L’igiene che inquina
di Giorgio Ferigo - 20/11/2008
Molti cervelli statali e regionali, dopo lunghe cotture, hanno partorito
fanfaluche, baggianate e obbrobri igienici senza raziocinio,
adatti a favorire l’industria alimentare che è l’unica vera causa dei
grandi flagelli contro la salute pubblica degli ultimi cinquant’anni,
dalla mucca pazza all’influenza aviaria.
Mi chiamo Giorgio Ferigo, faccio di mestiere il responsabile
dell’igiene degli alimenti e della nutrizione nella USL dell’Alto
Friuli, ma il lavoro che mi diverte di più è quello di far fuori leggi,
le leggi italiche… molte di loro sono sciocche o imbecilli o molti
altri aggettivi che si possono dire. Anche con alcuni colleghi
dell’Emilia Romagna, della Toscana, insomma dell’Italia, abbiamo
costituito un gruppo che si chiama EBP vuol dire Evidence
Based Prevention, la prevenzione basata su prove di efficacia.
Abbiamo fatto una ricognizione e abbiamo scoperto che circa il
25% delle cose che noi facciamo sono dimostrabilmente efficaci.
Il 25% delle cose che facciamo sono dimostratamente inutili e il
rimanente 50% delle cose che facciamo nessuno si è mai preoccupato
di dimostrare se siano utili o inutili.
Abbiamo ottenuto udienza presso il Ministero della Sanità,
una prima legge di semplificazione burocratica sta per essere varata
dal governo, altre leggi di semplificazione burocratica sono
state varate dalla Regione e continuiamo a lavorare adesso anche
con la benedizione del Ministro.
Stasera vi parlo dei maggiori dettagli di tutte quelle stupidag186
gini che abbiamo imposto ai produttori di alimenti, ai ristoratori,
per anni, per 20-30 anni. In realtà queste stupidaggini hanno un
manico, un nocciolo duro che non si riesce mai a distruggere,
questo nocciolo duro si chiama: autorizzazione sanitaria. Tutti voi
sapete che cos’è l’autorizzazione sanitaria, tutti quelli che hanno
aperto un bar o un ristorante, tutti quelli che hanno organizzato
una sagra, compresa la «fiera da straz», tutti quelli che hanno
inaugurato un prosciuttificio o un’industria conserviera, tutti
quelli che fanno i formaggetti, il salame o il miele si sono dovuti
procurare un’autorizzazione sanitaria una o più volte nella vita.
Il fondamento teorico di questa autorizzazione state ad ascoltare
qual è.
Dice Savino Cassese che è il massimo dei giuristi amministrativi
italiani: «L’autorizzazione toglie un limite all’esercizio di un
diritto proprio di un privato, è una forma di controllo pubblico
su attività privata che si esercita subordinando il loro svolgimento
al consenso della pubblica amministrazione», complicato ma
adesso provo a spiegare.
Preparare cibo da somministrare al prossimo è un diritto
soggettivo di ogni cittadino italiano che lo voglia fare. C’è questo
diritto, tuttavia è un’attività senza pari, pericolosa più della
Luftwaffe o anche più degli Spitfire sui cieli di Dresda. Allora la
pericolosità insita nella cottura del cibo o nella mescita del vino
rosso costituisce una condizione ostativa all’esercizio del diritto
soggettivo. Particolari cautele possono rimuovere questa condizione
ostativa. Le particolari cautele sono quelle minuziosamente
descritte nel DPR 327 dell’80 che sono in genere di tipo strutturale.
La pubblica amministrazione le scrutina, poi guarda la
relazione, fa il sopralluogo e se piastrelle, lavabi, finestre, porte,
frigo, bancone, pignatte, cuccume, forchettoni, mestoli, batticarne,
segaossa, taglieri e ceppi sono presenti e vengono dichiarati
idonei, la spaventevole pericolosità connessa con la preparazione
degli alimenti si intende rimossa o attenuata; le condizioni ostative
scompaiono, il diritto soggettivo si ripristina, l’attività si auto187
rizza, e così l’oste può finalmente preparare in tutta calma le polpette
all’arsenico da somministrare ai causidici legulei e burocrati
per farne conveniente strage.
Questi requisiti igienico-sanitari hanno almeno due importanti
difetti.
Il primo difetto è questo: come tutti sanno e come le massaie,
rurali e non rurali, sanno, l’igiene non è uno stato, l’igiene è un
processo, vale a dire una serie di atti semplici ma ripetuti quotidianamente
o più volte al giorno, capaci di eliminare temporaneamente
la sporcizia, i
batteri ecc. Cioè pulisco
e rimuovo provvisoriamente
la polvere, la terra
o quello che c’è, sapendo
benissimo che fra un’ora
si riaccumuleranno, torneranno
a proliferare e io
dovrò riscopare, ripulire
perché questa è la condizione.
Non dipende
dalle piastrelle, dipende
dall’olio di gomito che
è un’altra cosa. Quindi
questo non lo può garantire
un medico, non lo
può garantire il medico
della pubblica amministrazione, lo può garantire soltanto l’imprenditore,
che i locali facilmente pulibili lavabili e disinfettabili,
come dice la legge, siano davvero puliti, lavati e disinfettati. Si
possono fare migliaia di esempi su questo, dai comandi non manuali
alle antilatrine, oggi abbiamo visto perfino la pozione monouso
e monodose di olio, di aceto per condire l’insalata, tutte
queste sciocchezze.
Dai comandi non
manuali, alle
antilatrine, oggi
abbiamo visto perfino
la pozione monouso
e monodose di olio,
di aceto per condire
l’insalata, tutte queste
sciocchezze e follie...
In secondo luogo la legge non distingue fra una multinazionale
dello yogurt e un’osteria di villaggio o una macelleria di paese.
Non distingue fra alimenti deperibili e alimenti sempiterni, come
per esempio bagigi; non distingue tra cibi che possono venire consumati
fra tre anni a mille chilometri da qui e cibi che vengono
consumati nella sala da pranzo accanto alla cucina, cinque minuti
dopo ancora bollenti. Non distingue tra alimenti che hanno un
rischio per la salute, che è nullo o basso, e alimenti che hanno un
rischio per la salute, che è elevato o altissimo.
Allora è davvero facilissimo arguire che la salubrità degli alimenti
non dipende dai metri quadri di piastrelle e dall’acciaio
inossidabile dei banconi, dipende dall’uso ripetuto dello Spic e
Span e dalla cura nella preparazione e conservazione degli stessi.
L’utilizzo dei detergenti e la scelta degli ingredienti, dei tempi di
cottura, delle temperature di conservazione non si possono verificare
durante quel sopralluogo preventivo che fa la pubblica
amministrazione (cioè l’ASL) per rilasciare l’autorizzazione sanitaria.
Infatti, durante il sopralluogo gli addetti mica lavorano…
Così l’autorizzazione sanitaria è una pratica di clamorosa inutilità,
un controsenso logico, a meno di non mettere alle spalle di
ogni operatore alimentare un poliziotto che giorno dopo giorno
verifichi che le condizioni ostative siano davvero rimosse, non serve
proprio a niente. Milioni di poliziotti per milioni di esercizi.
È chiaro che bisogna cambiare direzione. La responsabilità
«effettiva» non può che essere in capo all’imprenditore, che è insieme
garante e responsabile della salubrità dei cibi che distribuisce,
e che paga il fio se sgarra; e non invece in capo alla pubblica
amministrazione.
Nel 1997 l’Italia ha recepito una direttiva CEE, che è diventata
poi la famosissima 155, la legge per intenderci, che tutti conoscerete,
sulla HACCP. Questa legge dice che il responsabile dell’industria
alimentare è anche responsabile del fatto che tutte le fasi
di preparazione del cibo siano effettuate in maniera igienica. Il
processo igienico è affidato alla responsabilità del produttore. Il
sistema è definito «autocontrollo»: e il produttore è autonomo,
dice la legge, nell’individuare le soluzioni, anche tecnologiche,
più consone al tipo e alle dimensioni della sua azienda. Le soluzioni
che ha individuato, purché siano efficaci a garantire la salubrità
dei prodotti, vengono accettate dall’autorità che controlla
l’autocontrollo.
Tuttavia anche questo sistema del 1997 aveva due difetti, il
primo è il difetto tutto italico che quando si introduce una legge
nuova non si abolisce la vecchia, cosicché la vecchia e la nuova
hanno continuato a convivere. E così è accaduto a tutti quelli
Una lattina che era igienica
di voi che producono alimenti di dover fare l’autorizzazione sanitaria
e insieme anche l’autocontrollo: le due cose insieme. E
c’è stata anche un’altra cosa intortigliata: che l’autorità autorizza
l’imprenditore a usare autonomamente la sua autonomia imprenditoriale
affinché possa autonomamente fare quello che l’autorità
gli ha concesso di fare: cioè una follia.
Il secondo difetto era quello di prima, cioè anche questa volta,
anche questa legge non distingue fra piccoli e grandi stabilimenti.
Questo sistema HACCP è nato per mandare gli astronauti nello
spazio: è stato inventato durante il progetto del volo Mercury e
catapultato nell’Osteria di Sasso Marconi così senza alcun adattamento.
Poi però, grazie a Dio e a Bruxelles che salva gli italiani
dalle leggi dell’Italia, anche questa contraddizione finalmente è
finita.
Dal 1 gennaio di quest’anno 2006 è entrato in vigore un altro
regolamento CEE che ha sostituito il 155 e ha finalmente fatto
piazza pulita dell’autorizzazione sanitaria, se ancora voi continuate
a farle è soltanto perché noi siamo pigri, perché l’inerzia… ma
insomma il regolamento 852 in vigore dal 1 gennaio ha fatto piazza
pulita di questa cosa qui.
Ascoltate, l’italiano è bruttino, però il concetto è chiarissimo:
«la responsabilità principale per la sicurezza degli alimenti incombe
all’operatore del settore alimentare», perciò l’imprenditore
non deve più essere autorizzato, ma deve semplicemente «notificare
» all’autorità la sua intenzione di aprire un locale, un’impresa
alimentare, una produzione di formaggi pecorini… «ogni
operatore del settore alimentare notifica all’opportuna autorità
competente, secondo le modalità prescritte dalla stessa, ogni stabilimento
posto sotto il suo controllo che esegua una qualsiasi
fase di produzione, trasformazione e distribuzione di alimenti ai
fini della registrazione del suddetto stabilimento».
La notifica serve perché la pubblica amministrazione (da noi
l’ASL) possa andare a fare la dovuta vigilanza sulle fasi di lavorazione,
sui rischi e pericoli, perché la vigilanza in realtà ci vuole
davvero ma si esercita dopo l’apertura dell’esercizio commerciale.
Però anche la vigilanza è cambiata. Voi ricorderete la distanza
di potere fra controllore e controllato: i vigili sanitari che venivano
a fare le ispezioni e cominciavano a dire, questo contraddice
l’articolo tale della legge, questo contraddice l’articolo talaltro
della legge, questo e avanti, ragionavano per leggi e per violazioni
dell’articolo di legge, per pregiudizi e superstizioni igieniche
e avevano alle spalle un intero Stato che la pensava come
loro. C’era una differenza di status fra il vigile sanitario, pubblico
ufficiale o addirittura ufficiale della polizia giudiziaria, il tecnico
che ha dietro di sé il corpus delle leggi dello stato, e il cittadino
che, avendo dalla sua soltanto l’esperienza anche secolare, il
rigore professionale e magari anche l’evidente approvazione del
consumatore, è inerme di fronte a queste leggi e può al massimo
protestare o seccarsi.
In realtà adesso cambia anche la vigilanza, perché diventa un
rapporto paritario fra cittadino e pubblica amministrazione, in
cui il cittadino deve dimostrare che quello che fa è adeguato dal
punto di vista della sicurezza alimentare e la pubblica amministrazione
deve dimostrare che quello che chiede è adeguato dal
punto di vista alimentare. Il rapporto di parità si sviluppa in una
fase particolare di questo rapporto che è l’audit in cui si discute,
si dimostra a vicenda e in cui bisogna avere cognizioni scientifiche,
non vaghe idee, non dire «vabbè voglio l’antilatrina perché
altrimenti la puzza si diffonde nel locale di non so chi», questo
non è un concetto sanitario, questo è un vago concetto di buona
educazione che non spetta a me imporre a nessuno.
Per la patria del diritto, troppo razionale, troppo efficace,
troppo semplice.
Cosicché, cosa ti inventano i nostri soloni?
Ti inventano (Accordo Stato-Regioni del 9 febbraio 2006) che
la notifica si fa attraverso la cosiddetta «dichiarazione inizio attività
differita» (DIA). E qui cominciano le complicazioni, e le
assurdità.
Servizio igienico
È ovvio che il titolare debba dichiarare il vero. «Presupposto
della DIA è che al momento della presentazione della comunicazione,
il titolare dichiari che l’esercizio possiede i requisiti minimi
prestabiliti dalla norma in funzione dell’attività svolta». Dunque,
la comunicazione si può fare soltanto quando l’esercizio alimentare
è terminato e pronto ad aprire. Da quel momento – per aprirlo
davvero al pubblico – devono trascorrere 45 giorni. Per far che?
Per far sì che «l’ASL, se lo ritiene necessario, effettui un sopralluogo
di verifica». Può anche non ritenerlo necessario, e perciò
non andarci affatto; può andarci e trovare tutto in ordine; può
andarci, trovare lievi difformità, e prescrivere gli adatti accorgimenti;
può anche dichiararlo del tutto inidoneo.
Se l’imprenditore comincia la sua attività senza aspettare i 45
giorni commette un atto illegittimo («va considerato alla stregua
di un soggetto privo di autorizzazione sanitaria» – ma non era
stata abrogata?). Se l’imprenditore notifica prima che il bar sia
completato, dichiara il falso.
Le cose si svolgeranno più o meno così.
Un tale intende aprire un bar. Si fa preparare un progetto dal
geometra, accende il mutuo, trova i muratori, chiama l’idraulico e
il piastrellista, l’arredatore e l’elettricista. Quando il bar è pronto,
rifinito a puntino, lustro e mondo, allora (e solo allora) il barista
può notificare la sua intenzione di aprirlo. Da quel momento il
bar resta chiuso agli avventori per 45 giorni, a disposizione di
un’ASL che verrà oppure non verrà, a sua discrezione, aleatoriamente.
Un altro esempio. Un tale acquista il camion furgonato isotermico
per trasportare carne. Si procura la vidimazione ATP, lo immatricola,
stipula l’assicurazione; quando tutto è in regola, inoltra
la sua DIA. Da quel momento tiene il camion lì sul piazzale, per
45 giorni, inoperoso, a poltrire.
Un terzo esempio. La Pro-Loco di Bugnins vuole organizzare
per la Madonna di Agosto la sagra del pandispagna. I volontari
costruiscono nella piazza di Bugnins i baracchini e la pedana
del ballo liscio, preparano le griglie, allacciano l’acqua potabile
e la corrente elettrica. A questo punto, notificano. Ma è soltanto
dopo 45 giorni di occupazione della piazza e di intralcio diurno
e notturno al traffico, che la Pro-Loco può dare avvio alle danze,
far sfrigolare le salsicce, spillare le birre. La sagra dell’Assunta o è
pronta per San Pietro (29 giugno) o si fa per San Remigio (primo
ottobre). Naturalmente, si tratta di inezie per i sardanapali italiani,
che nuotano nell’oro – qualche centinaia di migliaia di euro
soltanto. Ma immaginate che si voglia impiantare un prosciuttificio,
una fabbrica di conserve, un caseificio...
C’è qualche superno ministeriale in grado di spiegare se c’è
logica in tutto questo, e quale logica è? e che cosa, e soprattutto
chi, si vuole tutelare con questo marchingegno?
Non la salute, statene certi. Quella si tutela in altro modo, in
Europa e ovunque.
E allora, cosa? Sorge il sospetto che la pubblica amministrazione
non si voglia arrendere al buon senso europeo, e intenda
perpetuare sotto forme nuove (e sadiche) le sue vecchie e stupide
pantomime. Infatti, la «DIA differita» è una dichiarazione soggetta
al consenso, muto o esplicito, della pubblica amministrazione;
è un’«autorizzazione sanitaria» larvata, che ha, gattopardescamente,
cambiato nome ma non natura; e che al cittadino costa
non più i 100 euro di diritti sanitari, ma ben 45 giorni di mancato
guadagno.
Molti cervelli statali e regionali si son dati da fare per partorire
un tale obbrobrio. Ma i neuroni davvero connessi erano,
purtroppo, rari. Ne sono uscite queste fanfaluche e baggianate.
Né il buon Dio né Sabino Cassese li perdoneranno.
A fronte di simili sesquipedali scemenze, c’è una via d’uscita?
C’è. Le leggi (e a maggior ragione gli «accordi») nazionali in
contrasto con i regolamenti europei, o con le direttive comunitarie
recepite nell’ordinamento nazionale, vanno «disapplicate»
– dice la sentenza 170/1984 della Corte Costituzionale. Non è
facoltà del cittadino abrogarle (ma sarebbe ora passata che i parlamentari
si dessero una mossa); è tuttavia diritto del cittadino
fare come se non ci fossero (tamquam non essent). Nel caso, la
discrepanza col Regolamento Europeo 852/2004 – discrepanza
formale e sostanziale – è palese.
Ma noi abbiamo avuto forse un piccolo colpo di fortuna, abbiamo
bloccato il tentativo di impedire l’applicazione semplice
di questa legge. In Friuli abbiamo bloccato questa cosa e siamo
passati alla notifica semplice, i nostri colleghi dell’Emilia Romagna
adesso si muoveranno anche loro, non sarebbe male che non
passasse nemmeno qui, non passasse da nessuna parte tutto quello
che non ha a che fare con il raziocinio.
Concludendo a proposito di questa 852, anche il secondo difetto,
quello di creare leggi che valgono per il grande e per il piccolo,
per l’industria e per l’artigianato, per il piccolo contadino e
avanti, prevedendo obblighi uguali per situazioni anche abissalmente
diverse, anche questo in qualche modo è stato superato.
Bisogna adesso cominciare a conoscere questa legge e a pretendere
che venga applicata.
Un prezioso vademecum intitolato Documento di orientamento
sull’applicazione di talune disposizioni del regolamento
CE 852/2004 sull’igiene dei prodotti alimentari, datato Bruxelles,
21 dicembre 2005, dice a chiare lettere quello che noi tutti abbiamo
pensato in questi anni, tutto il male che abbiamo pensato
dell’HACCP e le novità che questo regolamento introduce sono
musica per le nostre orecchie.
Ascoltate: «Negli stati membri i prodotti alimentari possono
essere fabbricati secondo procedimenti tradizionali che si sono dimostrati
sicuri anche se non sempre sono pienamente conformi alle
prescrizioni tecniche del regolamento». Questa è musica. «Il regolamento
riconosce la necessità di mantenere questi metodi di produzione
tradizionali che sono espressione della diversità culturale
dell’Europa e prevede quindi la flessibilità necessaria per le imprese
alimentari» e ancora «la nuova normativa in materia di igiene alimentare
contiene una serie di prescrizioni che lasciano all’operatore
alimentare uno spazio di discrezionalità»: non sono io medico che
ti dico quello che devi fare, sei tu che discrezionalmente fai quello
che ritieni utile «sono formulate come un obiettivo per raggiungere
il quale l’operatore del settore alimentare deve dotarsi dei mezzi
necessari». E ancora «la metodologia HACCP è per sua natura flessibile
» com’ è evidente «in quanto si basa su una serie limitata di
principi e procedure che perseguono l’obiettivo della sicurezza dei
prodotti alimentari senza imporre alle imprese alimentari di rispettare
regole o di seguire procedure non pertinenti».
E ancora «nel determinare se una prescrizione è necessaria, opportuna,
adeguata, sufficiente per raggiungere gli obiettivi del regolamento
occorre tener conto della natura del prodotto alimentare e
dell’uso a cui è destinato», com’è naturale. E ancora «il regolamento
non si applica ai piccoli quantitativi di prodotti primari forniti
direttamente dal produttore al consumatore locale, o a dettaglianti
locali che forniscono direttamente il consumatore locale. In generale
la nozione di piccoli quantitativi dovrebbe essere abbastanza ampia,
in generale le norme nazionali dovrebbero consentire il mantenimento
delle pratiche in uso, purché garantiscano il conseguimento
degli obiettivi del regolamento», cioè che i cibi siano sani, e infine
ancora a proposito di tutto quel pacco di documentazione, di quel
metro cubo di carta che serve tener da parte per documentare
l’HACCP ovvero le 600.000 lire che bisogna sborsare a qualcuno
affinché ve lo faccia, «esistono diverse possibilità di predisporre la
documentazione necessaria. I manuali di corretta prassi operativa
possono contenere in tutto o in parte la documentazione necessaria,
ma le imprese alimentari possono decidere di predisporre una documentazione
specifica adatta alla loro situazione», perfino in una
pagina di quaderno di terza elementare. E avanti e avanti ancora.
Cambia, è ribaltato il mondo con il culo in su. Allora adesso io
credo che sia necessario che queste notizie passino, si diffondano,
i ragionamenti comincino a girare.
Il guaio è l’inerzia della pubblica amministrazione: siamo a
settembre, è in vigore dal 1 gennaio e continuiamo a fare le autorizzazioni
sanitarie, continuiamo a fare le visite, continuiamo a
fare le multe, i NAS continuano, allora bisogna imporre altri ritmi
perché vedete la Cina è vicina non nel senso maoista della parola,
ma nel senso capitalista della parola, e corrono come lepri e noi
stiamo qui, capito come stanno le cose?
Intervento tenuto nel settembre 2006 alla Fira de’ Sdaz (Fiera dei Setacci) di
Sasso Marconi durante il Convegno sull’Utilità delle Certificazioni, organizzato
da Pierpaolo Lanzarini assessore all’Ambiente di quel Comune.