Carl Gustav Jung profeta ariano?
di Paolo Vicentini - 01/08/2008
E' buona norma, prima di pronunziarsi criticamente sul pensiero di un autore, per quanto apparentemente assai distante dalle nostre idee, ascoltarlo o leggerlo e cercare di comprenderlo il più approfonditamente possibile. Una critica basata su puri pregiudizi, su travisamenti o sul tentativo di dimostrare tesi precostituite sarebbe assai poco efficace e facilmente smascherabile.
Qualche anno fa è uscita la traduzione italiana di un libro che purtroppo corrisponde perfettamente a quest'ultimo genere di critica. Si tratta del testo di Richard Noll, Jung, il profeta ariano, Mondadori, Milano 1999, che inspiegabilmente ha avuto un largo successo di vendite negli Stati Uniti ed è addirittura (lo si riferisce nel risvolto di copertina) stato insignito di un Best Book in Psychology Award nel 1994. L'autore, definito psicologo (sempre nel risvolto di copertina), insegna Storia della scienza all'Università di Harvard. Tengo a precisare che non sono affatto uno "junghiano" né ho alcuna particolare propensione per lo studio di questo autore.
Noll evidentemente ha un odio incoercibile per Jung e la psicologia analitica junghiana, che emerge quasi da ogni pagina a volte manifestandosi in veri e propri e gratuiti insulti. Tutto ciò è tollerabile, anche se di cattivo gusto per una persona che pretende di scrivere un saggio obiettivo e scientifico. Tuttavia il suo credo meccanicista e il suo scientismo (nel senso univoco di scienza a cui lui si riferisce) lo portano: 1) a fraintendere completamente i concetti fondamentali del pensiero junghiano (funzione trascendente, archetipi, inconscio sovrapersonale o collettivo, individuazione ecc.) con cui cerca di confrontarsi, alcune volte in maniera così marchiana da risultare involontariamente assai comica; 2) a porre in luce solo gli aspetti della biografia intellettuale di Jung e della cultura tedesca ed europea dell'epoca che più sono consoni a sostenere le sue tesi, che perciò rendono un'immagine parziale e deformata della realtà. Oltre tutto stravolgendo o forzando spesso tali aspetti nella misura in cui potrebbero fornire un qualsiasi e anche modesto appiglio alle sue interpretazioni. 3) Non contento di ciò, a manipolare o mutare completamente il senso delle citazioni di passi di Jung togliendoli dal contesto e evitando accuratamente di riportare frasi dello stesso contesto che smentirebbero completamente l'interpretazione da lui proposta.
Riporterò qualche esempio per ciascuno dei punti. Prima però vorrei ricordare quelle che sono le tesi fondamentali del libro e che costituiscono la sua ragion d'essere:
a) dimostrare che Jung e la psicologia analitica in genere non è scientifica, ma che si tratta di (le due cose sembrano però da Noll messe sullo stesso piano) al meglio di Naturphilosophie romantica e al peggio di roba occultistica da medium e sedute spiritiche;
b) dimostrare che Jung ha fondato consapevolmente un culto religioso fondato sulla venerazione della sua persona e su idee pagane riferentesi principalmente ai misteri mitraici con lo scopo di combattere ed eliminare il cristianesimo e qualsiasi religione semita all'interno del popolo ario-germanico e susseguentemente di redimere l'intero mondo (ma la psicologia analitica non era rivolta esclusivamente al popolo germanico o comunque a persone di stirpe indoeuropea per Noll? Es. pp. 239, 242. Noll non spiega questa apparente contraddizione del suo ragionamento);
c) dimostrare che Jung era razzista e antisemita;
d) dimostrare che le sue idee sono tratte dall'ideologia nazionalista etnocentrica e irrazionalistica voelkisch (in specie razzista) che furoreggiava ai quei tempi fra i tedeschi e dai cui attinse la sua dottrina anche il nazismo.
2. Jung anticristiano?
Ma veniamo agli esempi. Jung è anticristiano? Uno strano anticristiano visto che per tutta la vita si considerò appartenente alla Chiesa protestante luterana, religione che mai abbandonò e praticava anzi con un certo fervore. Da questo punto di vista, ben più equilibrato nell'esporre i dati biografici e intellettuali di Jung ed il contesto culturale da cui è emersa la psicologia analitica è l'opera di Henri Frédéric Ellenberger, La scoperta dell'inconscio. Storia della psichiatria dinamica, Boringhieri, Torino 1976, 2 voll., pp. 1077. Si noti che Noll rimanda alle opere di Ellenberger come a saggi magistrali ancorché brevi! (Noll, p. 27) e sostiene che offrono le informazioni più esaurienti sulla biografia di Jung (Noll, p. 18) nonostante l'esposizione di Ellenberger contraddica punto per punto le tesi fondamentali del libro di Noll.
Benché Jung non abbia mai abbandonato il protestantesimo, la sua visione del cristianesimo si richiamava a forme della gnosi cristiana dei primi secoli. Tutt'al più si può imputare dunque a Jung di essere teoricamente un cristiano gnostico anche se praticamente ha sempre cercato di svolgere la sua critica al cristianesimo protestante dal suo interno, ossia rimanendovi ben ancorato. In particolare Jung imputava al cristianesimo protestante di aver posto in ombra e dimenticato tre aspetti presenti nel cristianesimo delle origini: la complessa varietà di simboli e dogmi, il culto mariano, ossia l'attenzione all'aspetto materico e femmineo (di prakrti diremmo, usando una terminologia hindu) della realtà, e l'abolizione dei sacramenti, in particolare il sacramento della confessione, che rappresentava per lui un fondamentale impoverimento dell'aspetto di cura animae che dovrebbe avere una tradizione spirituale. Tali aspetti egli vedeva meglio presenti nel cattolicesimo, verso cui ebbe espressioni di apprezzamento, sebbene mai abbandonò il protestantesimo per le ragioni addotte nel suo breve saggio Perché non seguo la verità cattolica? (in Opere. Vol. 18: La vita simbolica. Scritti miscellanei, Boringhieri, Torino 1993, pp. 340-342). Ben strano tutto ciò per un uomo che, come dice Noll, ripudiava "in maniera assoluta il Dio cristiano" e si impegnava "in una sorta di guerriglia contro le religioni giudaico-cristiane organizzate del suo tempo" (Noll, p. 251).
Ma vediamo una delle citazioni con cui Noll prova l'anticristianesimo assoluto di Jung. Una molto bella è a p. 177, presa da una lettera di Jung a Freud, in cui fra le altre cose Jung dice: "Una pura e autentica evoluzione etica non può abbandonare il cristianesimo, ma deve crescere nel suo grembo, deve condurre a purezza il suo inno d'amore". Molto anticristiano, direi. Evidentemente Noll non ha molta stima dell'intelletto del lettore, visto poi che quando deve riferire gli aspetti della religione personale junghiana e della sua divinizzazione è tutto un fiorire e un richiamarsi, oltre che a simbolismi tratti dai misteri greci, proprio a simbolismi cristiani e la voce che indica a Jung l'avvenuta realizzazione del Sé annuncia: "Tu sei Cristo", non "Tu sei Mitra"! (Noll, p. 199). Passiamo ad un'altra citazione anticristiana di Jung, secondo Noll. Si trova alle pp. 222-223 e recita: "Questi moderni sistemi gnostici (i.e. teosofia e antroposofia) rispondono al bisogno di espressione e di formulazione degli eventi interiori inesprimibili [...] meglio delle varie forme di religione cristiana oggi esistenti". Fin qui la citazione parrebbe dar ragione a Noll, anche se Jung non sta criticando in blocco il cristianesimo ma solo alcuni suoi aspetti; purtroppo però il brano continua (cosa che Noll si guarda bene dal riferire) e in maniera inaspettata vi troviamo scritto "...a eccezione, ma è una eccezione parziale, del cattolicesimo. Attraverso il suo simbolismo dogmatico e liturgico, la religione cattolica è in grado di esprimere in maniera incomparabilmente più ampia del protestantesimo gli elementi in questione" (in Opere. Vol. 7: Due testi di psicologia analitica, Boringhieri, Torino 1983, p. 79).
Jung, è vero, ha sempre avuto una visione piuttosto idealizzata delle antiche religioni e spiritualità cosiddette "pagane", che considerava per certi aspetti superiori alle forme attuali del cristianesimo cattolico e protestante, ma non si è mai definito pagano né ha mai condannato in blocco il cristianesimo o desiderato la sua distruzione. Egli era piuttosto, teoricamente, un cristiano gnostico, aperto alla comprensione di tutti i simbolismi spirituali grazie alla sua particolare forma di philosophia perennis. Ciò di cui desiderava la rivitalizzazione era semmai proprio il cristianesimo, ma più in generale della visione simbolica (ossia non-dualistica) della realtà. Nella sua azione Jung e la psicologia del profondo non si contrapponevano affatto al cristianesimo. Più volte nei suoi scritti Jung ha ripetuto che bisognava rispettare la specificità dei percorsi individuali e delle tradizioni spirituali in cui ci si era formati. Più volte ha esortato pazienti che provenivano dal cristianesimo o da qualche altra tradizione religiosa a far riferimento ai propri direttori spirituali, fossero stati preti, bonzi o rabbini, perché il percorso di realizzazione del Sé era indicato in ogni via spirituale e perché pensava (secondo me sbagliando) che le tradizione spirituali in cui si era nati fossero le migliori per noi (anche questo spiega il suo non venir meno al cristianesimo, come spiega il suo non considerare vie come lo yoga o altre forme spirituali orientali, pur indoeuropee, adatte all'uomo europeo). In questo senso va letto il passo, citato da Noll come attribuito a Jung (Noll, p. 236),[1] in cui lo psichiatra svizzero evidenzia che solo coloro che sono stati condotti dal loro specifico percorso spirituale, dalle "loro individuali leggi" a "percorrere le loro proprie strade, e sono entrati per questo in conflitto con le tradizioni prevalenti" si avvicinano all'analisi. Tali individui, essendo impossibilitati per il loro specifico modo d'essere a compiere il cammino di realizzazione del Sé all'interno della tradizione spirituale di appartenenza possono essere aiutati in esso dalla psicologia analitica, piuttosto che essere abbandonati a se stessi e al loro dolore (si suppone infatti che chi si avvicina ad un analista abbia un qualche disagio psichico o esistenziale da risolvere).
Jung in nessuna delle sue opere, nemmeno in quelle immediatamente successive al suo distacco da Freud, ancora germinali, nemmeno in quella farraginosa opera che fu La libido. Simboli e trasformazioni (nelle sue due versioni), privilegiò mai nell'esposizione i simbolismi di una tradizione religiosa oppure del mondo indoeuropeo, come sostiene Noll. Nel riportare il contenuto di questo saggio, Noll riferisce solo i simbolismi riferentesi a tradizioni indoeuropee e non ad esempio quelli provenienti dalla religione egiziana o giudeo-cristiana. Questo la dice lunga sulla sua limpidezza scientifica. Inoltre, il suo cercare in ogni dove una predilezione di Jung per i simbolismi solari (tipici secondo lui dell'ideologia voelkisch) anche solo in una prima fase del suo pensiero è addirittura ridicola (e il tentativo di far derivare l'origine del mandala da una primitiva rappresentazione del sole, p. 226, è del tutto infondato), visto che il simbolismo solare o stellare era solo uno dei modi che nelle varie tradizioni, anche indoeuropee, erano utilizzati per esprimere la realizzazione del Sé, secondo Jung. E' ben noto poi che per esprimere la realizzazione del Sé Jung parla più spesso dell'integrazione dei due aspetti solare e lunare, ossia celeste e terrestre, della personalità nella coincidentia oppositorum (ancora una volta visione non-duale, dunque). Altro che culto solare!
Non procedo, per esigenze di brevità, con l'esame analitico delle incomprensioni madornali in cui Noll cade cercando di esporre i concetti fondamentali del pensiero di Jung, come quando definisce gli archetipi junghiani "complessi personali basati su personali ricordi" (Noll, p. 253). Ma come si può arrivare ad un tale fraintendimento? Basterebbe solo leggere non dico le opere di Jung ma anche solo un buon dizionario di psicologia (ad esempio quello ottimo di Umberto Galimberti delle Garzatine,[2] voce "archetipo", pp. 96-98) per avere un'idea meno beota di Jung. L'apoteosi dell'incomprensione, e anche della presunzione di Noll, giunge però quando per la prima volta il professore di Harvard riporta un lungo brano di 4 pagine (Noll, 234-237)[3] attribuito a Jung e si cimenta nella sua esegesi, stravolgendolo. Addirittura, nell'interpretazione di Noll, il processo di discesa agli inferi avverrebbe "dopo l'iniziale esperienza della deificazione" (Noll, p. 238). Cosicché prima si diverrebbe Dio e solo dopo si discenderebbe agli inferi: strano processo di morte iniziatica all'inverso! Ma c'è di peggio: i morti non sarebbero, come è evidente nel discorso attribuito a Jung (in cui fra l'altro sono indicati con la emme maiuscola per evidenziarne il simbolismo), gli scheletri nell'armadio della nostra psiche (rimozioni, repressioni, sensi di colpa, traumi, personali o collettivi), che bisogna affrontare e risolvere se si vuole riemergere ad una maggiore consapevolezza e realizzazione della personalità, ma sarebbero - udite udite - gli spiriti dei trapassati! Cosicché ne conseguirebbe che chi si sottopone all'analisi "deve divenire anche un medium spirituale in grado di ricevere, a beneficio dell'umanità messaggi dai defunti" (Noll, p. 239). Da non credere.
Ovviamente tutto ciò è volto a dimostrare l'utilizzo da parte dell'occultista Jung di "tecniche medianiche dello spiritismo" (ibid.), come ad esempio le tecniche dissociative della coscienza (termine mai utilizzato da Jung) che Noll descrive a p. 214, fraintendendo ancora una volta i termini della questione. Innanzi tutto questo esercizio non serve, come scrive Noll, a far emergere le fantasie latenti ma semmai solo ad esserne consapevoli qualora sorgano. Jung infatti scrive che "l'allenamento consiste anzitutto in un addestramento sistematico a escludere l’attenzione critica, producendo così un vuoto della coscienza". Noll ci dice che queste tecniche "promuovono attivamente la dissociazione della coscienza e sconvolgono quindi il senso cosiddetto normale di continuità del sé, identità, volizione e i processi della memoria" (ibid.). Ancora una volta Noll è incredibile. Jung sta in realtà parlando dell'esercizio del fermarsi ad osservare le fantasie che emergono senza frapporsi con un'attività giudicante (l'attenzione critica). Si tratta di lasciar essere e osservare i pensieri nel loro sorgere e svanire senza giudicarli e senza cercare di bloccarli o di attaccarcisi. Insomma, è quello che ad esempio si svolge nella pratica buddhista della "presenza mentale" (satipatthana) o dello zazen (la meditazione seduta tipica dello Zen), e che già Freud definiva "attenzione uniformemente fluttuante".[4] Ma ovviamente per Noll "in nessun testo la psicologia junghiana appare così medianica" (Noll, p. 215).
3. Jung razzista e antisemita?
Quanto alle accuse di razzismo e antisemitismo rivolte a Jung, la questione è stata ampiamente documentata e sviscerata dagli stessi junghiani in ogni suo aspetto ben prima che Noll vi ponesse mano.[5] Jung ha sempre creduto ad una diversità delle razze e della psicologia delle varie razze, ma mai questo ha assunto connotati razzistici, mai cioé ha considerato una razza superiore o inferiore alle altre come sostiene Noll, non riuscendo per altro a portare a suo sostegno un solo passo (dicasi uno) di Jung. Noll inoltre stranamente dimentica che tra i più stretti discepoli che hanno partecipato, secondo lui, all'istituzione del culto antisemita junghiano c'erano parecchi ebrei: Adler, Engels, Kirsch, Neumann... Basterebbe solo questo per far crollare tutta la fragile impalcatura di Noll costruita sul nulla e secondo cui addirittura, per Jung, "i semiti [...] erano esclusi dalla redenzione" (junghiana, ovviamente) (Noll, p. 242). Una ricostruzione obiettiva e realmente critica di tali questioni si potrà trovare, oltre che in Ellenberger (in cui fra l'altro si menziona come Jung fornì aiuto ai rifugiati ebrei in Svizzera), nel testo di AA.VV. Jung e l'ebraismo (Giuntina, Firenze 2001), in particolare nel saggio di Giuseppe Maffei Jung e il nazismo, pp. 41-71, che fa il punto sulla questione con una bibliografia aggiornata. Nel saggio di Maffei si ricorda anche - particolare curioso - che "Allen Dulles, capo del servizio segreto americano durante la seconda guerra, consultava regolarmente Jung in merito alla psicologia nazista e di Hitler." (Maffei, p. 52). In ogni caso è vero, secondo la mia opinione, ed emerge dai documenti, che Jung era piuttosto inviperito contro gli psicoanalisti freudiani tedeschi (quasi tutti ebrei) per come era stato insultato, maltrattato, isolato e ostacolato in ogni modo dopo il suo distacco da Freud, e aveva maldestramente sperato con l'avvento del regime nazista (che pure detestava) di poter rendere pan per focaccia e trarre nonostante tutto qualcosa di positivo per il suo nascente movimento di psicologia analitica. Questo fu il suo grande abbaglio ("Ebbene, ho preso un abbaglio" disse al suo amico e famoso rabbino di Berlino Leo Baeck alla fine della guerra) (Maffei, p. 55).
4. Un culto junghiano?
Per quanto riguarda la questione del culto o della setta, è ovvio che la scuola junghiana può essere paragonata ad una scuola filosofica nel senso antico del termine, e quindi in un certo senso anche ad una scuola religiosa o spirituale anche se non rigidamente e gerarchicamente organizzata, così come del resto ogni religione può essere considerata, per certi aspetti, una forma di psicoterapia. Ma una setta o un culto, come lo intende Noll, basato sulla venerazione della persona di Jung e sull'adesione incondizionata alle sue idee, è un potente strumento di condizionamento mentale e di subordinazione degli io alla volontà del capo. Al contrario la psicologia analitica ha sempre avuto come fine quello di decondizionare, ossia di liberare, la persona. In questo senso non può essere definita un culto o una setta, pena il rendere questi termini talmente vacui da poter significare qualsiasi cosa. Un caso analogo è accaduto con il termine gnosi, ma Ioan Petru Couliano (ne I miti dei dualismi occidentali, Jaca Book, Milano 1989) ci ha mostrato come non abbia senso applicarlo indiscriminatamente a ogni genere di fenomeno moderno (marxismo compreso) pena il renderlo completamente inservibile e assurdo.
Jung ha sempre profondamente rispettato l'individualità dei percorsi spirituali e la piena legittimità delle varie tradizioni religiose, invitando i propri allievi a fare altrettanto e manifestando estremo pluralismo. Poiché Jung ripete questo principio molte volte, Noll non ha potuto fare a meno di citare dei passi in cui lo psichiatra svizzero si esprime in questo senso, ad esempio a p. 236 ("rispetto per l'individuo e il suo specifico percorso")[6] e a p. 338, nota 5 (la facoltà dell'imitazione è "dannosissima per l'individuazione"). Ovviamente Noll stravolge o considera false queste affermazioni, non riportando però alcuna prova in suo favore. Contrariamente a quanto sostiene Noll, la diversità di pensiero all'interno della scuola di psicologia analitica ha sempre prosperato e ha dato vita a numerose correnti analitiche che hanno tralasciato alcuni aspetti del pensiero di Jung e riformulato altri (p. es. quelle di Neumann, di Hillman, di Trevi, per citare solo alcune tra le più famose). Se vi sono state persone che hanno idolatrato Jung all'interno del movimento, ciò è del tutto fisiologico considerato il carisma ed il ruolo avuto dal fondatore della psicologia analitica.
Infine, che i paesi di area tedesca all'epoca pullulassero di movimenti più o meno spiritualisti o riferentesi alla Naturphilosophie romantica, non necessariamente voelkisch, è cosa risaputa e bastava leggere anche solo il testo di Nicholas Goodrick-Clarke (Le radici occulte del nazismo, Sugarco, Milano 1992), abbondantemente utilizzato da Noll, per averne una panoramica. Che Jung sia stato influenzato prevalentemente da essi, o da Nietzsche e Schopenhauer, come sostiene Noll è contestabilissimo e le prove che adduce sono risibili. Noll osserva che Jung possedeva nella sua biblioteca le opere della Blavatsky? Anche io le possiedo ma non sono affatto teosofo né sono mai stato influenzato dalla teosofia. Jung aveva quasi tutte le opere di George Robert Stow Mead (e colloquiato con lui occasionalmente), esperto di gnosi e pure teosofo? Anch'io ne ho parecchie. All'epoca (primi decenni del '900) Mead era uno dei massimi esperti di gnosi e ancora adesso alcuni suoi lavori di traduzione sono citati come dei classici in importanti bibliografie. La ben nota opera di Hans Jonas Lo gnosticismo, SEI, Torino 1973, considerata una pietra miliare sull'argomento, cita in bibliografia a p. 362 il libro di Mead The Gnostic John the Baptizer, London 1924. Anche Jonas è un po' voelkisch? Per fortuna che a Noll è sfuggito che Walter Yeeling Evans-Wentz, il primo curatore in lingua europea del Libro tibetano dei morti[7] e del Libro tibetano della grande liberazione,[8] testi buddhisti per i quali Jung redasse celebri commenti, era anch'egli un teosofo, altrimenti l'avrebbe addotta subito come ulteriore prova.
5. L’interdisciplinarità e l’interculturalità di Jung
La simpatia nutrita da Jung verso la Naturphilosophie romatica, soprattutto di matrice goethiana (da ragazzo diceva ai compagni di classe di essere la reincarnazione di Goethe!), e l'influsso ricevuto dalla lettura di persone di tutto rispetto come Creuzer o Bachofen o Rudolf Otto, erano e sono ben noti. Non serviva certo che un Noll venisse a propinarcele come novità sensazionali sottaciute dai fanatici biografi junghiani. E a questo proposito: come conciliare, secondo Noll, la simpatia junghiana per Bachofen con la presunta assoluta prevalenza nel suo pensiero di metafore prettamente celesti e "maschili", (quelle "olimpiche" che piacevano tanto al virile Evola), come il sole o la stella?
Jung fu influenzato anche da celebri psichiatri e da idee scientifiche e filosofiche del suo tempo, non necessariamente voelkisch, ed Ellenberger, il quale non ha tesi precostituite da difendere, è molto più obiettivo al riguardo, citando gli uni e gli altri (in particolare Ellenberger, pp. 843-849). Vi è chi ha visto in Jung la presenza ineludibile di Schelling e di Fiche, invisi a Nietzsche e Schopenhauer, e sicuramente Jung fu influenzato da filosofi come Troxler, da etnologi come Bastin e Frobenius, da romanzieri come Daudet. Anche illustri psichiatri come il francese Pierre Janet, ad esempio, non si possono dimenticare se si analizzano le fonti del pensiero di Jung (Ellenberger, pp. 387-481). Del resto qui sta una delle maggiori contraddizioni e difficoltà del suo pensiero, quello di essere insieme e volutamente dottrina spirituale (diciamo pure religiosa, ma nel senso sopra indicato) e dottrina scientifica. Jung si ritenne sempre un "empirista", come amava spesso ripetere, e cercò per tutta la vita (con scarsi risultati) di rendere la sua pratica terapeutica e le sue idee accettabili a livello scientifico, spesso utilizzando un tipo di terminologia e dei modi di espressione che infastidiscono tanto gli scienziati (che lo hanno accusato di misticismo) quanto gli studiosi di religione (che lo hanno accusato di razionalismo e psicologismo). Per questo è stato esecrato sia dagli uni che dagli altri.
Nonostante questo Jung, grazie alle sue opere, ai suoi tanto odiati (da Noll) discepoli e alle conferenze di Eranos, è riuscito a dialogare con personalità di tutto rilievo della cultura mondiale, in ambito sia scientifico che filosofico e religioso. Se ne può avere un'idea leggendo la rapida sintesi di Aldo Carotenuto, Jung e la cultura del XX secolo, Bompiani, Milano 1995. Solo per fare un esempio, Mircea Eliade fu profondamente influenzato da Jung, tanto che in una intervista ebbe a dire: "Non so esattamente qual è il mio debito nei confronti di Jung. Ho letto buona parte dei suoi libri, in particolare 'Psicologia del transfert'; ho avuto dei lunghi colloqui con lui, a 'Eranos'. Lui credeva in una sorta di fondamentale unità dell'inconscio collettivo e anche io ritengo che ci sia un'unità fondamentale delle esperienze religiose" (La prova del labirinto, Jaca Book, Milano 1980, p. 148).
[1] Vedi, più avanti, la nota 6.
[2] U. Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano 1999.
[3] Vedi, più avanti, la nota 6.
[4] I rapporti fra il pensiero di Jung e quello orientale sono stati più volte e approfonditamente indagati, ad es. in Luigi Aurigemma, Jung e l’Oriente, in Prospettive junghiane, Boringhieri, Torino 1989; John J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ecig, Genova 1996; Harold Coward, Jung e il pensiero orientale, Vivarium, Milano 2005; Augusto Romano (a cura di), Jung e l’Oriente, Moretti e Vitali, Bergamo 2005; Nicoletta Antonello, Mandala, oracoli e piccoli santi. L’Oriente di Carl Gustav Jung, in "Atrium", IX, 3, pp. 7-64. L'accostamento fra la freudiana "attenzione uniformemente fluttuante" e la pratica buddhista è stato fatto da Mark Epstein in Pensieri senza un pensatore. La psicoterapia e la meditazione buddhista, Ubaldini, Roma 1996. I risultati dell'utilizzo della pratica della satipatthana in un contesto psicoterapeutico sono stati descritti da Gary Deatherage, L’uso clinico delle tecniche meditative di ‘presenza mentale’ nella psicoterapia breve, in J. Welwood (a cura di), L’incontro delle vie. Un’esplorazione della psicologia orientale/occidentale, Ubaldini, Roma 1991, pp. 219-226; V. Segal Zindel – Williams J. Mark – John D. Teasdale, Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso i pensiero, Boringhieri, Torino 2006; Antonello Montano, Mindfulness. Guida alla meditazione di consapevolezza, Ecomind, Salerno 2007.
[5] Cfr. ad es. Aryeh Maidenbaun – Stephen A. Martin (a cura di), Wotan e Mosè. Jung, Freud e l’antisemitismo, Vivarium, Milano 1997.
[6] In realtà questo passo è riportato in un documento (pp. 234-237) che Noll attribuisce a Jung, ritenendolo essere una trascrizione sintetica e finora inedita del discorso inaugurale tenuto dallo psichiatra svizzero nel 1916 in occasione della fondazione del Club Psicologico di Zurigo. Lo storico della psicologia Sonu Shamdasani, in Fatti e artefatti. Su C. G. Jung, sul Club Psicologico e su un culto che non è mai esistito, Magi, Roma 2004, ha però recentemente dimostrato l'inconsistenza di questa attribuzione.
[7] Il Bardo Thodol o Il libro dei morti tibetano, secondo la versione inglese del lama Kazi Dawa Samdup preceduta da uno studio introduttivo di W. Y. Evans-Wentz, Giovene, Milano 1946. Da questa traduzione italiana è stato espunto il commento di Jung, reperibile comunque in Opere. Vol. 11: Psicologia e religione, Boringhieri, Torino 1979, pp. 524-538.
[8] Il libro tibetano della Grande Liberazione, il metodo per realizzare il Nirvana attraverso la conoscenza della Mente, a cura di W. Y. Evans-Wentz, con un commento psicologico di C. G. Jung, Newton Compton, Roma 1975 (il commento di Jung è alle pp. 9-40).