Biomimesi: la tecnologia più innovativa ha miliardi di anni
di Stefano Gulmanelli - 22/11/2008
E’ la disciplina che cerca risposte a una domanda cruciale per qualsiasi approccio voglia definirsi “sostenibile”: “Cosa farebbe la Natura in questo caso?”. Si chiama biomimetica e invita a cercare soluzione ai problemi produttivi e tecnologici attraverso quello che Janine Benyus, biologa e autrice del libro Biomimicry (tradotto anche in cinese), definisce “uno straordinario laboratorio di ricerca e sviluppo funzionante da 3,8 miliardi di anni: la Natura”. Basterebbe infatti che imparassimo a immagazzinare energia come fanno le foglie, tessere fibre nel modo in cui sanno i ragni, produrre ceramiche alla maniera delle ostriche, filtrare l’acqua come accade nelle paludi (e l’elenco potrebbe continuare a lungo) per far sì che la nostra “impronta ecologica” – ormai chiaramente insostenibile per il pianeta - si alleggerisca di molto.
A dire il vero copiare dalla Natura non è un’idea del tutto nuova. Gli aeroplani sono stati concepiti con un occhio alla morfologia degli uccelli e le cornette telefoniche sono state pensate avendo in mente l’orecchio umano. Ci sono esempi ancor più specifici che risalgono già al XIX secolo, come la progettazione nel 1851 del Crystal Palace di Londra, per il quale il botanico Sir Joseph Paxton si ispirò alle “costole” di cellulosa di una varietà di giacinto sudamericano, la Victoria Amazzonica, che conferiscono alla foglia di quella pianta una capacità di resistenza tale da poter sorreggere il peso di una persona di 130 chili. Fu replicando quella tipologia di disegno geometrico a coste flessibili che Paxton concepì la struttura del palazzo londinese destinato a ospitare la “Great Exhibition”. Famoso è poi il caso dell’ormai onnipresente Velcro, ideato dal suo creatore, George de Mestral, dopo una battuta di caccia da cui era tornato con la giacca coperta di lappole (infruttiscenze della Arctium lappa, la bardana): imitando “l’incastro’ fra i minuscoli uncini di quei frutti e i nodi del tessuto, de Mestral diede al mondo un metodo di chiusura che avrebbe surclassato la cerniera.
E man mano che progresso tecnico e osservazione biologica sono progrediti i casi di “biomimesi” si sono moltiplicati. Ne sono esempi alquanto significativi le vernici autopulenti (in sviluppo alla tedesca Sto Ag) che sfruttano il meccanismo dell’idrorepellenza usato dalla foglia di loto per tenersi pulita; l’adesivo studiato all’Università di Manchester contenente milioni di microfibre plastiche la cui funzione di adesività elettrodinamica è simile a quella dei peli presenti sul palmo delle zampe di geco; o il film antiriflesso e antiriverbero di Autotype, sviluppato ispirandosi direttamente alle strutture oculari della falene, evolutesi nel tempo per raccogliere la maggior quantità di luce possibile in assenza di riflesso, evitando così di essere intercettate nella notte dai predatori.
Ma tutte queste meraviglie biomimetiche sono state finora fortuite, casuali (come per il Velcro) o comunque sporadiche, anche perché spesso le tecnologie d’impronta biomimetica restano “nascoste” nei laboratori di biologia, dove vengono scoperte ma non sfruttate, mancando un processo strutturato che consenta di valutarne economicità e implementabilità sì da trasformarle in tecniche produttive vere e proprie.
Proprio per dare sistematicità all’approccio della “biomimicry” la Benyus – in collaborazione con Gunter Pauli, economista visionario, pioniere della sostenibilità (www.zeri.org) - ha concepito e lanciato l’“Innovation per Conservation Fund”, che si farà carico del finanziamento e del lancio industriale (tramite i classici strumenti dello studio di fattibilità e del relativo business plan) di 100 tecnologie biomimetiche – le cosiddette Nature’s 100 Best - che abbiano sostenibilità non solo ecologica ma anche economica. Cento modi di risolvere problemi di processo e produzione partendo dalla famosa domanda: “Cosa farebbe la Natura dinanzi una tale situazione?” Il primo prodotto ad aver beneficiato di tale “procedura” è stato da poco lanciato in Australia: si tratta di un antibatterico (Biosignal, www.biosignal.com) creato copiando la capacità di un’alga, la Delinea Pulchra, di interferire nella comunicazione fra colonie batteriche, fattore decisivo per la progressione di un’infezione.
Ma “Nature’s 100 Best” resta pur sempre uno strumento. Perché la svolta acquisisca massa critica è necessario un salto di paradigma culturale, avverte la Benyus: “Certamente da parte dei consumatori che devono essere pronti a premiare i prodotti che dimostrano la loro sostenibilità”. Ma anche e soprattutto da parte di chi i prodotti li crea e realizza. E qui gli scogli da superare sono ancora tanti: “Una volta, in un incontro con un team di ingegneri di una corporation”, ricorda la Benyus, “stavo sostenendo la causa degli alberi e delle foglie come modello per la produzione di energia. Uno dei miei interlocutori mi guardò con sufficienza e mi disse: ‘Le nostre celle foltovoltaiche sono molto più efficienti di una foglia d’albero”. Era l’obiezione che volevo mi facessero. Risposi: “Ne sono sicura. Se per efficienza s’intende il parametro della quota di conversione di luce solare in energia. Ma posso leggere un libro sotto una fabbrica di celle solari? I materiali con cui create la vostra cella solare sono nient’altro che acqua, anidride carbonica e una manciata di minerali disciolti nel terreno? La produzione avviene nel totale silenzio con cui l’albero fa crescere le sue foglie? Quella cella solare provvede alla sua stessa manutenzione come fanno le foglie? Rilascia ossigeno per i viventi?” Il silenzio era totale e spesso, ricorda la Benyus quando, in nome della sostenibilità, decise di assestare il colpo definitivo all’orgoglio della platea dei ricercatori aziendali: ”E, soprattutto, alla fine della sua vita, la vostra cella solare si trasforma in materia nutritiva per il terreno?”.
da nomads.it