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Dietro la satira antifemminista di Giovenale l'amarezza sconsolata di un cuore ferito

di Francesco Lamendola - 04/10/2008

 

 

La satira antifemminista è un vero e proprio genere letterario che ha,  nel poeta latino Decimo Giunio Giovenale - che scrisse cinque raccolte di versi in età avanzata, al tempo di Traiano e di Adriano (inizi del II sec. d. C.) - uno degli esempi più illustri e, per certi aspetti, un modello tuttora  insuperato.

Nella satira VI, così ampia da occupare, essa sola, il secondo libro (ben seicentossantuno versi, più altri trentasei del frammento pubblicato da Wundstedt nel 1899), la cui composizione dovrebbe collocarsi fra il 105 e il 110, egli prende a bersaglio le donne: nobili e plebee (ma soprattutto le prime), dotte e incolte (come sopra), giovani e meno giovani; con una virulenza e una vena di sottile sadismo che ne ha fatto un unicum nel suo genere, e un vero e proprio topos in cui si concentrano tutti gli umori antifemministi possibili e immaginabili.

Certo, la sua indignazione era destata (ma anche segretamente attratta, crediamo; ché, altrimenti, non sarebbe stato un poeta satirico, ma un moralista) dalla estrema rilassatezza dei costumi provocata dall'aumento del benessere e dall'arrivo, in Roma, insieme alle spoglie di tanti nemici vinti, di usanze, costumi, religioni e pratiche sociali, che avevano travolto l'antica sobrietà e sanità dei Quiriti, annegandola in un mare di lussi e di sprechi quasi inverosimili.

E, in un simile contesto «tradizionalista», la polemica di Giovenale si appunta con particolare accanimento, indugiandovi con tratti di autentica ferocia, sul malcostume delle donne, forse con una intensità proporzionata alla idealizzazione che della casta matrona aveva fatto la prima età repubblicana, dipingendola come un autentico angelo del focolare.

Ecco perché, tra i comportamenti delle donne - specialmente nobili - che particolarmente lo irritano e lo spingono a incrudelire, vi sono quelli di recente importazione esotica, particolarmente orientale (sia essa greca, egiziana, siriaca  o dell'Asia Minore), come il gusto delle attività sportive «virili» o come la partecipazione, ostentata e volgare, ai banchetti serali, dall'alto del triclinio, introducendosi in ambienti e situazioni che erano state di esclusiva pertinenza maschile.

Non c'è espediente letterario, non pretesto fornito dalla cronaca che oggi definiremmo gossip, di cui Giovenale non si avvalga per intingere nel veleno i suoi perfidi strali e per disegnare il ritratto più ripugnante possibile della donna del suo tempo; ma senza scordare il modello delle Satire di Orazio, spesso in bilico fra denuncia e sghignazzata, ma più vicino alla seconda che alla prima: come nella figura della vecchia di ottantasei anni che ancora freme di lascivia, e sussurra all'amante dolci parolette in greco, per mostrarsi erudita (altro dettaglio che esaspera il poeta, supremo odiatore della donna pseudo intellettuale), che ricorda non poco la Canidia oraziana.

Un altro tratto che Giovenale rimprovera alle donne, oltre a una sfrenata lussuria, è la superbia, se non addirittura la crudeltà: come quando ordinano di mettere in croce uno schiavo per qualche mancanza da nulla, o di far battere con le verghe i vicini, perché hanno osato fare un po' troppo rumore, disturbando il suo sacro riposo.

Si dirà che l'ideale femminile di Giovenale è un ideale regressivo, per non dire reazionario; che egli  vorrebbe vedere la donna chiusa nella domus, a filare la lana e ad occuparsi della prima educazione dei bambini. Non crediamo, però, vi sia soltanto questo; ma anche una segreta ferita mai cicatrizzata, una ammirazione delusa (e, forse, derisa) all'origine dei suoi versi più taglienti, come questi (VI, 300-334):

 

   … Quid enim venus ebria curat?

Inguinis et capitis quae sint  discrimina, nescit

grandia quae mediis iam noctibus ostrea mordet,

cum perfusa mero spumant unguenta Falerno,

cum bibitur concha, cum iam vertigine tectum

ambulat et geminis exsurgit mensa lucernis.

I nunc et dubita, qua sorbeat aera sanna

Tullia, quid dicat notae collactea Maurae

Maura, Pudictiae veterem cum praeterit aram.

Noctibus hic ponunt lecticas, micturiunt hic

Effigiemquedeae longis siphonibus implent

Inque vices equitant ac Luna teste moventur;

inde domos abeunt: tu calcas luce reversa

coniugius urinam magnos visurus amicos.

      Nota bonae secreta deae, cum tibia lumbos

incitat et cornu pariter vinoque feruntur

attonitae crinemque rotant ululantque Priapi

maenades. O quantus tunc illis mentibus ardor

concubitus, quae vox saltante libidine, quantus

ille meri veteris per crura madentia torrens.

Lenonum ancillas posita Saufeia corona

provocat at tollit pendentis praemia coxae;

ipsa Medullinae flcutum crisantis adorat.

Palma inter dominas, virtus natalibus aequa.

Nil ibi per ludum simulabitur, omnia fient

ad verum, quibus incendi iam frigidus aevo

Laomedontiades et Nestoris hirnea possit.

Tunc prurigo morae  inpatiens, tum femina simplex,

ac pariter toto repetitus clamor ab antro

«Iam fas est, admitte viros!». Si dormit adulter,

illa iubet sumpto iuvenem properare cucullo;

si nihil est, servis incurritur, apstuleris spem

servorum, veniet conductus aquarius; hic si

quaeritur ed desunt homines, mora nulla per ipsam,

quo minus imposito clunem summittat asello.

 

Diamo la traduzione in prosa di Ettore Barelli (in: Giovenale, Satire, Intr. Di Luca Canali, Rizzoli Editore, Milano, 1980, p. 129):

 

Di che più si cura la passione dei sensi eccitata dal vino? Non sa più distinguere l'inguine dalla bocca, colei che nel colmo della notte morde grandi ostriche, quando spumeggiano i profumi profusi nel puro Falerno, quando si tracanna dalle conchiglie e il soffitto ondeggia nell'ebbrezza e sulla mensa paiono doppie le lucerne. Dubita ora della smorfia con cui Tullia assorbe l'aria, o di quel che dice Maura malfamata all'altra Maura, sua sorella di latte, quando passano davanti all'altare dell'antica Pudicizia. Di notte proprio qui che fan fermare le loro lettighe, e smaniose d'orinare, inondano la faccia della dea coi loro lunghi zampilli, e si cavalcano a vicenda, e s'agitano l'una addosso all'altra sotto il lume della luna. Poi ritornano a casa: e tu, al mattino, quando ti rechi a visitare gli amici potenti, calpesti l'urina di tua moglie!

Chi non conosce i misteri della Dea Bona?  Il flauto eccita i lombi: stravolte dal suono del flauto e dal vino,  le donne agitano i capelli ed ululano, questi menadi di Priapo! Che frenesia d'amplesso allora nelle loro menti, quali grida nella danza libidinosa, che torrente di vecchio vino lungo le loro madide gambe!

Saufeia, messa come posta una corona, sfida le ragazze del lupanare e vince la gara della coscia pendula; ma ella stessa poi trova adorabile Medullina per come ondeggia voluttuosamente. La palma è contesa tra le due dame; tanta abilità pareggia i natali.  Nulla si fa qui per giuoco, ma tutto è vero, così vero che infiammerebbe  di libidine Priamo, ormai gelato dagli anni, o addirittura l'ernia di Nestore [i due vecchioni dell'Iliade, il troiano e il greco]. Allora la voglia non soffre più indugio, allora la femmina si mostra com'è, e da tutte le parti insieme s'alza  il grido che rimbomba sotto le volte: - Ora è lecito, fate entrare gli uomini!  Se l'amante è a letto che dorme, gli fa dire di buttarsi addosso un mantello e venire immediatamente; se non c'è, si ricorre agli schiavi; se manca la speranza di trovarne, si prende a nolo l'acquaiolo;  se intanto che lo si cerca mancano uomini, ella non ci pensa due volte a sottomettere le natiche a un somaro!

 

E di quest'ultima situazione, crediamo, si dev'essere ricordato Apuleio di Madaura nel suo romanzo Asinus aureus, più d'un secolo dopo, là dove il protagonista, trasformato appunto in asino, deve - fra l'altro - subire l'estrema umiliazione di soddisfare le voglie insaziabili di una dissoluta matrona; e anche il pericolo di essere, poi, ritenuto responsabile, se la sciagurata ne dovesse rimanere ferita a morte…

 

Ma, tornando al nostro tema iniziale, dobbiamo precisare subito che non esistono dati biografici certi, nella vita di Giovenale, che avvalorino la tesi che il poeta fosse divenuto misogino a causa di qualche ferita d'amore o, in generale, da una disillusione nei confronti dell'altro sesso.

Del resto, è probabile che il poeta - come molti suoi contemporanei - prediligesse l'altro versante dell'inclinazione sessuale; così, almeno - a nostro parere - si devono intendere i versi (28-37) in cui consiglia all'amico Postumo di non prendere moglie, ché sarebbe una troppo grande seccatura; ma,  piuttosto, se ha proprio voglia di sesso, di portarsi a letto qualche ragazzino, che almeno non litiga, non vuole regalucci e non si lamenta dello scarso ardore dell'amante:

 

Certe sanus eras. Vxorem, postume, ducis? (…)

Aut si de multis nullus placet exitus, illud

Nonne putas melius, qiuod tecum pusio dormit?

Pusio qui noctu non litigat, exigit a te

nulla iacens illic munuscula nec queritur quod

et lateri parcas nec quantum iussit anheles.

 

Come ha osservato Concetto Marchesi (in Storia della letteratura italiana, Principato Editore, Milano, 1965, vol. II, pp. 142-45):

 

Della sua vita [di Giovenale] qualcosa traspare dalle satire stesse, ma poco; ché Giovenale, tra i poeti satirici, è quello che più ha voluto occultare i propri casi, non sappiamo se per fastidio di intime confidenze o per il tomo eccitato della sua poesia che mal si prestava ad abbandoni personali. (…)

Leggendo le satire si ha l'impressione che un che di avventuroso e di triste sia passato nell'esistenza del poeta: se anche non riusciamo a discernerlo fra le vaghe e infide notizie di quella antica brevissima Vita  d'ignota provenienza rimasta in alcuni manoscritti delle Satire. Secondo questo anonimo biografo, Giovenale, educato in casa di un ricco liberto, non si sa se padre o protettore, perseverò nell'arte di declamare fino alla media età piuttosto per inclinazione dell'animo che per prepararsi alla scuola o all'avvocatura. Dopo aver acconciamente composto una satira di pochi versi contro il pantomimo Paride, si volse tutto a questo genere letterario che gli procurò più volte grande successo nelle sale di recitazione. Più tardi quei verso egli inserì in una nuova composizione per colpire un borioso istrione favorito dell'imperatore: onde venuto in sospetto di ostilità politica fu bandito da Roma con il pretesto di una onorevole missione militare. Al sarcasmo dei verso il principe volle rispondere con la beffa crudele di un comando di coorte conferito nel basso Egitto al vecchio poeta il quale «intra brevissimum tempus angore et taedio periit».

Questa fine di Giovenale ottuagenario che esule in terra lontana muore in brevissimo tempo di affanno e di malinconia ha certamente del romanzesco. In quella anonima biografica manca ogni impronta di sicura informazione. Secondo una recente opinione l'esilio di Giovenale sarebbe una leggenda inventata verso il quarto secolo da qualche letterato o grammatico e conformata al carattere del poeta che nelle satire apparisce come un flagellatore dei potenti. Può essere; ma questa possibilità non impedisce di credere fermamente, che nell'esistenza di Giovenale siano state non soltanto oscure ma anche dolorose esperienze.

 

Troppo poco, comunque, per ipotizzare che la misoginia del poeta derivasse da sofferte e vicende personali.

Piuttosto, la Satira VI ci sembra contenere - oltre la cornice storico-culturale contingente, e la relativa critica al lusso e alle mollezze importati dall'Oriente - un grido di dolore per l'impossibilità di stabilire un rapporto armonioso fra uomo e donna; e, in ciò, riteniamo si possa istituire un parallelismo con alcune opere del grande drammaturgo e romanziere svedese August Strindberg, e particolarmente con il libro Autodifesa di un folle, del 1887-87, dedicato in gran parte alla rievocazione della infelice vicende matrimoniale dell'Autore con la bella attrice Siri von Essen (cfr. il nostro precedente articolo Quando la donna è il cattivo genio dell'uomo - e di se stessa, sempre sul sito di Arianna Editrice).

Che questa nostra interpretazione non sia una mera illazione, ci pare lo suggeriscano questi pochi  verso rivelatori (208-11):

 

   … Nullam invenies quae parcat amanti:

ardeat ipsa licet, tormentis gaudet amantis

et spoliis, igitur lomnge minus utilis illi

uxor, quisquis erit bonus optandusque maritus.

 

Traduzione di E. Barelli (Op. cit., p. 123):

 

Non troverai nessuna disposta a risparmiare chi l'ama;  anche se t'amerà, godrà di tormentarti e spogliarti. La moglie è tanto meno utile quanto più il marito le si mostrerà buono e desiderabile.

 

Si tratta di un'osservazione che potrà non piacere alle femministe, ma che a noi sembra non priva di un sottile acume psicologico: la donna, in linea di massima, gode di esercitare un potere sull'uomo, non solo quando ama, ma anche quando non ama: nel primo caso, tiranneggiando l'amante o il marito; nel secondo, tormentando il pretendente infelice, per il puro e semplice piacere di esercitare una forma di dominio e sentirsi padrona della situazione, nonché per avere una conferma della proprio irresistibile potere di seduzione.

Certo, vi sono anche degli uomini che manifestano una analoga attitudine: e sono, infatti, gli uomini effeminati, magari travestiti da dongiovanni: e quasi sempre il dongiovanni è un uomo effeminato; solo le donne, per una sorta di pena del contrappasso, non l'hanno ancora capito.

Abbiamo altrove sostenuto che la disarmonia nel rapporto fra i due sessi è una delle caratteristiche più spiccate della società moderna; e lo testimoniano, sul versante della letteratura, innumerevoli opere, da Madame Bovary di Flaubert ad Anna Karenina di Tolstoj, da Malombra di Fogazzaro a Thérese Raquin di Émile Zola.

Tuttavia, la società tardo-romana presenta notevoli analogie con la società contemporanea, specie per quel che riguarda il tramonto di un antico assetto culturale e la faticosa ricerca ed elaborazione di valori nuovi, capaci di sostituirlo (ne abbiamo recentemente parlato nel saggio Alla crisi generale espressa dal nichilismo occorre rispondere con nuovi paradigmi e nuove norme?, consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).

Di conseguenza, la disarmonia nel rapporto fra uomo e donna, di cui la misoginia è una indubbia espressione, sarebbe uno dei tratti comuni alla società moderna e alla società tardo-antica: l'una e l'altra caratterizzate da uno stato di disordine morale, verso cui la satira misoneista, lo sparare a zero su tutto ciò che è «nuovo», costituisce, da sempre, una delle reazioni più tipiche.

 

Leggere i classici, e meditare su di essi - lo sappiamo - è sempre un modo di educare lo spirito a valori che oltrepassano le contingenze della società e della storia.

Leggere e meditare un classico della tarda antichità, come Giovenale (sebbene il II secolo non sia considerato tale dagli storici relativamente all'Impero Romano, lo è, però, di certo, in rapporto al mondo antico nel suo complesso) presenta un ulteriore motivo di interesse: verificare quanto poco «moderni» siamo, in fondo, noi moderni, così orgogliosi del nostro supposto primato.

In realtà, non sono poi molte le cose che la modernità ha davvero inventato: non il gusto del lusso superfluo e dello spreco; non la devastazione ecologica per futili motivi (si pensi alle venationes che spopolavano di leoni il Nordafrica, solo per allestire sontuosi spettacoli circensi); e nemmeno - dulcis in fundo - l'incomprensione e l'estraniamento fra uomo e donna, con tutto il suo carico di delusione, amarezza, conflittualità familiare; per non parlare della ricerca di «soluzioni alternative» che sembrano, anch'esse, l'ultimo grido della moda, ma sono invece vecchie di millenni: prima fra tutte la pratica dell'omosessualità, tanto maschile che femminile.

Viene davvero da domandarsi: ma che cosa abbiamo, poi, di tanto moderno, noi moderni, a parte la boria provinciale di sentirci sempre i primi della classe?

Ai posteri l'ardua sentenza…