L'agricivismo
di Richard Ingersoll - 27/10/2008
SIAMO ABITUATI a pensare agli orti urbani come a un modo di occupare gli interstizi della città, di riempire con qualcosa di vivo, bello e utile gli spazi che il cemento lascia liberi, per scelta o per sbaglio. Forse però il nostro modo di pensare la città è antiquato: la città al centro [dentro] e la campagna intorno, sullo sfondo [fuori]. Ma forse è vero che «senza accorgersene la città è scomparsa», come ha scritto lo storico dell'urbanistica statunitense Richard Ingersoll in «Sprawltown», edito qualche anno fa da Meltemi. Al suo posto c'è lo «sprawl» [letteralmente: sdraiato], la città diffusa senza forma né limite. Suoi ingredienti sono i centri commerciali, le tangenziali, i parcheggi, le villette, i vuoti, la riduzione del cittadino a «turista», perché appartiene sempre meno al suo «luogo» e ne usufruisce attraverso il consumo. Ingersoll smonta quell'immagine antica e fa dell'agricoltura, e quindi degli orti, uno degli strumenti per restituire ai cittadini il loro spazio e il loro ruolo. La campagna ora è «dentro».
Ingersoll, che vive a Monterchi [Arezzo] e insegna a Firenze, ha dato a questo processo il nome di «agricivismo»: quasi un ossimoro. «Il mio punto di vista -spiega - è un po’ diverso da altri modi di analizzare la 'città diffusa'. In quest'epoca le città si Sono organizzate sulla base di criteri che chiedono sempre più velocità e sempre più spazio. È il modello statunitense che ha vinto ed è stato copiato in tutto U mondo, anche nei paesi più poveri che non potrebbero permetterselo. Lo sprawl secondo me è però un modello vecchio. Perciò bisognerebbe trattare questa struttura urbana, così difficile da capire e da definire perché è difficile da vedere, come qualcosa da restaurare, da mettere a posto». E aggiunge: «La città diffusa sembra scoordinata anche quando è il frutto di una pianificazione, e ci fa sentire disorientati. Perché i territori sono stati depredati e feriti da troppe infrastrutture. È perché questo modo di collocare le funzioni urbane ha un prezzo ambientale altissimo ed è causa di grande spreco. Infine, perché la città diffusa è brutta. Lavoriamo su questi tre punti per cercare di sistemarla».
Lo scheletro su cui si règge lo sprawl sono le grandi opere, le infrastrutture. Come si può pensare di «metterle a posto»?
Credo che le infrastrutture debbano diventare opere d'arte come la cattedrale, il duomo, la piazza. Quell'arte potrebbe funzionare come l'arte ha sempre fatto, da simbolo: se un luogo diventa simbolico tutti riescono a capirlo, e quindi a usarlo.
E gli orti urbani che ruolo hanno?
Un orto è sempre positivo, perché è espressione di creatività e a volte anche di uh bisogno, ma non penso che l'orto «anarchico» sia uh contributo positivo al sistema urbano. Credo che bisogna pensare agli orti da due punti di vista: quello naturale e quello sociale. L'orto spontaneo non contribuisce quasi mai alla nascita di una rete sociale. Gli orti in qualche modo «coordinati» e frutto di un lavoro collettivo, invece, hanno sempre queste due funzioni. Un esempio è il «bosco in città» a Milano, che è un gioiello: lì gli orti urbani segnano il perimetro di un grande parco. Sono centinaia, nati grazie al progetto di recupero di due terreni molto grandi da parte di Italia nostra. Si trovano a un quarto d'ora dal Duomo di Milano, seguono delle regole anche per i concimi e per l'uso dell'acqua, e hanno reso di nuovo fruibile un luogo che era rimasto abbandonato e degradato.
Non è detto che l'elemento «costruttivo» sia l'amministrazione locale, e per esempio in questo caso il governo della città ha posto molte difficoltà a Italia nostra invece di aiutarla a sottrarre i terreni ai costruttori. Quella battaglia però, che è stata lunga, ha creato condivisione, incontri e coscienza, mentre un orto «solitario» non è detto che lo faccia.
Ci può spiegare il concetto di «agricivismo»?
L'«agricivismo» prende il nome dall'agriturismo, una cosa inventata dagli italiani e di cui dovrebbero essere fieri. La legge che ha istituito gli agriturismi prevedeva che le strutture dovessero garantire di avere l'agricoltura come attività predominante. L'ospitalità ha finanziato dunque la cura del territorio e la salvezza della campagna, soprattutto in Umbria e in Toscana. Allo stesso modo, l'«agricivismo» potrebbe prevedere per legge che almeno il 30 per cento di ogni sito urbano resti coltivabile. La coltivazione, che è cura, fonda un nuovo senso di appartenenza e quindi di responsabilità verso lo spazio urbano e il verde che ne fa parte. Si possono coltivare i tetti, i parcheggi, i terreni liberi... L'«agricivismo» richiede la partecipazione attiva dei cittadini, e questa partecipazione rende più «urbano» ogni spazio perché crea legami sociali, può rispondere a un fabbisogno locale, può coinvolgere le parti più deboli delle società. E può insegnare ai bambini, che hanno un'idea industriale del cibo, da dove vengono le cose che si mangiano.