Una pagina al giorno: una casa stregata, di Tommaso Landolfi
di Francesco Lamendola - 17/12/2008
Dal capitolo undicesimo del «Racconto d'autunno» di Tommaso Landolfi (Milano, Rizzoli, 1975, pp. 87-91):
«Decisi di por mano al secondo zolfanello, e lo accesi con infinita precauzione, poiché il terzo volevo assolutamente serbare per il ritorno. La breve luce mi rivelò un'angusta grotta, le cui pareti mostravano, peraltro, qua e là, la mano dell'uomo in rinforzi di muratura, in blocchi di pietra inseriti a forza nei fessi della roccia e in altre opere intese a rendere più sicuro il luogo contro ogni tentativo d'evasione di chi vi fosse rinchiuso. Esse pareti poi, e particolarmente il suolo e il cielo, presentavano il più curioso e tetro spettacolo che io abbia mai veduto, erano cioè coperti di palle, filamenti, vesciche, bozzoli, bubboni (e non so più come chiamarli) di varie dimensioni, bianchi e boffici, che presi dapprima per funghi, che erano invece mostruosi fiori di muffa; che, ad afferrarli, si dissolvevano totalmente in un velo d'umidità sulla palma.
Quegli schifosi vegetali avevano distratta la mia attenzione al punto che solo quando lo zolfanello languì, e subito si spinse con un ultimo bagliore dello stecchino carbonizzato, affigurato l'oggetto più interessante di quel carcere. Dico che, alla mia sinistra contro la prete, vidi fuggevolmente un grosso anello di ferro da cui pendeva un pezzo di catena massiccia e rugginosa, e fin qui nulla di strano; lo strano si era invece che su quest'anello poggiava qualcosa come un mazzolino di fiori, disposti approssimativamente a corona. Fiori dì dentro? E, per colmo di sorpresa, a toccarli sembravano freschi.
Ero infra due, incerto cioè se sacrificare anche il terzo zolfanello e affidarmi unicamente al tatto per il ritorno, o se abbandonare la mia indagine. Ma questo elemento di essa appariva troppo impensato e importante: senza esitare, accesi.
Erano fiori davvero e davvero freschi, roselline d'autunno selvatiche o inselvatichite, quelle che contemplavo con religioso terrore; rammentai infatti vagamente d'aver veduto, nel giardino di Renzo davanti alla casa, due o tre di tali cespi. Che cosa pensare di ciò? Era quanto non sapevo in nessuna maniera. E ormai il silenzio e l'aria d'avello di quel sotterraneo, coi suoi misteri, principiavano a toccarmi non per burla i nervi: mi ritirai in gran fretta..
Le mie emozioni di quel mattino non erano però finite. Abbandonando l'incerto chiarore laggiù diffusa dalla crepa, dovevo ora percorrere, come si rammenta, nella più completa oscurità un tratto piuttosto lungo e non poco accidentato. Ebbene, avevo appena cominciato a salire l'infima scaletta, che mi parve di udire un leggerissimo scalpiccio in cima a questa. Di nuovo il vecchio o, peggio ancora, i suoi cani, spintisi per un caso fin lì? M'inorecchii: sembrava pesta umana, benché non di persona in babbucce. E se non il vecchio, di bel nuovo, chi? E se il vecchio; perché pareva adesso fuggire innanzi a me? E, se s'era avanzato fino a un certo punto di quel sotterraneo, fino a pochi passi da me, per qualche sua ragione e ignaro del tutto della mia presenza, perché non lo avevo udito primo? Non sapevo ad ogni modo se ripiegare nella galleria dove sarei stato almeno assistito da quella scarsa luce, per il caso che avessi dovuto difendermi contro qualcuno o qualche cosa; soprattutto ero incapace di formulare un'ipotesi qualunque. Ma la pesta si era rapidamente allontanata e, considerando quest'unico fatto positivo, decise di proseguire, colla più rande cautela.
Raggiunto finalmente il sommo della scala, udii daccapo il rumore. Stavolta non potevo aver dubbi: era una pesta umana, che con sorda eco il cubicolo in pendio ripercoteva di parete in parete. Essa suonava assai frequente, come la persona corresse, e assai lieve, come questa fosse di poco peso. Particolarità che mi stupirono: quello, non l'avrei detto il passo d'un vecchio, sia pure ben portante qual'era il mio ospite.
Lo scalpiccio non pareva precedermi di gran tratto, sebbene potesse in ciò ingannarmi la suddetta eco e, se mi fermavo, si faceva meno frequente, per arrestarsi poco dopo del tutto; se procedevo, serrava il ritmo. Esso era inoltre alquanto vario, fatta anche la parte al rimbombo e alla natura del terreno; quasi la persona corresse, come dire?, con una certa volubilità. Se almeno avessi avuto ancora i miei zolfanelli! Ché certo li avrei accesi, malgrado tutto. La mia curiosità infatti, o quello che poteva essere, per la cecità medesima in cui mi dibattevo, era diventata furiosa e disperata, aggressiva. Sconvolto, dico e incurante degli eventuali pericoli, mi buttai a corsa anch'io, in punta di piedi, coll'idea di afferrare la persona fuggente.
Ma costei, oltre a conoscere il luogo, doveva essere molto di me più agile, perché udii la pesta allontanarsi rapidamente verso l'alto, e quindi spengersi; la mia intenzione, in ogni caso, era stata penetrata. Sbollito e stordito, giunsi a cervello e mani vuote a pie' della seguente scaletta, dove si sa che arrivava un po' di luce dalla canova soprastante.
La mia avventura, o meglio la prima parte di essa, era finita senza che io cavassi un ragno dal buco. Persistendo ora a credere che il fuggitivo fosse il mio ospite, che senso, in nome di Dio, poteva avere quella folle corsa nelle tenebre? Né era più da pensare che egli corresse per i fatti propri; evidente invece era apparso che fuggiva e mi sfuggiva.
Rimandai le considerazioni a miglior tempo; cominciava infatti dell'avventura la seconda parte, la quale anche mi serbava una scoperta, se così si può chiamare un ritrovamento da cui (come da tutti gli altri) non seppi cavare alcun preciso costrutto. Dovevo adesso rifare il cammino percorso in principio, ma senza ricalcarlo pari pari, al fine d'evitare le stanze abitate allora occorsemi; o, meglio, cercare indipendentemente altra via verso l'esterno, donde rientrando mi sarebbe stato più facile giustificare la mia assenza.
Qui sì che mi persi in un laberinto di stanze e di passaggi e ripostigli e corridoi e scale, alcuni palesi, altre segrete o che lo erano state un tempo. Basti dire che mi ritrovai un paio di volte nella soffitta, un suggestivo luogo pieno di vetusti oggetti, inutili e curiosi, , e una addirittura sul terrazzo merlato. Mi sembrò infine d'aver trovati il filo d'Arianna, e comincia a seguire certo cammino che mi pareva il giusto. E a questo punto incappai nuovamente in una camera che pareva abitata, una minuscola camera, o gabinetto, al secondo piano.
Anche di quella, come dell'altro dov'ero stato sorpreso dal vecchi, il general colore era il giallo; ma i pochi mobili e le tappezzerie apparivano meglio conservati. Su un tavolino lucido, con uno specchio di Venezia e un pastorello di Capodimonte, giaceva un terzo oggetto che attrasse alla prima i miei sguardi: un vezzo di topazi. E stavolta lo conobbi senza esitare.
Stavolta, però, non indugiai a contemplarlo: a che sarebbe servito? Dovevo invece evitare altre sorprese e serbarmi la maggior libertà d'azione che potessi. Così quella donna inafferrabile (inafferrabile anche in me stesso) mi forniva un'altra testimonianza del suo soggiorno, attuale o passato, nel cupo maniero. Che potevo fare, sul momento, se non accoglierla con devozione? E in cuscinetto di raso azzurro ricamato, da parar gli urti dell'uscio contro il muro, pendeva dalla maniglia che ora impugnavo, e un mazzetto di fiori appassiti era infilato fra i cordoncini. Il caso sembrava mandarmi sempre più accosto alla fonte prima se mi è permesso esprimermi così, di quel giallore, in luoghi sempre più impregnati di lei; e anche del suo profumo, lì più forte. Ma, a ben fiutarlo: profumo di persona vivente o di cose morte?
Languido e commosso, ancor più smarrito pervenni da ultimo all'atrio dov'era la scala di legno che tutti i giorni salivo e scendevo, in posti dunque a me familiari; donde mi riuscì raggiungere il cortiletto di pietra e infine, scavalcando un muro, l'esterno. Rientrai con un gran giro e comparvi nella sala; il vecchio, che era già a tavola, mi lanciò un lungo sguardo sospettoso, ma non disse parola.»
Queste poche pagine possono dare un'idea dell'atmosfera di cupo mistero e di angosciosa solitudine che percorrono tutto il «Racconto d'autunno» di Tommaso Landolfi, uno dei maggiori outsider della nostra letteratura e l'unico che abbia coltivato principalmente il filone gotico e del mistero; nonché fornire un saggio della sua scrittura, strana e volutamente arcaica, quasi legnosa, che ben riflette quella dimensione atemporale e indefinibile che connota lo stile del Nostro.
Cupa, disperatamente triste e oscuramente minacciosa è l'atmosfera che pervade il breve romanzo, scritto nel 1947, con la ferita nel cuore ancora fresca della scellerata distruzione, da parte delle artiglierie americane, della millenaria abbazia di Montecassino e dei luoghi più cari dell'infanzia di Landolfi, che egli visse (è un'espressione che ricorre, appunto, in quest'opera) come una vera e propria profanazione.
Inoltre, si tratta di un'opera da cui è del tutto assente l'ironia, che, negli altri romanzi e racconti di Landolfi (a cominciare dalle prime due opere, il «Dialogo dei massimi sistemi», del 1937, e «La pietra lunare», del 1939 (quest'ultimo, probabilmente, il più noto al grande pubblico), alleggerisce il clima allucinato e sdrammatizza le situazioni.
La trama è piuttosto scarna.
Nell'autunno del 1943, mentre un esercito «detto liberatore» avanza da una parte, e un altro, «chiamato occupante», si insedia dall'altra (ma sia l'anno, che l'identità dei due esercito, pur facilmente identificabili, non vengono detti esplicitamente), il protagonista, che è lo stesso io narrante, giunge, girovagando per le montagne di una regione imprecisata, ad una strana e cupa dimora, che sorge isolata in luogo discosto da ogni centro abitato. Un sottile filo di fumo, uscendo dal camino, sembra indicare che qualcuno deve trovarsi all'interno.
Renitente alla leva e membro, sia pure saltuario, delle bande partigiane, il giovane - che è appena sfuggito ad un rastrellamento -, esausto e inzuppato dalla pioggia, bussa più volte per chiedere ospitalità per la notte; ma nessuno gli apre. Fatto il giro della casa, constata che non esistono porte o finestre che possano cedere ai suoi sforzi; solo, da una finestra protetta da una inferriata - l'unica illuminata - scorge una stanza ammobiliata, con un piatto fumante in tavola, e due giganteschi cani che montano la guardia.
L'uomo torna a bussare ai vetri, ma con il solo risultato di provocare una rabbiosa reazione da parte dei due cani, negli occhi dei quali - tuttavia - gli sembra di leggere, oltre alla ferocia, una cupa tristezza, anzi, una vera e propria disperazione.
Nessuno compare e, per parecchio tempo, egli almanacca su come liberarsi di quei due animali per poter penetrare nella casa, ormai pervaso da una sorta di orgasmo e deciso a qualunque gesto pur di farsi accogliere dai misteriosi abitanti di essa. Finalmente, dopo molti tentativi e molta incertezza, il fuggiasco, che è armato di un fucile da caccia, riesce a forzare un ingresso e si trova all'interno: i cani stanno per slanciarsi contro di lui, allorché vengono trattenuti da un vecchio di circa settant'anni, la figura ancora eretta, l'aria triste e diffidente, che gli domanda chi egli sia e perché sia entrato a forza in casa sua. Il suo modo di esprimersi, i suoi abiti e le sue abitudini rivelano che deve trattarsi di un nobile, che vive isolato lassù, lontano dal mondo.
Il giovane si presenta e domanda ospitalità, spiegando la difficile situazione nella quale si trova; e il vecchio, sia pure a malincuore, accetta di ospitarlo per quella notte.
Il mattino dopo, svegliatosi dopo un profondo sonno riparatore, il giovane fa capire al vecchio, più che mai impaziente di vederlo partire, che desidera potersi trattenere qualche altro tempo in quella casa: un forza misteriosa ve lo tiene avvinto, insieme alla consapevolezza che un enigma deve nascondersi fra quei muri antichi, in quella stanze buie, avvolti da una atmosfera senza tempo, che è al tempo stesso inquietante e affascinante.
Passano i giorni e il protagonista, ignorando l'evidente insofferenza del vecchio, che scambia con lui solo pochissime parole ma, in compenso, lo sorveglia continuamente, come se temesse di vederlo violare un qualche suo indicibile segreto, sempre più ha la certezza che la casa sia abitata anche da altre presenze.
Un meraviglioso ritratto femminile (reminiscenza dell'omonimo racconto di Puškin), in particolare, esercita su di lui una inspiegabile attrazione; che diventa oscura certezza dell'esistenza della donna raffigurata, allorché, sparsi nelle varie stanze, egli vede alcuni dei gioielli e degli ornamenti che adornano la dama misteriosa.
Senonché, gli abiti non lasciano dubbi sul fatto che il ritratto di quella splendida giovane, che sembra guardare con occhi indecifrabili l'osservatore, risale almeno a mezzo secolo prima; e, inoltre, alcuni indizi sconcertanti lasciano pensare che ella, se pure è viva, non sia una creatura di carne e ossa, ma di altra natura.
Una notte, ad esempio, il giovane, destatosi dal sonno, ode come un respiro nella stanza buia (nella casa non vi sono lumi, tranne l'unica lucerna, che il vecchio tiene sempre con sé) e alcuni inspiegabili rumori; levatosi, non trova nessuno, e tuttavia è certo di non essersi sbagliato. Il mattino dopo, con la luce del giorno, egli tenta di penetrare nella stanza accanto, della quale, però, non trova l'ingresso; e, solo dopo un incerto andirivieni lungo stanze disabitate e tristi corridoi, riesce ad entrarvi, scoprendo così che una finta parete dà accesso alla camera nella quale egli dorme, per mezzo di un antico armadio.
Il vecchio, frattanto, assume, giorno dopo giorno, un atteggiamento sempre più sospettoso e sempre più preoccupato.
Dopo aver chiesto inutilmente al giovane di andarsene, subisce la sua decisione di trattenersi ancora, appellandosi tuttavia - con un linguaggio magniloquente e, nello stesso tempo, fin troppo evidentemente sincero, per non dire angosciato - al suo senso dell'onore, affinché rispetti gli obblighi dell'ospitalità; e gli fa intendere, con velate parole, di non osare immischiarsi in cose che non lo riguardano.
Ma, ormai, la partita in corso fra i due uomini è divenuta quasi a carte scoperte: l'ospite intuisce che una presenza femminile si cela in quella dimora, al punto che, talvolta, può perfino percepirne l'odore; il vecchio, per contro, sempre più si chiude in se stesso e si apparta per lunghe ore in qualche misterioso recesso; contemporaneamente, però, tenendo d'occhio le mosse del suo indesiderato e invadente inquilino.
Poco alla volta, la tremenda verità si rivela allo stupefatto e atterrito protagonista: il vecchio è un negromante che pratica la magia e l'evocazione dei morti; e che, nel corso di una blasfema cerimonia nelle stanze più interne della casa, supplica la donna misteriosa - evidentemente morta da molto tempo - di ritornare a lui.
Ci fermiamo qui, per non sciupare al lettore, che non avesse ancora accostato questo libro di Tommaso Landolfi, il piacere della scoperta e l'emozione della drammatica, inattesa conclusione. Ci limitiamo a dire che una presenza femminile abita realmente l'antico palazzo, e che essa segnerà in maniera indelebile la vita del protagonista; ma non aggiungiamo altro.
Le pagine che abbiamo ritenuto di presentare, quali invito alla lettura integrale del romanzo, si riferiscono alla scoperta casuale, da parte del protagonista, dei sotterranei della dimora, nei quali finisce per penetrare mentre, esplorando le stanze interne, vede sopraggiungere il vecchio con i suoi temibili cani e, temendo di essere scoperto, si rifugia, una camera dopo l'altra, fin nelle scale che conducono in basso, nelle viscere della montagna.
Laggiù, quasi completamente al buio, egli ode dei passi rapidi e leggeri e si rende conto che qualcuno - qualcuno o qualcosa - si trova laggiù, insieme a lui, a poca distanza da lui; che, probabilmente, lo sta osservando, lo sta spiando; che la soluzione del mistero è, dunque, quasi a portata di mano: e, tuttavia, gli sfugge inesorabilmente, mentre un senso di oscuro malessere s'impossessa di lui e lo riempie di un arcano sgomento.
Si tratta di un racconto ricco di significati allegorici, a cominciare dalla guerra, metafora della crudele insensatezza degli uomini, alla casa stessa, simbolo del labirinto e, quindi, anche del faticoso peregrinare dell'uomo nei meandri dell'esistenza, nei quali si muove a tentoni come un cieco, senza riuscire a intravedere un raggio di luce.
E tutta la vicenda, più in generale, si direbbe una allegria della precarietà della condizione umana: giacché questo è sempre stato il tema più caro alla poetica di Landolfi, insieme alla nostalgia dell'amore perfetto, appagante, rasserenante - di cui pure, nel «Racconto d'autunno», vi è un esplicito rimando nella elusiva presenza femminile che impregna di sé tutta la casa e che il protagonista insegue disperatamente, a rischio di smarrire la ragione, nella sua disperata e affannosa ricerca.
Concludiamo questo invito alla lettura di Tommaso Landolfi riportando alcuni passaggi della «Nota introduttiva» di Carlo Bo, uno dei maggiori critici letterari italiani del secolo appena trascorso (Op. cit., pp. III-IV):
«A Landolfi è riuscita un'impresa che possiamo ben dire unica ai nostri tempi: non fa parte di nessuna istituzione, non ha un mestiere se non quello dello scrittore e, per giunta, esercitato in quella maniera artigianale e aristocratica come poteva fare per l'appunto un Barbey d'Aurevilly, non obbedisce a nessun codice, non segue riti di nessun genere, un solitario, uno che vive davvero in un'isola e ogni tanto affida al mare dei piccoli messaggi sotto forma di divertimento, fra l'irrisione e la disperazione ma sempre con un intento ben preciso, proteggere la propria libertà, in modo da consumare fino in fondo la propria desolazione., C'è una grossa prete di gelosia in questa lunga caccia al minimo, in questo disegno di perfetta riduzione al nulla e in tale ambito trova la sua sede naturale il grande sentimento, il sentimento primo della sua vita: l'amore Nel "Racconto" questo sottofondo musicale è fin troppo evidente, si direbbe che l'intera favola si muova per questo scopo, fra chi vuole impedirgli di toccare la sponda dell'amore e chi invece riesce a darglielo. Il primo Landolfi non fa che girare intorno a questo problema capitale, legare l'amore, fuori del tempo, all'idea dell'unica libertà consentita agli uomini (…) Landolfi è uno di quegli scrittori che si divertono a nascondere lo scopo della loro navigazione e però insistono sui particolari, sul clima, sugli eventi, puntando direttamente sull'esasperazione, quasi volesse lasciare intendere che si tratta di uno scherzo; uno scherzo adeguati alla vanità del tutto e all'inutilità dei nostri sforzi. Non è così, c'è infatti ne romanticismo landolfiano una ben più forte coscienza della vita di quella che, di proposito, ha eluso o velato nei suoi racconti: si può dire tutto, si può tirare avanti con proposte mistificanti, con atteggiamenti, basta non toccare il punti vitale , basta non prendere la mano della disperazione senza scampo. Non inganni però questo prezioso giuoco d'artifizio; nella famosa fotografia che per anni ha accompagnato i libri di Landolfi, in quell'uomo che nasconde la faccia dietro la mano, c'è una grande verità appena giuocata, c'è il segno del segreto.»
Possiamo quindi concludere dicendo che Landolfi (nato a Pico, in provincia di Frosinone, nel 1908 e morto a Roma nel 1979), sulla scia dei suoi amati maestri russi - Gogol' specialmente - e di altri scrittori del misterioso e del grottesco, come Poe, Kafka e Rabelais, ha saputo trattare con rara incisività e con assoluta coerenza il tema dell'incontro e dello scontro fra istinti e ragione, tra inconscio e consapevolezza.
Pochi altri scrittori italiani, tutti presi dall'urgenza di problemi ritenuti ben più urgenti e vitali - come quelli politico-sociali, cari alla stagione neorealista e, in genere, alla concezione dell'intellettuale organico di gramsciana memoria (come se per essere 'organici' si dovesse essere per forza realisti) - hanno avuto lo stesso coraggio della solitudine e dell'aspra sincerità, pur dissimulata dietro un gioco allusivo di labirintici rimandi e corrispondenze.
E, se non altro per questo coraggio della solitudine, impermeabile a tutte le mode e tetragono a tutte le parole d'ordine, Landolfi spicca in un panorama di scrittori che, al contrario, hanno cercato fin troppo spesso il plauso facile e carezzato i gusti più corrivi di un pubblico dal palato grosso (si pensi, per citare un titolo fra i tanti, a «Io e lui» di Alberto Moravia, vero inno alla pornografia da quattro soldi, contrabbandata da trasgressione libertaria e, magari, intelligentemente ironica).