Hara, il centro vitale dell'uomo, dallo Zen alla concezione di Karlfried Graf Dürckheim
di Francesco Lamendola - 14/06/2008
L'uomo ha una doppia origine: egli è infatti di origine terrestre e terrena, naturale e soprannaturale. L'Occidente non ha compreso questa doppia origine perché ha dato per scontato che quella «celeste» sia esclusivamente materia di fede e che soltanto la realtà «terrena» possa essere oggetto di conoscenza scientifica e di analisi tecnica. L'Occidente ha scoraggiato l'uomo nella sua evoluzione spirituale. Tuttavia la provenienza celeste dell'uomo è la sua vera essenza. Nella profondità del suo essere l'uomo partecipa del Divino e può rendersene conto attraverso particolari esperienze.
L'uomo è cittadino di due mondi: quello condizionato dallo spazio-tempo e accessibile alla ragione e all'approccio tecnico, e quello che costituisce la realtà autentica del suo essere e che è al di là dello spazio e del tempo; quest'ultimo è accessibile soltanto alla nostra coscienza interiore, intima, e non alla ragione legata all'osservazione oggettiva.
La destinazione dell'uomo consiste nel diventare una persona che nella propria esistenza legata allo spazio-tempo può rendere testimonianza al suo essere sganciato da spazio e tempo. Per giungere a tanto, dobbiamo prima di tutto imparare a prendere sul serio le esperienze nelle quali n particolari momenti la divina essenza ci tocca e ci chiama.
Questo è il significato profondo di ogni esercizio spirituale, così come io lo intendo: aprirsi all'unione col Divino attraverso esperienze che lo testimoniano e mettere sempre più in atto un modo di essere che ci consenta di avvertire e sperimentare il Divino nella vita quotidiana.
La doppia origine dell'uomo è quindi accessibile all'esperienza. Essa è la fonte, la promessa e il compito della vita umana, e può essere vissuta sulla via iniziatica, il cui punto di partenza è l'esperienza dell'essere e il cui strumento è l'esercizio spirituale, l'exerzitium.
La vita, vissuta come cammino iniziatico, è la vita dell'uomo che si è destato alla sua autentica essenza. Mi sembra che sia giunta l'ora in cui l'Occidente debba destarsi a questa esperienza., che non deve restare privilegio dell'Oriente.
Queste parole (citate in: Paola Giovetti, I grandi iniziati del nostro tempo, Rizzoli, Milano, 1993, pp. 209-10) sono state scritte da Karlfried Graf Dürckheim, che alcuni considerano una delle personalità più significative del XX secolo: un Maestro di prima grandezza, un autentico spirito illuminato, capace di tracciare la strada all'umanità smarrita di questo nostro tempo.
Eppure, se andiamo a prendere una enciclopedia generale o un dizionario di filosofia, alla voce Dürckheim non troveremo, quasi certamente, nulla; la "voce" più simile sarà quella relativa al francese Émile Dürkheim (1858-1917), uno dei padri nobili del pensiero sociologico e antropologico europeo, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento; autore, fra l'altro, di studi sulle tribù "totemiche" dell'interno dell'Australia.
La cultura "ufficiale" pare non essersi ancora resa conto che la figura di Karlfried Graf Dürckheim svetta gigantesca nel panorama della spiritualità contemporane; e che, un giorno, essa verrà ricordata come quella di uno dei pochi, veri spiriti grandi dell'Europa novecentesca. Purtroppo è sempre così: la cultura accademica ha sempre lo sguardo rivolto all'indietro, è sempre vittima di una forma di idolatria della storia (contro la quale già Nietzsche metteva in guardia, in piena stagione storicistica); e, viceversa, afflitta da una cronica miopia per quanto riguarda il presente. Così come gli strateghi si preparano sempre alla prossima guerra con gli strumenti, materiali e concettuali, di quella precedente, allo steso modo gli studiosi della scienza e dell'arte pensano il mondo con le lenti della generazione passata. È una forma di presbiopia dalla quale difficilmente ci si può sottrarre, se non si esercita una continua critica dei propri schemi mentali consolidati.
Karlfried Graf Dürckheim nasce a Monaco di Baviera, nel 1896, da una famiglia di antica nobiltà. Trascorre l'infanzia in campagna; studia musica e frequenta il liceo classico; poi, non appena diplomato, parte volontario per la prima guerra mondiale, come tanti altri giovani nei giorni convulsi dell'estate 1914. Nominato tenente, presta servizio al fronte per tutta la durata del conflitto; si comporta da valoroso, ma riesce a non trovarsi mai nella condizione di dover uccidere un essere umano. Nel 1918 viene smobilitato e rientra nella vita civile.
L'orientamento della sua esistenza comincia a prendere una direzione spirituale ben precisa. Rinunciando all'eredità paterna, si immerge negli studi di filosofia e psicologia e si laurea nel 1930, a Lipsia, dedicandosi poi, per alcuni anni, all'insegnamento della psicologia presso l'Università di Kiel. Intanto, avviene l'incontro decisivo della sua vita con lo Zen: durante una conversazione tra amici, resta folgorato dalla lettura di un brano del Tao Te Ching. Da quel momento, lo Zen diviene il centro della sua vita spirituale; ad esso egli affianca la lettura e la meditazione dei mistici cristiani e, in particolare, di Meister Eckhart, il celebre frate domenicano che diventerà, per lui, il Maestro per antonomasia.
L'avvento di Hitler al potere, nel 1933, lo spinge a cercare spazio fuori della sua patria, anche perché la famiglia materna è di origini ebraiche. Dopo un periodo trascorso a Londra ed uno in Sud Africa, nel 1938 accetta dal ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, un incarico di tipo culturale da svolgere in Giappone: dovrà tenere conferenze, occuparsi di alcune biblioteche e curare i rapporti fra gli studiosi e gli insegnanti tedeschi residenti in Estremo Oriente. Salvo un breve rientro in Europa, nel 1939, per assistere la moglie Enja von Hattingberg morente di cancro, Dürckheim rimane in Giappone per oltre un decennio, che sarà fondamentale per la sua vita e per l'evoluzione del suo pensiero.
Il lungo soggiorno nel Paese del Sol Levante gli offre la possibilità di approfondire i suoi studi sullo Zen, anche mediante la frequentazione di insigni maestri giapponesi, tra i quali Hayashi, abate di un importante monastero presso Kyoto. Ed è in quegli anni che Dürckheim focalizza pienamente il concetto di hara, che una traduzione letterale ridurrebbe alla parola "ventre", mentre si tratta di qualcosa di molto più complesso: il centro vitale dell'uomo, il segno del suo raggiunto equilibrio psicofisico, della sua perfetta padronanza del proprio corpo così come del proprio spirito, della propria volontà e dei propri pensieri. "Essere in hara", pertanto, significa aver realizzato la propria evoluzione, aver conquisto la pienezza della condizione umana, sia nella sua dimensione terrestre che in quella celeste. Vuol dire liberarsi dal piccolo Io, dominato dalle passioni e dall'ignoranza, e accedere alla dimensione superiore, nella quale si realizza l'incontro fra l'umano e il Divino; scoprire - come dice anche Meister Eckhart - la rivelazione ineffabile di Dio in noi.
Dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, gli Americani sbarcano in Giappone e occupano militarmente il Paese sconfitto, procedendo a una sommaria epurazione degli elementi politicamente sospetti. Dürckheim, come cittadino tedesco e come funzionario del Ministero degli Esteri germanico, viene arrestato senza tanti complimenti e recluso in cella per circa un anno e mezzo. Lo accusano di essere un nazista; in Europa, intanto, si celebra la vendetta dei vincitori col processo di Norimberga, in cui anche Ribbentrop, fra gli altri, viene condannato a morte e giustiziato. Dürckheim, peraltro, utilizza il periodo della detenzione per dedicarsi intensamente allo studio e per praticare lo Za-Zen, la tecnica di meditazione in posizione seduta, trovando serenità e conforto e destando l'ammirazione di quanti gli stanno intorno.
Finalmente, nella primavera del 1947, egli può tornare a casa, in una Germania ancora sconvolta dalle distruzioni della guerra e dai feroci bombardamenti aerei degli Alleati. In mezzo a quelle macerie morali e materiali, e dopo aver appreso la morte di tante persone care, Dürckheim incontra una vecchia allieva, Maria Hippius, che diviene la nuova compagna della sua vita e che lo rimarrà sino alla fine. Insieme acquistano una casa a Hinter-Todtmoos, nella Foresta Nera; e poi, poco alla volta, alcune altre strutture, che consentono loro di mettere in piedi un istituto di terapia iniziatica, il cui scopo è aiutare le persone afflitte da disturbi e malattie a ritrovare la guarigione e l'equilibrio materiale e spirituale. La terapia è ispirata sia alla psicologia junghiana (e, in particolare, al processo di individuazione teorizzato da Carl Gustav Junhg), sia alle tecniche di meditazione Zen, sia, infine, a una serie di esercizi psico-fisici; e il suo fine dichiarato è quello di risvegliare la natura divina presente all'interno di ogni essere umano, il Cristo o il Buddha che giace al fondo della sua anima.
Ciascuno di noi, sostiene Dürckheim, deve convincersi che è alla sua portata fare appello a una serie di potenti energie interiori, che si manifestano in fenomeni quali la telepatia, la chiaroveggenza e simili, che possediamo ma non siamo abituati ad utilizzare. Procedendo per gradi, dobbiamo servirci di un maestro per risvegliare il Maestro interiore che è dentro di noi. Per secoli la cultura occidentale, e gran parte del pensiero cristiano, hanno convogliato tutta l'attenzione degli individui sull'idea di un Dio trascendente, al quale possiamo rivolgerci solo mediante un atto di sottomissione; è giunto il tempo, invece - sulla scorta dello Zen e di altre filosofie orientali, ma anche di mistici occidentali quali Meister Eckhart - di riscoprire la presenza interiore del Divino, ossia la divinità che è il nucleo essenziale della nostra natura.
Queste idee, che possono sembrare ardite dal punto di vista di una religiosità tradizionale, non scandalizzano importanti personalità del cristianesimo, ad esempio il gesuita padre Hugo Lassalle, egli pure grande ammiratore dello Zen e convinto, anzi, che lo Zen sia una delle vie privilegiate per accedere all'esperienza dell'unione mistica col Cristo. Anche altri pensatori e mistici cristiani, del resto - purché dotati di un'esperienza diretta della spiritualità asiatica - sono giunti, negli ultimi anni, alle stesse conclusioni: tra essi Raimon Panikkar e padre Anthony Elenjimittam, dei quali ci siamo a suo tempo occupati in apposita sede (cfr. F. Lamendola, Raimon Panikkar e la torre di Babele della cultura moderna; e Dalla storia di Uddalaka ad un ecumenismo cosmico, consultabili entrambi sul sito di Arianna Editrice). Sono giunti, cioè, alla conclusione che non esiste una differenza sostanziale fra le grandi esperienze religiose dell'Oriente e dell'Occidente, almeno quando ci si pone su un livello mistico. L'incontro con il Divino può prendere diverse denominazioni e raffigurazioni, a seconda dei differenti ambiti culturali: ma, fondamentalmente, si tratta sempre di una sola ed unica esperienza.
Dürckheim è anche dotato di una eccezionale capacità di penetrazione psicologica, che nasce dall'empatia con la quale si rapporta al prossimo; nonché di poteri terapeutici di ordine paranormale. Una volta, diagnostica esattamente un cancro al seno ad una sua allieva olandese e futura collaboratrice, consigliandole - però - di non lasciarsi curare mediante la medicina tradizionale. Gli esami confermano la presenza del tumore, per cui i medici propongono alla donna un immediato intervento chirurgico per l'asportazione totale del seno; ma lei segue il consiglio del maestro e si sottopone alla sua terapia, consistente nel risveglio delle sue facoltà interiori nascoste. Nel giro di tre mesi, il tumore è completamente scomparso.
Dopo quarant'anni di intensa attività presso il centro di Todtmoos-Rütte, durante i quali moltissime persone hanno conosciuto e apprezzato l'opera di Dürckheim - compresi sacerdoti e personalità della cultura internazionale - , il maestro si spegne, nel dicembre del 1988.
Non ha lasciato eredi diretti, anche perché è sempre stato contrario all'idea che il discepolo debba porsi in una condizione di dipendenza passiva dal proprio maestro. Secondo lui, chi è maturo per affrontare la via e cerca il Maestro non lo troverebbe, o non lo riconoscerebbe, se non fosse già maturo per risvegliare, un poco alla volta, il proprio Maestro interiore.
Riportiamo alcuni passi dal libro di Karl Graf Dürckheim Hara. Il centro vitale dell'uomo secondo lo Zen (titolo originale: Hara, die Erdmitte des Menschen; traduzione italiana di Carlo d'Altavilla, Edizioni Mediterranee, Roma, 1969), scelti fra i più significativi, dai quali si evincono la chiarezza concettuale e la limpidezza stilistica di questo grande personaggio, che sa andare dritto al cuore delle questioni e disdegna ogni artificio retorico.
Se l'hara è congenito nell'uomo, esso si presenta però anche come una conquista. Il compito dell'uomo, di divenire un essere intero, può venire realizzato solo superando di continuo ciò che si oppone a tale sviluppo. A tanto, occorre che egli senta in sé una forza profonda, che assuma coscientemente tale forza e la alimenti: è allora che egli si avvierà verso il compimento.
Il compito di realizzare il giusto mezzo in se stessi può essere assolto soltanto da chi, con perseveranza e fedeltà, senza temere la sofferenza e con grande pazienza è capace di superare tutto ciò che impedisce l'acquisizione dell'hara, favorendo invece tutto ciò che può essere una espressione adeguata dell'hara raggiunto e consolidato. Non è possibile divenire un uomo intero senza l'hara, senza la conquista del «centro» psicosomatico. Acquistare l'hara addestrandosi significa anche aprirsi la via lungo la quale l'uomo può divenire intero.
Tuttavia l'uomo è veramente« intero» solamente quando nel suo Io si realizza quella essenza di cui egli è l'incarnazione. L'uomo non è « intero» prima che si sia integrato in tale essenza, cioè fino a quando in lui vive un Io il quale non è l'espressione di essa ma è determinato dall'esterno. Per realizzare nell'Io l'essenza è indispensabile sviluppare conoscenze e attività formative e creatrici, ma la condizione è anche il metter nuovamente radice nel centro originario, dunque l'hara.
Ora, ciò richiede un addestramento e una pratica che comprendono una serie ininterrotta di esercizi, i quali non mirano tanto a prestazioni interiori quanto a una acquisizione interiore. Ciò che qui importa non è l'attività come tale né il risultato tangibile è ma una trasformazione del proprio intimo essere. E come il presupposto di una vera maestria nel fare e nell'agire è una particolare disposizione che l'uomo ha fatto propria, del pari, per converso, l'addestrarsi in una certa attività o opera può servire come mezzo per realizzare una maestria interiore.
A tale stregua, il significato di ogni attività si sposta dall'esterno all'interno. Più che la riuscita visibile, importa il definirsi della costituzione dell'uomo, lo stabilizzarsi della quale porta anche a prestazioni perfette non aventi però in se stesse il loro senso e il loro valore. Così intesa, ogni arte può fornire l'occasione per esercitarsi progressivamente sulla «via interiore». Allora si capisce come in Giappone si possa dire: «Tirar d'arco, danzare, comporre mazzi di fiori, cantare, prendere il tè e lottare sono una stessa cosa». Dal punto di vista del risultato materiale, della prestazione nel suo aspetto esteriore, una tale frase non ha senso. Essa appare evidente solo avendo in vista il comune intento, che è la propria autorealizzazione.
È così che pel Giapponese ogni arte e perfino ogni sport può assumere un significato che trascende la «prestazione», l'attività materiale e visibile; l'esercitarla porta di là dal fine apparente; il suo vero fine è uno stato di tutto l'uomo che una volta conseguito può anche dar luogo a prestazioni tanto perfette quanto naturali, compiute quasi giocando e senza sforzo, allo stesso modo che quando una mela è matura cade da Sé, senza che l'albero debba intervenire. (K. Graf Dürckheim, Op. cit., pp. 24-25).
Quando il maestro Hayashi mi diede il foglio, nel ringraziarlo gli chiesi: «Come si fa a divenire un Maestro?». Con un lieve sorriso egli rispose: «Facendo semplicemente uscire il Maestro che è dentro di noi». Sì: «facendo semplicemente uscire» - come se ciò fosse una cosa da nulla!
La via che conduce a tanto è lunga. È appunto la via insegnata dai Maestri d'Oriente. È la via della pratica, come essi l'intendono, ossia nei termini di un exercitium ad integrum.
Nell'exercitium così concepito l'uomo impara a superarsi. Naturalmente la via che conduce all'acquisizione di una data capacità richiede anzitutto un'attenzione concentrata, una volontà ferma, e instancabile, la perseveranza nel ripetere sempre di nuovo una data attività. Però l'exercitium in senso proprio comincia solo quando si è padroneggiata la tecnica nei suoi aspetti materiali, quando chi si esercita si rende conto di quanto siano d'ostacolo sia l'ambizione e il desiderio di eccellere, sia il timore di non riuscire. Ma la pietra basilare di ogni esercizio resta sempre l'acquisizione e il consolidamento del centro.
Il maggiore ostacolo quando ci si applica per acquistare la forza del centro è l'attaccamento all'Io che con la sua ottusa pertinacia turba sempre di nuovo la manifestazione perfetta di ogni capacità. È quando si riesce ad eliminare le interferenze di questo Io inferiore che potrà aversi una prestazione ineccepibile la quale allora sarà il segno e il frutto di una maturità interiore. A tale punto l'intelligenza astratta non è più necessaria, la volontà tace, l'animo è calmo e l'uomo, felice e sicuro, agisce, per così dire, senza agire. Non è più lui a tirare sul bersaglio: è come se il colpo partisse da sé.
La maestria nell'azione si manifesta quando l'azione stessa non è più compiuta dall'Io in senso stretto ma da una forza sovrannaturale che noi possediamo e che si palesa attraverso atti perfetti e mirabili quando il piccolo Io si toglie di mezzo. E l'uomo che in un qualsiasi dominio ha preso coscienza di tale forza della propria essenza e sa affidarsi ad essa, per ciò stesso si trova sulla via lungo la quale potrà acquistare un nuovo, libero senso della vita.
Pertanto, con lo sviluppare l'hara si dispone di una energia e di una sicurezza per prestazioni e azioni che anche con le capacità materiali più perfette, con la volontà più tenace e con l'attenzione più concentrata non si saprebbero compiere. «Riesce in modo perfetto soltanto quello che viene fatto con l'hara». Come la vita nel suo complesso può ampliarsi solo quando l'uomo diviene una sola cosa col proprio centro, del pari ogni manifestazione della vita - sia combattendo, sia dedicandosi ad un'arte, sia nell'amore e via dicendo - . «riesce» a chi ha conquistato l'hara (Op. cit., pp. 31-32).
…Hara è il centro del corpo umano - ma il corpo, in quanto corpo umano, è qualcosa di più di una mera realtà biologica e fisiologica. Peraltro, il significato complessivo di quella espressione - hara no aru hito - è: «l'uomo che possiede un centro». Corrispondentemente, hara no nai hito vuol dire: l'uomo privo di un centro. L'uomo a cui manca un centro perde facilmente l'equilibrio, mentre chi lo ha lo conserva sempre. In più, in lui vi è qualcosa di calmo e che tutto abbraccia. Ha una «ampiezza umana». L'espressione hara no aru hito significa anche questo. E quando questo aspetto ha un particolare rilievo, si parla di hara no hiroi hito, intendendo, come già con hara no aru hito, l'uomo che ha una grandezza d'animo, che è generoso, che ha ampie vedute, opposto all'hara no nai hito o all'hara nochiisai hito, che è l'uomo dall'animo limitato e meschino. Ma qui non si tratta solo delle relazioni con altri uomini e del modo di sentire ma anche di comportamento di fronte a situazioni che si presentano ad un tratto e del modo di giudicare e di reagire. L'uomo che ha un centro giudica in modo sereno ed equilibrato. Ha il senso di ciò che è importante e di ciò che non lo è. La realtà gli si presenta non deformata ma nella relazione oggettiva dei suoi valori. L'hara no aru hito lascia tranquillamente che la realtà gli si avvicini; nulla lo spaventa, nulla altera la sua calma prontezza a intervenire in modo adeguato. Non si tratta, qui, di insensibilità, ma dell'effetto di una data costituzione interiore da lui realizzata, caratterizzata da una elasticità «in profondità», la quale permette di prender posizione nel modo giusto di fronte ad ogni situazione, con naturalezza e con calma. Così l'epressione hara no aru hito allude anche direttamente a chi un dato frangente sa quel che deve fare, non lasciando che nulla lo sconvolga. Se al divampare di un incendio i più si agitano e corrono in modo disordinato, l'hara no aru hito fa in modo calmo e rapido quel che vi è da fare, constata la direzione del vento, mette in salvo le cose più importanti, porta dell'acqua, agisce senza sosta come la situazione l'esige, con chiarezza di mente. L'hara no nai hito è l'opposto di ciò. (Op. cit., pp. 34-35).
Si prenda ora la limpida immagine dell'uomo che, possedendo un centro, sa giudicare le cose in modo sereno ed equilibrato; che possiede il senso di ciò che è importante e di ciò che non lo è; che sa vedere la realtà in maniera non deformata, e conserva padronanza e lucidità nei perigli della vita; e la si confronti con ciò che dicono i filosofi occidentali, i quali si sono confrontati con il problema della passioni. Si pensi a Spinoza, per esempio, che al dominio delle passioni ha dedicato le pagine più alte della sua Etica: quale impressione di astratto intellettualismo; quale differenza con la presa immediata, intuitiva, efficacissima, del concetto Zen dello hara no aru hito.
Basterebbe il fatto di aver diffuso in Occidente questa dottrina Zen - ma i suoi meriti sono infinitamente più ampi - per fare di Karl Graf Dürckheim una figura di tutto rispetto nel panorama della spiritualità e del pensiero contemporaneo.