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Ogni uomo nella sua notte se ne va verso la sua luce

di Francesco Lamendola - 31/12/2008

 

Ci sono due splendidi versi di Victor Hugo che recitano così:

«Chaque homme dans sa nuit
      s'en va vers sa lumière»

ossia: «Ogni uomo nella sua notte / se ne va verso la sua luce».
Il romanziere Julien Green li ha ripresi nel titolo di uno dei suoi libri più noti: «Chaque homme dans sa nuit», del 1960.
Solo un grande poeta poteva dire così tanto, utilizzando così poche parole; e Hugo, che, come romanziere, eccede spesso nell'enfasi oratoria, qui sa essere di una stringatezza e di una concisione veramente mirabili.
Ci vorrebbero pagine e pagine per chiosare adeguatamente questi due brevi versi; noi non pretendiamo tanto: ci limiteremo ad alcune semplici riflessioni.
La vita terrena è un gioco di chiaroscuri: come quel trenino che s'inerpica sulle montagne ed entra ed esce in continuazione dalle gallerie scavate nella roccia. Quando ne esce, un panorama stupendo si spalanca allo sguardo: la valle, le case, i laghi, su di un lato; i boschi, i prati e i monti bianchi di neve, sull'altro; ma, quando viene inghiottito dalle caverne, ogni cosa piomba nell'oscurità e il rimbombo della sua corsa si fa cupo, ossessionante. Si vorrebbe scendere, ma non si può; quel che rende sopportabili i lunghi tratti al coperto è la certezza che, presto o tardi, torneranno il sole e la luce e, con essi, il meraviglioso spettacolo della natura alpina.
Le cupe gallerie ed i gioiosi tratti scoperti non sono distribuiti in egual misura nella vita di ciascuno:  talvolta prevalgono le prime, talaltra i secondi; ma nessuno ha il potere di eliminare del tutto le zone d'ombra, i momenti angosciosi e difficili. Certo, è anche questione di imparare dalla vita stessa, di saper fare le scelte giuste e, soprattutto, di scoprire il segreto del cuore sereno; ma nessuno, ripetiamo, può allontanare completamente l'amaro calice della tristezza, del dolore e della solitudine non voluta (mentre la solitudine liberamente cercata è un cibo squisito per l'anima e una sorgente di perenne rigenerazione spirituale).
Capita che, nella vita di alcuni, le tenebre tendano a prevalere sulle luci, sprofondandoli in una grigia spirale di scoraggiamento e depressione la quale, per un gioco perverso di cause ed effetti, tende ad autoalimentarsi e a perpetuarsi, portando ancora dolore, ancora tristezza, ancora solitudine; e vi sono momenti nei quali l'anima geme sotto il peso eccessivo, è afferrata da un senso di nausea e di sgomento e teme di non farcela più ad andare avanti.
C'è una struggente canzone di Fabrizio De André, una canzone pervasa da un profondo sentimento religioso, dedicata alla morte prematura di un grande poeta italiano, che è passato in mezzo a noi senza che i critici blasonati e gli intellettuali alla moda quasi se ne accorgessero: il cantautore Luigi Tenco. In essa si effonde un immenso sentimento di amore e di dolcezza per quelle anime che, assalite da una crisi di sconforto, non hanno più retto alla tensione e hanno deciso di por fine all'esperienza della vita terrena (lasciamo qui impregiudicata la questione storico-giudiziaria delle vere modalità di quella morte, su cui esistono così tanti dubbi e perplessità, perché la cosa esorbita dal campo della presente riflessione).
Sta di fatto che, talvolta, il peso esistenziale diviene così opprimente, da togliere la speranza di poter proseguire il cammino e da trasformare la vita interiore in un autentico dramma.
Non è affatto vero che ciò accade solo a quanti non possiedono una giusta consapevolezza della natura umana, della sua ragion d'essere, del suo ultimo destino: chiunque può conoscere l'agonia dello sconforto, anche quanti possiedono una solida fede.
Ci viene narrato che anche Gesù Cristo, nell'Orto degli Ulivi, ebbe una tale, profonda crisi di sconforto, simile ad una agonia; anche se, poi, la risolse vittoriosamente, con un supremo atto di fiducia in Dio.
Lo storico Giuseppe Ricciotti ha saputo cogliere e descrivere il carattere estremo di quella crisi nella sua celebre «Vita di Gesù Cristo» del 1941 (edizione Mondadori, 1962, 1974, vol. 2, pp. 633-34):

«Al momento poi di allontanarsi, egli prese con sé i tre testimoni della trasfigurazione, i prediletti Pietro, Giacomo e Giovanni, conducendoli verso il luogo ove voleva pregare.
Discostati che furono, i testimoni dell'antica gloria compresero subito che adesso avrebbero assistito a ben altra manifestazione, perché a un tratto Gesù "cominciò a sgomentarsi e ad angosciarsi". Rivolto poi ai tre, allorché avranno tentato di consolarlo,  esclamò: "Tristissima è l'anima mia fino a morte! Restate qui, e vegliate con me!"
Anche quella compagnia, però, non gi dava sollievo. Nella sconfinata angoscia che l'opprimeva, egli cercò ancora di restar solo per pregare.
Facendo uno sforzo immenso, con il volto illividito, le ginocchia vacillanti, le braccia tese in cerca di sostegno, egli "si staccò da essi quanto un lancio di sasso", e alfine stremato "cadde sul suo volto pregando". Non era il modo di pregare solito ai Giudei, che stavano ritti, era l'accasciarsi a terra di chi non ha più forza di reggersi in piedi e vuole pregare prostrato giù nella polvere."
Intanto i tre testimoni, certamente turbati anch'essi, osservavano lo stramazzato gemente: nella serenità plenilunare, alla distanza forse di una quarantina di passi ("un lancio di sasso"), essi potevano udire e vedere distintamente tutto. Lo stramazzato gemeva: "Abba (Padre)! Tutto è possibile a  te! Allontana questo calice da me! Tuttavia (sia fatto) non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) tu!". Il "calice" era un'espressione metaforica, frequente negli scritti rabbinici per designare la sorte assegnata a qualcuno; la sorte qui prevista da Gesù è la suprema prova attraverso la quale il Messia deve pervenire al trionfo, è l'ora decisiva in cui il chicco di grano caduto in terra si disfà e muore ma per sprigionare nuova vita.»

Dunque - e indipendentemente da ciò che si pensa della figura di Gesù Cristo, come credenti o come non credenti - resta il fatto che anch'egli fece l'esperienza, umanissima, di una suprema crisi di angoscia e di sconforto; tanto che, secondo l'evangelista, il suo sudore si trasformò in minute gocce di sangue che cadevano a terra.
A ciascuno la sua notte, appunto.
Ma a ciascuno, anche, la ricerca della sua luce: della luce che splende per lui e che non è mai uguale a quella di un altro uomo. Non vi sono due esseri umani che conoscano la medesima notte, né che siano sollevati dalla scoperta della medesima luce.
La luce dell'anima è un'esperienza soggettiva per eccellenza: non ha niente a che fare con la luce studiata dai fisici e che pure è in genere usata come simbolo e metafora di quella. La luce interiore può splendere anche nella più fitta oscurità materiale: non è una cosa, ma una esperienza dell'anima; e le esperienze dell'anima sono - nella loro essenza - inesprimibili.
Tutta la nostra vita non è che un avanzare verso la luce, un bramare la luce, uno struggersi nella sua attesa, nella sua ricerca e nella speranza di potervisi immergere e dissetare.
L'anima ha sete della luce, così come la cerva anela ai rivi delle acque: è una legge cosmica, un istinto irrefrenabile quello che la sospinge e la proietta come fuori di sé. L'anima è assetata della luce quanto lo è il nostro organismo del chiarore diurno, che mai non ne sarebbe sazio e mai si potrebbe adattare a vivere nella perpetua oscurità.
Chi, come noi, ha fatto l'esperienza della speleologia, sa quali sensazioni si provano allorché, dopo le lunghe ore senza tempo trascorse nella discesa di pozzi profondissimi, nell'esplorazione di cunicoli e gallerie e, infine, nella risalita verso il cielo, i primi raggi di sole tornano a brillare vittoriosamente e fugano le tenebre del mondo sotterraneo.
È come una rivincita della vita, un trionfo della vita sulla morte: perché, per quanto infinitamente affascinante possa essere il mondo delle grotte - con le sue maestose voragini, con le sale riccamente istoriate di stalattiti e stalagmiti, con gli strani colori delle rocce che si rivelano nel cono di luce delle lampade - nulla può eguagliare in bellezza, alla fine, il riemergere nel mondo illuminato dai dolci raggi solari e rallegrato dal verde della vegetazione e dall'azzurro del cielo solcato di nubi.

Questa, dunque, è la certezza che deve sorreggerci nei momenti di difficoltà, quando il viandante ha i piedi feriti e dispera di poter proseguire.
I credenti la chiamano preghiera; ma li si può chiamare in molti modi.
È un colloquio dell'anima con se stessa, con le altre anime - a cominciare da quelle delle persone care, che ci hanno materialmente lasciato - e con l'Essere, dal quale proveniamo e verso il quale siamo diretti, per la riunione definitiva.
La certezza è che dopo le tenebre verrà la luce; dopo la sofferenza, la serenità; dopo la solitudine, l'unione; dopo l'angoscia, la gioia della pienezza.
Per usare una espressione oggi perfino abusata, ciascuno di noi - in quanto essere umano - si merita il meglio; ma, prima, bisogna arrivare a capirlo.
È piuttosto frequente lo spettacolo di individui che si dimenticano della dignità e del rispetto dovuto a se stessi e che si immergono nei piaceri più grossolani, abbrutendosi e degradandosi da se stessi: essi ricevono in sé il compenso del proprio errore.
No, l'anima si merita le cose migliori: non può accontentarsi di cose che non siano degne di lei; non può accontentarsi di nulla di meno della vera luce.
Ma, per godere della vera luce, bisogna salire verso le vette: l'anima è fatta per ascendere verso le vette, tale è la sua natura; non per immergersi nelle tenebre. E non può nemmeno fermarsi a mezza costa, dove non batte il sole e dove rischierebbe continuamente di scivolare verso il basso e di  precipitare nel vuoto.
Perciò, coraggio, anima: in piedi! Quando non avrai più la forza di andare avanti, non essere scioccamente superba; non vergognarti di confessare la tua debolezza e la tua angoscia: chiedi l'aiuto, e ti sarà dato.
Una forza benevola scenderà dall'alto e ti sosterrà, ti moltiplicherà le forze, ti rinnoverà il coraggio: farà in modo che tu non inciampi, che tu non cada nei passaggi più ardui. Rimarrà con te e non ti lascerà sola; ti consolerà quando sarai più sconfortata.
Potrà manifestarsi in molti modi: ad esempio, attraverso la parola buona di un amico o, addirittura, di uno sconosciuto. Ma non saranno stati casuali i passi che ti avranno condotto ad incontrarli: sarà stata quella forza a metterti sulla loro strada, o a mettere loro sulla tua.
È una forza soprannaturale, ma che agisce per mezzo di situazioni ordinarie.
Non è miracolosa nel senso spettacolare del termine: non più di quanto sia miracoloso lo sbocciare delle primule, a marzo, si fianchi solatii delle colline. O forse è miracolosa, ma noi non abbiamo più occhi per riconoscere il miracolo, anche se lo vediamo tutti i giorni.
In ogni caso, essa interviene in aiuto dell'anima che a lei si rivolge e, spesso, anche di quella che, per varie ragioni,  non è capace di farlo.
Forse che saremmo stati inviati a percorrere la salita, se nessuno si prendesse cura di noi, quando ne abbiamo bisogno?
Forse che proveremmo questa divorante nostalgia della luce, se il nostro destino fosse quello di uscire dalle tenebre del nulla soltanto per cadere di nuovo, e per sempre, nelle tenebre del nulla?
Su, anima, fatti coraggio: ce n'è, di giorno, che ancora deve sorgere!
Per noi non c'è luce, se non quella in cui siamo chiamati ad immergerci, trasfigurandoci in essa.