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Olio di palma imbroglione

di Manuela Cartosio - 14/11/2008

 

È partita dall'Indonesia alla volta dell'Olanda una nave cisterna carica di olio di palma, il primo a vantare il certificato di sostenibilità ambientale e sociale rilasciato dalla Rspo (la Tavola rotonda dell'olio di palma sostenibile). Ma non c'è nulla da festeggiare, avverte Greenpeace. Anzi, c'è da protestare. Un attivista dell'associazione l'ha fatto incatenandosi all'àncora della Gran Couva, resistendo per ore al getto degli idranti e ritardando la partenza della nave. Secondo Greenpeace, il certificato di sostenibilità concesso alla United Plantations, che possiede migliaia di ettari in Malesia e Indonesia e fornisce olio di palma a Nestlé e Unilever, è solo «una cortina fumogena» che copre i soliti misfatti: appropriazione indebita di aree forestali, degradazione di foreste pluviali e torbiere, conflitti con le popolazioni locali.
Greenpeace per un verso accusa gli ispettori della Rspo d'aver «chiuso gli occhi» di fronte alle innumerevoli irregolarità commesse dalla United Plantations, per un altro lamenta che i criteri di certificazione adottati sono troppo blandi e permissivi. Ad esempio, la United Plantations, ottenuta la certificazione di sostenibilità per le sue piantagioni in Malesia, può continuare a distruggere la foresta in Indonesia. Il sospetto che la certificazione sia solo un'operazione di maquillage cresce quando si apprende che i cavalieri di questa «tavola rotonda» - creata nel 2002 - sono oltre duecento aziende (in gran parte multinazionali) che usano l'olio di palma per fare saponi, detersivi, cosmetici, cioccolati (compresa la Nutella), biscotti, gelati, margarina, patatine, dadi, cibi congelati... Attorno alla «tavola rotonda», presieduta dalla Unilever, siedono Nestlé, Procter&Gamble, Kraft e la nostrana Ferrero.
L'olio di palma copre il 21% del mercato mondiale dell'olio commestibile, è il più usato dopo quello di soia. Negli ultimi vent'anni la produzione di olio di palma è triplicata. Per far posto ai palmeti nel Sud Est asiatico (Malesia, Indonesia, Borneo) sono stati tagliati e bruciati milioni di ettari di foresta, liberando in atmosfera un enorme quantità di anidride carbonica, il principale gas serra. Si sono intaccate anche le torbiere, un magazzino naturale sotterraneo di Co2. Ecco perchè l'Indonesia è il terzo produttore mondiale, dopo Usa e Cina, di anidride carbonica. Oltre agli effetti sul clima, il prezzo pagato al boom dell'olio di palma è il drastico impoverimento della biodervisità: specie animali a rischio d'estinzione, abbandono imposto alle comunità indigene delle colture tradizionali.
Contro la deforestazione causata dall'industria dell'olio di palma Greenpeace ha condotto diverse campagne internazionali e raccolto migliaia di firme. Ha lanciato la parola d'ordine «deforestazione zero»: basta tagliare foreste e distruggere le torbiere per far posto ai palmeti. Persino l'Unilever, a parole, ha aderito alla moratoria. Un impegno di facciata, vista la leggerezza con cui è stato rilasciato il primo certificato di sostenibilità all'olio di palma della United Plantations.
La prossima settimana l'industria dell'olio di palma terrà a Bali il sesto incontro annuale della «tavola rotonda». E' indispensabile che in quella sede vengano fissati criteri più rigidi per certificare la sostenibilità dell'olio di palma, dice Chiara Campione, responsabile della campagna foreste di Greenpeace Italia. Altrimenti, le aziende continueranno a «imbrogliare» il mercato e i consumatori.