Doveva essere una fine dolce e assistita: ma Eluana, in quella stanza, è morta tutta sola
di Francesco Lamendola - 12/02/2009
Non c'era nessuno in quella stanza, alla casa di riposo «La Quiete» di Udine, quando Eluana partiva per l'ultimo viaggio.
Ci avevano detto e assicurata che una intera équipe di medici la avrebbe assistita, minuto per minuto, accompagnandola dolcemente verso la fine: invece così non è stato. Nel momento decisivo, lei era sola, completamente sola.
I due medici responsabili se n'erano andati ben lontano, hanno dovuto rintracciarli i carabinieri: cosa ci sia dietro un simile comportamento, quale tipo di strategia giudiziaria, ognuno lo può giudicare da sé.
Ma una cosa è certa: nessuna presenza amica era accanto al letto di Eluana; nessuna mano teneva la sua mano; nessuna voce le sussurrava parole amorevoli. È questa la famosa battaglia di civiltà di cui parlano tanto i radicali?
Se fosse rimasta a Lecco, Eluana sarebbe morta (quando fosse giunta la sua ora) circondata da persone affettuose; qualcuno avrebbe condiviso con lei l'incertezza del supremo distacco; qualcuno avrebbe detto una preghiera. Ma, forse, era proprio questo che si voleva evitare.
Il padre di Eluana, che ha rilasciato continuamente interviste e si è presentato continuamente nei salotti televisivi, non c'era nemmeno lui.
Ora dice di voler essere lasciato solo con il suo dolore. Spiacenti, non è possibile. Lui solo, fra i seimila genitori che assistono dei figli in condizioni simili a quelle di Eluana (o figli che assistono i propri genitori), ha voluto fare del proprio caso un evento mediatico: egli ha investito milioni di Italiani del dramma di Eluana, li ha coinvolti sino al fondo delle loro coscienze. Adesso non può dire: «Lasciatemi solo con il mio dolore», perché quel dolore è diventato il dolore di tutti; ed è stato lui a volerlo.
E se molti disapprovano il suo comportamento, e pensano o dicono chiaro e tondo che Eluana non è morta, ma è stata assassinata, hanno tutto il diritto di pensarlo e anche di dirlo.
Alcuni sostengono che non è possibile giudicare la scelta di quel padre, perché solo chi ha provato il suo Calvario potrebbe comprendere le sue ragioni. In base a questo ragionamento, nessuno potrebbe giudicare nessuno, se non è passato esattamente attraverso la medesima esperienze. Può darsi che vi sia una parte di verità in questa idea, almeno a livello teorico; ma, in pratica, essa è fondamentalmente erronea, e per almeno due buone ragioni.
La prima è che, se si dovesse sperimentare direttamente tutto ciò su cui si è chiamati ad esprimere un giudizio, solo il tossicodipendente potrebbe capire veramente cosa sia la droga; solo lo stuprato - e, paradossalmente, lo stupratore - potrebbero capire la violenza sessuale; solo l'omicida potrebbe capire e giudicare la realtà dell'assassinio; e così via. In un certo senso, è vero; ma è altrettanto vero che, se tutti dovessero sperimentare tutto per potersi formare un'idea verosimile della realtà, allora la società umana precipiterebbe nel caos totale e si scatenerebbe ogni sorta di disordine. Viceversa, la società si regge sull'idea che una giuria di tribunale, ad esempio, non debba essere composta di pedofili, per poter giudicare il reato della pedofilia; né di ladri e rapinatori, per essere in grado di giudicare i reati del furto e della rapina.
La seconda ragione per cui è errata l'idea che solo chi ha fatto esperienza diretta di una certa cosa possa esprimere un giudizio motivato su di essa, è che le esperienze umane sono sempre soggettive: nessuno vive la stessa esperienza allo stesso modo di un altro, così nel bene come nel male; e lo dimostrano, nel caso specifico, quelle migliaia di persone che, trovandosi in condizioni analoghe a quelle dei genitori di Eluana, hanno maturato sentimenti e convinzioni del tutto diversi dai loro, per non dire opposti.
Questa riflessione vale, ovviamente, anche nel caso delle esperienze positive. Non occorre essere Bach per apprezzare e godere la musica di Bach; anche se è vero che lui solo, che l'aveva composta, avrà potuto goderla sino in fondo, in ogni più riposta sfumatura.
Tuttavia, non è forse vero che l'ascolto di un brano musicale, o la contemplazione di un'opera d'arte, o anche quella di un paesaggio, susciteranno tante impressioni e tanti stati d'animo diversi, quanti sono coloro che ne fanno esperienza? Anzi, non è forse vero che la medesima persona ricaverà impressioni diverse dalla medesima esperienza, a distanza di tempo? Tutto questo dimostra che bisogna essere molto cauti nell'affermare che solo chi ha sperimentato una certa cosa può capirla veramente; tanto più che capire e giudicare sono due azioni diverse.
Perciò, il dolore del padre di Eluana non può essere adoperato come un argomento per zittire coloro che non hanno approvato la sua decisione. Quel dolore merita certamente un grande rispetto; ma non può diventare una trincea inattaccabile, e tanto meno essere brandito come uno strumento di ricatto morale contro coloro che la pensano in modo radicalmente diverso.
Non sappiamo se ci sarà, o meno, un'inchiesta sulle circostanze in cui si è conclusa la vita di Eluana
Il minimo che si possa dire è che molte cose non sono apparse chiare; non sembra che il famoso protocollo stabilito dalla Corte di Cassazione sia stato rispettato.
La decisione finale avrebbe dovuto essere presa dopo sentito il parere di un comitato bioetico, cosa che non è avvenuta.
La sospensione dell'alimentazione e della idratazione avrebbe dovuto avvenire in maniera molto graduale, mentre è stata brusca ed estremamente frettolosa: come per anticipare le decisioni del Parlamento e per mettere l'opinione pubblica davanti al fatto compiuto.
E c'è è pure il sospetto che le dosi di sedativo per calmare la tosse di Eluana e per calmarle i dolori della disidratazione, siano state somministrate con troppa disinvoltura. Quella morte è avvenuta molto più in fretta di quanto tutti quanti si aspettassero, nel giro di poche ore dopo la sospensione totale dell'acqua e delle sostanze alimentari.
Dicono che proprio questo attesta la precarietà delle condizioni della donna; ma anche questo è un ragionamento aberrante, che può essere perfettamente rovesciato. Quando si tolgono drasticamente l'acqua e il cibo a un essere umano già debilitato, non ci si può certo aspettare che reagisca come farebbe un organismo sano.
Infine, il fatto che tutto sia avvenuto in una clinica privata di cui erano stati affittati alcuni locali, e all'infuori del controllo del personale medico di quella struttura, getta una ulteriore luce di stranezza su di una vicenda che, oltre ad essere sommamente tragica e sommamente triste, di stranezze ne presenta un po' troppe.
Anche dai politici, adesso, viene un invito a smorzare i toni, a ritrovare le ragioni del dialogo e, soprattutto, a non inasprire lo scontro istituzionale.
Spiacenti, ma nemmeno questo è possibile. Quei signori, dell'una e dell'altra parte, hanno voluto cavalcare le emozioni viscerali dell'opinione pubblica; hanno fatto appello ai valori etici supremi; hanno pronunciato parole pesanti come pietre: e non siamo così ingenui da pensare che la loro indignazione fosse del tutto esente da meschini calcoli elettorali.
Berlusconi, per esempio, non ha saputo trattenersi dall'intonare il suo ritornello preferito, la contrapposizione del liberalismo buono (il suo) allo statalismo cattivo (quello dell'opposizione), affermando che il primo corrisponderebbe ad una cultura della vita, il secondo ad una cultura della morte.
Non è così.
Esistono, oggi, nel mondo, una cultura della vita e una cultura della morte, ma non hanno niente a che fare con le categorie politiche e, tanto meno, con quelle partitiche. Il liberalismo «buono» lascia morire di fame, ogni giorno, 30.000 bambini in tutto il mondo. E lo statalismo sarà stupido, obsoleto e inefficiente; ma, di per sé, non è necessariamente qualche cosa di necrofilo. Non è questa la distinzione da farsi tra i due modelli socio-politici.
La cultura della morte è trasversale: attraversa tutti i partiti, tutte le classi sociali, tutte le dottrine economiche e (quasi) tutte le filosofie. Nessuno, partendo da una determinata ideologia politica, può chiamarsene fuori, così come nessuno può rivendicare il monopolio della cultura della vita.
La cultura della vita guarda alla persona, in quanto portatrice di valori; la cultura della morte guarda alle cose, ad un mondo senz'anima, dove tutto è merce o può diventarlo: anche la vita umana. Questa è la vera distinzione fra le due; e non conosce tessere di partito.
Squallido e veramente miserevole è il fatto che, perfino davanti a una vicenda come quella di Eluana Englaro, i nostri politici non abbiano saputo astenersi, per una volta almeno, dal solito giochino della speculazione propagandistica; che non abbiano avuto la decenza, che non abbiano sentito il dovere morale di tacere, o di parlare solo nella misura del necessario.
Quanto ai nostri opinionisti, tuttologi e maestri di pensiero più o meno in sedicesimo, non è che abbiamo offerto uno spettacolo molto più entusiasmante. Anch'essi hanno saputo ragionare solo in piccolo, in base alle loro minuscole parrocchie ideologiche e, naturalmente, alle loro pingui mangiatoie e agli ordini di servizio dei loro padroni e signori che li tengono sul proprio libro paga.
Ma è evidente che, per fare una riflessione morale su un fatto come l'eutanasia, bisogna possedere una certa dirittura morale o, almeno, una certa coerenza. Occorre una spina dorsale ben diritta, non abituata ad inchinarsi secondo le convenienze del momento o secondo i risultati dei sondaggi e degli indici di popolarità.
Gli intellettuali italiani, nel complesso, hanno fornito l'ennesima prova della loro modestissima statura morale e civile.
In realtà, nella vicenda che ha portato alla soppressione di Eluana Englaro si può riconoscere la strategia tipica dei radicali, compresa la loro abilità nel mandare avanti, verso le telecamere, i diretti protagonisti di un certo dramma umano, rimanendosene, loro, nell'ombra, o quanto meno assai defilati, almeno nella fase iniziale.
In questo modo, la vita di Eluana è divenuta oggetto di un vero e proprio colpo di mano, che, profittando di un grave vuoto legislativo, ha fatto sì che lei sola sia stata condannata a morire di fame e di sete, cosa mai accaduta prima e che, non appena la nuova legge sarà approvata dal Parlamento, non si ripeterà mai più.
Il padre di lei ha detto e ripetuto, quasi ossessivamente, che a sua figlia soltanto spetta decidere se e come morire. Ma Eluana non poteva esprimersi: era in coma. Al posto suo, ha parlato lui e ha deciso lui: cosa giuridicamente assurda e moralmente intollerabile. In mancanza di un documento legale, una volontà di seconda mano non dovrebbe avere alcun valore.
E se anche fosse vero che la ragazza aveva espresso, nel corso di una conversazione privata, quella tale volontà, ancora ciò non basterebbe affatto. Si dicono tante cose, parlando con gli amici e coi parenti; specialmente quando si ha vent'anni. Ma non tutte le si pensa veramente: guai se ogni nostra singola frase, pronunciata in privato, tra amici, dovesse trasformarsi in una sentenza di vita o di morte da eseguire su noi stessi. Non stiamo parlando di cose accessorie e secondarie; stiamo parlando della vita.
Qualcuno, infine, ha sostenuto che voler mantenere in vita persone che Eluana è un atto di arroganza da parte dell'apparato tecno-scientifico; che, quando una vita ha compiuto il suo corso, deve essere lasciata andare.
Noi, che da anni ci battiamo contro l'arroganza di quell'apparato (compresa la fretta un po' indecente con cui esso procede all'espianto di organi su corpi ancora caldi e, in qualche caso, suscettibili di ripresa), non ravvisiamo nella vicenda di Eluana questa forma di arroganza.
Al contrario, ci sembra che la vera arroganza sia quella di quei medici i quali, di fronte al mistero di una vita menomata, indebolita, ridotta ai minimi termini, si prendono la responsabilità di spegnerla definitivamente, come se ad essi soli spettasse decidere quando una vita è ancora degna e meritevole di essere preservata, e quando, invece, non lo è più.
Questa, sì, è la forma suprema di arroganza della tecnoscienza, che consiste nel pretendere carta bianca dalla società, circa il destino di vita o di morte delle persone.
Ma se la scienza non è neppure in gradi di dire quando una vita è finita!
Che imparino un po' di umiltà, quei signori; che imparino un poco il senso del limite e il senso del mistero.
Altrimenti, se sarà loro firmata questa cambiale in bianco, prepariamoci alla definitiva dittatura degli scienziati, con diritto di vita e di morte su noi tutti, a loro inappellabile giudizio.