È il tradimento dell'amicizia il peccato che non sarà perdonato
di Francesco Lamendola - 19/06/2008
Prima di spiegare perché il tradimento dell'amicizia sia l'atto moralmente più grave fra quanti caratterizzano la vita quotidiana, dobbiamo dire brevemente che cosa l'amicizia sia, in che consista la sua essenza.
Non è così facile come può sembrare; anche se tutti si riempiono la bocca con questa parola, pochi ne conoscono il significato profondo, e meno ancora sono quelli che la vivono in maniera autentica e coerente.
Innanzitutto diremo che non si tratta di un sentimento, ma di una relazione.
L'amicizia è una relazione complessa fra un io e un tu la quale, nelle forme più basse, nasce solo da un reciproco interesse materiale, mentre in quelle più alte coinvolge un terzo soggetto, un Tu trascendente che ne diviene, a un tempo, il muto ma prezioso testimone e la roccia, il solido fondamento sul quale la relazione si appoggia; o, se si preferisce, la luce soprannaturale che la trasfigura e la innalza al di sopra della sfera della vita ordinaria.
Né si creda che quest'ultima forma di amicizia sia esclusiva di coloro che si muovono entro una prospettiva religiosa e che fondano in Dio il fatto umano dell'amicizia verso un proprio simile. Chiunque concepisca l'amicizia come qualcosa di sacro, implicitamente chiama a testimonio di essa quel Tu trascendente di cui si diceva. Non sarà concepito come Dio, ma come il senso della giustizia, della verità e dell'onore; non importa: svolgerà la stessa funzione. Un ateo può vivere l'amicizia nel senso più alto, altrettanto nobilmente di un credente.
Una sola cosa è essenziale alla forma più alta e più vera dell'amicizia, la quale la distingue dalle sue scadenti - e numerose - imitazioni: che sia una relazione tra buoni. Tra i buoni, ciò che viene reciprocamente scambiato è il bene; e questo mette in movimento un circuito virtuoso, per cui una tale amicizia renderà i contraenti sempre migliori, non solo nei loro rapporti reciproci, ma anche in se stessi. Sed hoc primum sentio - scrive Cicerone -, nisi in bonis amicitiam esse non posse: in primo luogo penso che l'amicizia non possa sussitere se non tra buoni.
E sempre Cicerone, nel Laelius de amicitia (cap. VI): Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cumm benevolentia et caritate consensio. «L'amicizia non è niente altro che l'armonia delle cose umane e divine, accompagnata dalla benevolenza e dalla carità»; concetto, quest'ultimo, che si può rendere con «stima», «affetto» e, persino, «amore», come nell'espressione «carità di Patria», che sta, ovviamente, per «amor di Patria» (cfr. anche il nostro precedente articolo: Bellezza, bontà e verità dell'amicizia spirituale nel pensiero di Aelredo di Rievaulx, consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Così intesa, l'amicizia - va da sé - è una merce estremamente rara.
Né è possibile una vera amicizia tra due persone che si trovino su livelli di evoluzione spirituale troppo differenti. Nel rapporto tra maestro e discepolo, ad esempio, vi può essere affetto, ma non autentica amicizia; perché l'amicizia è una relazione fra pari. In compenso, può accadere che si crei un malinteso: che due persone, cioè, credano di trovarsi su un medesimo livello evolutivo, mentre non lo sono.
Questo accade facilmente quando il sentimento dell'amicizia si intreccia con quello dell'amore spirituale, con il quale condivide l'esigenza primaria di veder realizzato il bene dell'altro. Quando, ad esempio, un uomo e una donna si sentono attratti l'uno verso l'altra da un insieme di stima, ammirazione, benevolenza, affetto e riconoscenza, è praticamente impossibile separare la dimensione dell'amicizia da quella dell'amore. Di per sé sono due modi di relazione ben distinti; ma, in pratica, nella vita le relazioni non si presentano mai allo stato puro, e questo vale anche per l'amicizia e l'amore.
Dunque, l'amicizia può comprendere l'amore, ma l'amore non può comprendere l'amicizia. Infatti, tra le due, è l'amicizia la relazione più pura e disinteressata, dunque la più elevata; e ciò che sta più in alto può comprendere ciò che sta più in basso, ma non è possibile il contrario. Questo va contro il sentire comune: si pensa che l'amore sia una relazione più grande dell'amicizia, proprio perché li si pensa, entrambi, come sentimenti e non come relazioni. In realtà, una relazione esprime, sempre, anche un sentimento (non solo per le persone, ma anche per le cose o per delle entità astratte: l'affetto per la propria casa, l'amore per la giustizia, ecc.); ma un sentimento può non esprimere alcuna relazione. Infatti l'amore, come sentimento, può anche non venire ricambiato, ed essere perciò a senso unico; ma, per essere una relazione, deve sempre essere reciproco. Mentre l'amicizia non può che essere reciproca, perciò non può essere che una relazione: non esistono amicizie non ricambiate, al massimo vi sono simpatie non ricambiate. Ma la simpatia è una cosa totalmente diversa dall'amicizia.
Chiariti questi aspetti preliminari, passiamo a spiegare perché il tradimento dell'amicizia sia l'atto moralmente più grave fra quanti caratterizzano la vita quotidiana. Diciamo la vita quotidiana, perché esistono circostanze eccezionali - la guerra, ad esempio - nelle quali l'essere umano è capace di crimini anche peggiori. Ma, se la violenza fisica è quella che maggiormente colpisce la nostra sensibilità e commuove la facoltà immaginativa, non bisognerebbe dimenticare che esistono dei veri e propri crimini a danno del prossimo, nei quali non viene versata una sola goccia di sangue, ma che possono segnare per sempre la vita di una persona.
Si pensi alla sottile malvagità dispiegata dal padre della piccola Gertrude, la futura monaca di Monza, nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Ma si pensi anche, certo su un piano diverso di arte e anche di drammaticità, al comportamento di Mirandolina, la protagonista de La locandiera di Carlo Goldoni, verso il cavaliere di Ripafratta: freddamente decide di farlo innamorare e poi, quando vi riesce - dopo aver superato tutte le sue difese, che nascevano, forse, da qualche antica ferita - lo deride, lo umilia e lo respinge.
Ma tornando all'amicizia, poniamo il caso in cui l'amico venga tradito dall'amico (o dall'amica), ossia da colui (o colei) al quale aveva aperto interamente il proprio cuore; per il cui bene avrebbe tutto sacrificato; del quale non aveva mai dubitato ma, anzi, nel quale aveva sempre riposto la più completa, assoluta fiducia.
Tradire chi si fida di noi, insegna il buon vecchio Dante, è molto più grave che tradire colui che sta sull'avviso; è per questo che i traditori degli amici, dei parenti e dei benefattori vengono gettati nell'abisso più profondo del suo Inferno. Ma colui che si fida più di ogni altro, è l'amico; dunque, tradire l'amico significa commettere il crimine più odioso, il più imperdonabile (e altra questione è quella della possibilità del perdono: questione che abbiamo già dibattuto nell'articolo: È possibile perdonare qualcuno che non chiede perdono?, sempre sul sito di Arianna Editrice).
In generale, oggi si ha un'idea riduttiva del concetto di amicizia. È per questo che il suo tradimento non desta particolare indignazione; se non, ovviamente, quando se ne fa la personale esperienza. I sociologi, in particolare, sono propensi a non vedere nell'amicizia che una delle tappe della maturazione psicologica dell'individuo, e tendono a considerarla una tipica espressione dell'adolescenza o della pre-adolescenza. Il fatto di cominciare ad avvertire il bisogno di amici, in quella fase della vita umana, perciò, viene visto come una conferma che lo sviluppo affettivo procede in maniera "normale".
In realtà, se l'amicizia è vista come una relazione normale tra due persone, si perde di vista la sua essenza, ossia la sua eccezionalità. Se per normale si intende qualcosa che capita frequentemente e che non desta particolare meraviglia, allora l'amicizia autentica è una relazione decisamente "anormale". Nell'amicizia autentica, si prova un tale slancio di affetto per l'amico o per gli amici, che si sente come "normale" l'eventualità più contraria al maggiore istinto dell'uomo, quello di conservazione: dare spontaneamente la propria vita per loro. «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici», afferma Gesù durante l'ultima cena (in Giovanni, 15, 13). Non solo l'amico considera normale questa eventualità: considera normale, qualora si debba mai presentare, affrontarla con gioia.
Ecco perché dicevamo che, nell'amicizia, vi è una dimensione di sacralità. La relazione dell'amicizia scandisce un tempo sacro e un luogo (figurato) altrettanto sacro: come fosse un tempio, nel momento di una solenne cerimonia liturgica. Ad esempio, deporre un segreto nell'orecchio di un amico significa deporlo in una custodia sacra, dalla quale sarebbe sacrilego l'atto di estrarlo e propalarlo ad estranei.
Il tradimento dell'amicizia può prendere varie forme, ma raramente arriva alla forma più bassa: il nuocere, intenzionalmente e con premeditazione, all'amico che di noi si fida, magari utilizzando a suo danno qualche cosa di sé che ci ha confidato in segreto.
Più frequente, e di poco meno grave, è il caso dell'amicizia improvvisamente respinta, per i motivi più vari, dopo che tra i due amici si è stabilito un grado di confidenza tale, da instaurare una totale apertura e una completa fiducia
Ciascuno di noi ha la tendenza a proteggersi, nell'avventura della vita, con delle difese più o meno elaborate, più o meno permanenti. In genere, chi molto ha sofferto, cerca anche di proteggersi maggiormente; a meno che il dolore gli abbia insegnato la verità più alta e difficile: che, per non rischiare di essere ferito in profondità, bisogna avere il coraggio di esporsi.
Nella relazione dell'amicizia, così come in quella dell'amore, le difese vengono abbassate, fino a giungere al completo abbandono di sé; e non è raro che ciò avvenga dopo un periodo iniziale di esitazione, di timore, di diffidenza, perfino di angoscia. Aprirsi all'altro, significa esporsi alle ferite; ma l'amicizia richiede che si corra questo rischio, che è un vero e proprio test preliminare, la condizione sine qua non perché essa sia resa possibile.
Invitare l'altro ad aprirsi, ad abbassare le difese, a confidarsi: ecco qualcosa che non si avrebbe il diritto di fare, se non si è più che sicuri di sapersi assumere l'impegno che ne scaturisce quale logica e naturale conseguenza: quello di essere fedeli all'amico, sempre: a qualunque costo e in qualunque circostanza.
Invitare l'altro ad aprirsi, ad abbassare le difese, a confidarsi; e poi respingerlo bruscamente, rifiutargli una spiegazione, negargli una parola buona o rifiutare una offerta di riconciliazione: ecco l'azione più vile, più abietta, più miserabile che si possa compiere.
Il fatto è che l'amicizia non è solo una relazione fra un io e un tu, ma richiama anche - come dicevamo - un terzo soggetto. Quest'ultimo può anche essere, semplicemente, la verità: la verità di quell'io, di quel tu e del loro sublime incontro; ma in ogni caso esiste, e ne è per così dire il suggello.
Tradire l'amicizia, significa tradire quel terzo che era presente, fin dall'inizio; vuol dire anche, di conseguenza, tradire la parte più vera di se stessi. Tradendo l'amico, si perde il proprio onore, la propria pace, la propria anima; significa venire condannati dal giudice più severo che esista: la propria coscienza. La quale può anche cercare d'ingannare se stessa, mettendo a tacere scrupoli e rimorsi. Niente da fare: la cattiva azione grida vendetta dal profondo dell'io, e niente e nessuno potranno mai sradicare quell'urlo di dolore.
Vi sono persone che vivono in uno stato di tranquilla disperazione, simulando una pace interiore che hanno perduta per sempre, ad esempio dopo aver tradito l'amico nel modo più egoistico e vergognoso. Hanno poi fatto del proprio meglio per rimuovere quella colpa, oppure hanno elaborato cento giustificazioni per autoassolversi; ma stanno barando con la propria coscienza, e lo sanno. Tradendo l'amicizia, hanno ucciso la parte migliore di se stesse: non osano perdonarsi né chiedere perdono, e si condannano da sé a una punizione che non ha fine e che non redime, perché non conduce all'espiazione.
Espiare, vuol dire riconoscere il male commesso e assumersene la responsabilità, lealmente e coraggiosamente. Ma il falso ego non accetta una tale soluzione; preferisce aggrapparsi a mille scuse, andare avanti facendo finta di niente. E si condanna, senza possibilità di remissione, all'inferno della cattiva coscienza.
Ve ne sono molte, di persone che vivono così. Ossessionate, possedute dalle furie infernali della propria cattiva coscienza.
Ma perché stupirsene? Nell'amicizia, ciascuno mette in gioco quanto di più prezioso possiede. La posta è alta. Chi tradisce l'amicizia, distruggere anche la stima di se stesso.
Ecco perché Nietzsche osserva che si può sempre perdonare il tradimento che l'amico ha fatto a nostro danno, ma è impossibile perdonargli il tradimento che ha fatto di se stesso.
Quello, aggiungiamo noi, potrebbe perdonarlo solo quel terzo di cui si è detto prima; a patto che vi sia un inizio, anche minimo, di pentimento.