Il vino proviene dalla fermentazione dello zucchero dell’uva, fermentazione attuata da microorganismi chiamati lieviti, esseri microscopici che lo scompongono trasformandolo in alcool. Questi lieviti si trovano ovunque in natura (fiori, foglie, corteccia degli alberi, terreno ecc.) e arrivano sugli acini dell’uva trasportati dagli insetti e dal vento. L’azione di questi microorganismi inizia quando, dopo la vendemmia, si procede ad ammostare l’uva, una delle fasi più importanti tra quelle che si succedono per la preparazione di una buona bottiglia di vino. Vediamole in ordine di successione.
Vendemmia o acquisto
Chi vuole fare l’esperienza di prepararsi un buon vino in casa deve ovviamente, in primo luogo, procurarsi l’uva. Se si dispone di un piccolo vigneto la raccolta del frutto va affrontata al momento giusto. L’uva, oltreché matura in maniera consona, non deve essere bagnata dalla pioggia o da un’eccessiva rugiada, perché ciò diluisce il mosto. Allo stesso tempo, però, essa non deve essere troppo calda perché nelle ceste può dare luogo a fermentazioni inopportune. È comunque un accorgimento importante da seguire quello di portare rapidamente l’uva alla pigiatura, perché così si possono evitare inacidimenti o altri inconvenienti che si possono verificare soprattutto se si usano ceste di plastica che non lasciano traspirare i grappoli ammucchiati. Questo accorgimento vale anche per chi l’uva la acquista. I tempi tra vendemmia e pigiatura è meglio che siano i più brevi possibili. A tal fine, l’acquirente dovrebbe sincerarsi che l’uva provenga da un luogo vicino, e che quindi ci siano maggiori possibilità che sia stata colta a tempo debito e non prima. È da evitare l’uva trasportata nei teli di plastica perché ciò dà origine, nel fondo del cassone, a un deterioramento del mosto che non è né salutare né gustoso. Se è possibile, bisognerebbe acquistare uva venduta in ceste di vimini o anche di plastica purché dotate di apposite finestrelle per l’aerazione. È sempre meglio controllare inoltre che i grappoli siano tutti sani e non solo quelli in evidenza che costituiscono lo strato superiore delle ceste. Una pratica sconsigliata è quella di lavare l’uva prima della pigiatura. Lavandola, infatti, si dilaverebbero proprio quei lieviti che sono i responsabili della fermentazione alcoolica, mentre gli antiparassitari non si eliminano di certo con un semplice lavaggio in acqua.
Pigiatura
La pigiatura è, in effetti, la prima vera e propria fase di trasformazione dell’uva in vino. Essa consiste nel comprimere i grappoli con una macchina (pigiatrice a rulli, pigiadiraspatrice, ecc.) al fine di far fuoriuscire il succo dagli acini Per un uso familiare, la pigiatura può essere realizzata con i piedi, così come avveniva un tempo in molte realtà contadine, dove si usavano a tal uopo casse di legno con falsi fondi bucherellati. Per piccole quantità si può anche semplicemente schiacciare l’uva con le mani dopo aver messo i grappoli in un recipiente capiente e adatto allo scopo. In verità, esistono in commercio anche pigiadiraspatrici centrifughe per uso hobbistico, ma di norma sono abbastanza inutili sia per le ridotte dimensioni che per il costo assai elevato. Alla pigiatura segue la diraspatura, ossia l’allontanamento dei raspi - l’ossatura del grappolo che tiene insieme gli acini - dalla polpa e dalle bucce. Essi vanno tolti per evitare un aumento dell’acidità del vino e la cessione ad esso di sostanze sgradevoli tra cui quelle tanniche che non sono propriamente salutari.
Fermentazione
A questo punto il mosto così ottenuto viene messo direttamente nel contenitore di fermentazione per la cosiddetta “macerazione”. La fermentazione alcoolica è il processo mediante il quale i lieviti, come si è detto, trasformano gli zuccheri del mosto in alcool. Il mosto inoltre può contenere le bucce oppure no (vedi paragrafo 3.4). In questa fase, ci sono alcune regole da rispettare per ottenere un buon risultato: a) non bisogna mai coprire il contenitore in cui avviene la fermentazione; b) tenere chiuse porte e finestre nel locale in cui è in atto l’operazione (o quanto meno consentire una razionale e non sproporzionata aerazione); c) mantenere una temperatura costante nel locale e comunque compresa idealmente tra i 21 e i 25 °C; d) controllare che la produzione di anidride carbonica non sia eccessiva (anche con il semplice accorgimento di una candela stearica: se si spegne entrando nel locale significa che l’ossigeno è scarso); e) controllare la massa fermentante e intervenire in caso di tendenza a straripamento (vedi oltre). Dato che si usa un contenitore scoperto (e si può anche lasciare fermentare addirittura nello stesso tino o recipiente in cui si è pigiato), al fine di impedire che il mosto, successivamente trasformato in vino, a fermentazione conclusa inacidisca, è meglio mettere un peso sulla massa mostosa in modo che questa venga pressata. I vinificatori mettono normalmente dei pali di legno tagliati di misura e incrociati sopra il mosto. La fermentazione inizia appena 4-5 ore dopo la pigiatura e la massa entra in ebollizione dopo 24 ore. La durata della fermentazione può essere varia a seconda delle esigenze del vinificatore. Se si desidera ottenere un vino corposo, amaro e colorito e con una elevata gradazione alcoolica si può lasciar fermentare per 18-22 giorni, ossia lasciando completare il ciclo effettivo della fermentazione. Se si vuole un vino poco alcoolico, di gusto amabile e non molto corposo è meglio interromperla dopo 4 o 5 giorni. Se, infine, si gradisce un vino rosato, vinificando con la vinaccia, è opportuno interrompere la fermentazione dopo 18 o 24 ore al massimo. È importante ricordarsi di non riempire mai oltre i 3/4 della cubatura del contenitore entro cui si è messo il mosto perché durante la fase “tumultuosa” di fermentazione esso aumenta di volume e se il contenitore è troppo pieno può straripare. Va aggiunto anche che se si opta per la fase di fermentazione completa (quella di 18-22 giorni) va effettuata la follatura, cioè il rimescolamento del mosto una volta almeno ogni 12 ore. Questa operazione è importante perché evita probabili fenomeni di acidità, inibisce il formarsi di una quantità esagerata di anidride carbonica e facilita la soluzione dei pigmenti coloranti. Bisogna in conclusione precisare che non sempre il mosto presenta zuccheri sufficienti per raggiungere il minimo di 11,5 o 12 gradi alcoolici che consentono un vino sano e conservabile. In presenza di questa eventualità (verificabile con un normale densimetro inserito in un recipiente cilindrico pieno di mosto) si può aggiungere saccarosio (che poi sciogliendosi ridà fruttosio e glucosio). L’aumento di un grado alcoolico si ottiene aggiungendo al mosto in fermentazione 1,7 Kg/q di saccarosio. I primi giorni di ammostamento bisogna controllare che la fermentazione parta bene. Se dopo qualche tempo essa non è ancora avvenuta può darsi che la temperatura del locale sia troppo bassa, per cui occorrerà riscaldare un pochino l’ambiente. Può però anche essere il caso che vi sia carenza di lieviti. Si tenterà allora di farli riprodurre aerando il mosto (cfr. follatura) o aggiungendo sostanze azotate come il fosfato di ammonio di cui essi si nutrono. Talvolta si può ricorrere all’acquisto di lieviti selezionati da aggiungere.
Svinatura, travaso, imbottigliamento
Quando la fermentazione è cessata, e all’assaggio si sente che tutto lo zucchero è stato trasformato, si può passare alla svinatura che è la separazione della vinaccia (l’insieme della parti ancora solide dell’uva) dal vino. Si può usare a tal fine anche un setaccio di vimini che tratterrà tutte le impurità e i vinaccioli. Il vino ottenuto va poi versato in un contenitore (un barilotto se si tratta di una piccola quantità) che andrà riempito completamente senza che restino residui d’aria. A questo punto si lascia ridiscendere la temperatura a quella ambiente (16 °C). Volendo, si può aggiungere anche il vino che esce dalla successiva prima torchiatura che possiamo fare alle vinacce rimaste nel contenitore di fermentazione (esistono in commercio anche piccoli torchi a motore elettrico). Dalla seconda torchiatura, invece, si potrà, dopo averlo messo anch’esso in botte, “tagliarlo”* intelligentemente per il consumo quotidiano. Il vino in botte (o altro recipiente in cui l’avrete sigillato) continuerà il suo lavorio rilasciando continuamente depositi sedimentosi. Sarà utile quindi effettuare dei travasi in altri recipienti. In linea di massima, se si vinifica canonicamente in autunno si potrà travasare una prima volta tra fine novembre e inizio dicembre, una seconda a gennaio e una terza a primavera inoltrata. È importante travasare in giornate serene e asciutte cioè con una pressione atmosferica alta che limiti i movimenti naturali del sedimento. Ora non resterà che aspettare il momento buono per imbottigliare. Per il vino al suo primo anno di vita il periodo migliore per l’imbottigliamento è quello che va da giugno ad agosto. Ancora qualche mese di pazienza (almeno sei) e il vino in bottiglia è pronto per essere gustato.
* Il “taglio” è l’operazione con la quale si miscelano due o più qualità di vino per ottenerne uno con determinati requisiti di colore, grado alcoolico e gusto.
Vino bianco
Se si vuole il vino bianco, quando si è pigiato e diraspato, e prima della fermentazione, si proceda a togliere le bucce mediante l’uso di sgrondatrici o di torchi. Per una piccola produzione casalinga si possono avvolgere i grappoli pigiati in una pezza di tela per poi spremerli in una pressa rudimentale (va bene anche un bidone di metallo ed un pistone di legno appositamente modellato che si premerà da sopra) o mediante l’uso di un cric per auto.
Succo d’uva
Con l’uva si può anche ottenere un buon succo analcolico che possono bere anche i bambini. Prendere dei grappoli d’uva nera matura, dirasparli, e mettere gli acini in un colino dove vanno lavati bene sotto acqua corrente. In una pentola, possibilmente di acciaio, si versano poi tre dita d’acqua e si aggiungono tutti gli acini lavati e scolati. Quindi si mette il tutto a cucinare a fuoco moderato. Per i primi quindici minuti bisogna rimestare frequentemente con un cucchiaio di legno, perché gli acini che devono aprirsi lasciando uscire il succo, possono attaccarsi al fondo della pentola. Se ciò si verificasse basta aggiungere ancora un po’ di acqua tiepida. Dopo circa mezz’ora, quando l’acino è completamente disfatto e la pentola si è riempita di succo, spegnere e vuotare il tutto in un colino, sotto il quale avrete riposto un’ampia terrina. Aiutandosi con un cucchiaio di legno mescolare quindi le bucce e i vinaccioli rimasti nel colino e fare gocciolare il succo che ancora ne esce nella terrina sottostante. Nel frattempo, avrete preparato, pulite ed asciutte, delle bottigliette, possibilmente da 125 ml. Infatti, dato che il succo non contiene conservanti, una volta aperto deve essere consumato in giornata, per cui bottiglie di piccola taglia meglio si prestano a tale scopo. Le bottigliette vanno riposte nel forno freddo e questo va poi acceso e portato alla temperatura di 100-125 °C. Quando il forno ha raggiunto la temperatura indicata, si lasciano sterilizzare le bottigliette per 5 minuti e poi si spegne. A questo punto, con un guanto da cucina si prendono le bottigliette e tramite un imbuto vi si versa il succo d’uva altrettanto caldo. Infine, si posizionano le bottigliette nella tappatrice a pressione e si tappano. Si ripongono allora le bottigliette coricate una di fianco all’altra su di una tovaglia ripiegata, e si coprono con un lembo della tovaglia stessa affinché si raffreddino lentamente. Il giorno dopo, a raffreddamento ultimato, si possono etichettare e poi riporre in un luogo fresco e buio. La durata di questi succhi casalinghi è di almeno un anno. La consumazione può invece avvenire immediatamente.
I “siguli“ (o “sugoli”)
È una ricetta della tradizione contadina veneta a base di mosto. Va usato mosto fresco appena fatto, quando è ancora dolce e frizzante. Meglio se d’uva fragola. In una pentola di acciaio preparare la quantità di farina che serve a seconda della dose che si vuole preparare. Indicativamente, ci va un cucchiaio di farina bianca per ogni bicchiere di mosto (dose minima per una persona). Dopo aver intiepidito a parte il mosto, aggiungerlo poco alla volta alla farina, mescolando continuamente con un cucchiaio di legno per evitare la formazione di grumi (come si fa per preparare un budino). Mettere quindi sul fuoco (lento) continuando ancora a mescolare per almeno mezz’ora in modo che non attacchi sul fondo. Poi spegnere e mettere i “siguli” caldi così ottenuti in vasetti di vetro (puliti e asciutti) a chiusura ermetica. Capovolgere i vasetti su di una tovaglia, coprirli con un panno e lasciar raffreddare lentamente. Il giorno dopo riporre in frigorifero e consumare entro sette o otto giorni al massimo. La formazione di una leggera muffa sopra il “budino” di mosto che potrebbe uscire nei giorni seguenti non ha particolari controindicazioni. Una volta che la si è tolta, di norma i siguli sono ancora più buoni. |