confini della sinistra stessa, non ha potuto cancellare in pochi mesi un sentimento - quello di superiorità culturale e morale - coltivato per decenni da tutto il ceto politico progressista, Veltroni incluso naturalmente. Un sentimento che non è del Pd in particolare, ma è proprio della cultura di sinistra nel suo insieme, compresa quella estrema di Bertinotti e Diliberto, compresi gli intellettuali e gli artisti fiancheggiatori, compresi i giornalisti e i commentatori che ogni giorno parlano della destra con la supponenza di chi si situa a un ben altro livello di civiltà, di dirittura morale, di responsabilità istituzionale.

 

Poteva andare diversamente? Probabilmente no, a meno di cominciare molto tempo prima. Non dico nel 1989, quando la caduta del muro di Berlino aumentò i gradi di libertà dei partiti comunisti dell’Occidente. E nemmeno nel 1998, quando lo sgambetto di Bertinotti al primo governo Prodi avrebbe dovuto aprire gli occhi a tutti. Ma almeno nel 2006, quando Prodi tornò al potere e i riformisti rinunciarono da subito a far valere il loro peso dentro l’Unione. Se Veltroni avesse cominciato allora a far sentire la sua voce, ad esempio opponendosi all’indulto, o contrastando le scelte contro-riformistiche imposte dalla sinistra massimalista in materia di tasse e spesa pubblica, nel 2008 l’elettorato avrebbe considerato più credibile l’offerta del Pd. Difficilmente questo sarebbe bastato a vincere le elezioni, ma certo avrebbe reso meno bruciante la sconfitta.

 

Veltroni e i suoi non vogliono rendersene conto, ma la realtà è che Berlusconi è arrivato a queste elezioni in condizioni di gravissima debolezza. Gli italiani erano delusi del Cavaliere alla fine del quinquennio 20012006, ma erano altrettanto scettici e disincantati all’inizio del 2008, quando sono tornati a votare per lui. E se nonostante questo scetticismo e questo disincanto hanno deciso di rimettersi nelle sue mani, è perché il messaggio di Veltroni è risultato ancora meno credibile di quello del vecchio leader del centrodestra.

 

E’ vero, anche grazie a Veltroni il messaggio della sinistra sta lentamente perdendo alcuni dei tratti che così a lungo l’hanno resa antipatica a tanti elettori, in primis l’oscurità del linguaggio e l’atteggiamento di superiorità morale. Si potrebbe dire che la sinistra di Veltroni sta cercando di acquisire le virtù del «quarto stile», basato sulla chiarezza e il rispetto dell’elettorato altrui. Ma l’opera è appena incominciata. Il popolo di sinistra, nutrito per decenni di false credenze, comode mitologie, racconti autoconsolatori, impiegherà ancora molto tempo per sintonizzarsi sul nuovo corso, per acquisire una forma mentis più aperta. Soprattutto, è lecito dubitare che il nuovo corso porti molto lontano finché chi lo guida non si libererà della peggiore eredità della cultura comunista, ossia la mancanza di rispetto per la verità, l’attitudine a nascondere i fatti, la tendenza a manipolare l’informazione in funzione dell’interesse di parte. Perché fino a ieri l’amore per la verità era (forse) un lusso, ma oggi - per la sinistra - sta diventando una necessità vitale.

 

La sinistra perde non soltanto perché è arrogante, presuntuosa e insincera. Perde anche perché non capisce la società italiana, non è in grado di guardare il mondo senza filtri ideologici, non sa stare fra la gente, ha perso del tutto la capacità di ascoltare e la voglia di intendere. E intenderà sempre di meno finché avrà paura dei fatti, delle opinioni non conformi, nonché di guardare senza pregiudizi alla drammatica scia, fatta di povertà, insicurezza e paura, che il governo Prodi ha lasciato nel paese.

 

I suoi notabili, dopo averci raccontato la fiaba dei 23 miliardi di extragettito da spendere, provano a convincerci che il Pd è andato bene. Veltroni si permette di deridere chi - come il direttore del Riformista Antonio Polito osa mostrare le cifre del disastro elettorale nonostante il quotidiano che le riporta venda «solo 2.000 copie».Rutelli,con la criminalità al massimo storico, ha il coraggio di dire che è la destra che «strumentalizza» il problema della sicurezza. A suo tempo, Bertinotti aveva spiegato che il provvedimento d’indulto aveva innanzitutto un «valore pedagogico» (di educazione alla tolleranza, suppongo).

 

Si potrebbe continuare. Ma ce n’è abbastanza per rendersi conto che, ormai, il problema centrale della sinistra non è più l’antipatia che essa suscita negli altri, bensì l’accecamento che il complesso dei migliori ha prodotto nella sinistra stessa, la distanza siderale che ormai la separa dal comune sentire. 


NOTE


Estratto della postfazione alla nuova edizione aggiornata del libro di Luca Ricolfi "Perché siamo antipatici? ", Longanesi in uscita domani