Geronimo: la mia storia
di Marco Iacona - 19/02/2009
Chi avrebbe mai detto che Geronimo (in realtà: Go-khlä-yeh) capo degli Apaches Chiricahua, l’indiano più noto di tutti i tempi insieme a Cochise e a Toro Seduto o Bisonte Seduto, avesse prodotto, prima di morire, una sua personale autobiografia, peraltro stampata anni or sono da Rusconi col titolo quasi fedele de La mia storia? E che essa costituisse ancora oggi – a cento anni dalla sua morte avvenuta il 17 febbraio 1909 – uno dei più preziosi documenti per ricostruire la parabola esistenziale di un grande guerriero?
Beh purtroppo crediamo che davvero in pochi conoscano questi particolari della storia, perché in realtà non sono molti, oggi, a ricordare anzi addirittura a conoscere Geronimo. Simbolo egli stesso, possiamo ben dirlo, di un mondo scomparso sotto i colpi violenti di una modernità deleteria; una modernità che nel XIX secolo avanzava - un po’ qua un po’ là per i continenti - all’ombra di alcune delle ideologie più impensabili, come la conquista della cosiddetta civiltà o spazio civile dovuta all’“inevitabile” progresso del genere umano. Una conquista compiuta in primo luogo a danno di quella stessa natura che d’altra parte gli indiani avevano saputo rispettare con confidata sacralità. Nel frattempo, com’è noto, in altre parti del pianeta, nella nostra Italia risorgimentale ad esempio, si combatteva per la libertà e l’indipendenza.
L’autobiografia di Geronimo è fra le poche testimonianze utili per rievocare gli avvenimenti di una intera epoca, dal punto di vista di quella che fino agli anni ’60-’70 veniva considerata con troppa semplicità la parte sbagliata… Essa divenne libro dopo una serie di passaggi e autorizzazioni. Prima dal capo Apache Asa Daklugie quasi un figlio adottivo di Geronimo, poi da questi al bianco Stephen Melvil Barrett che ne curerà l’edizione. L’autorizzazione verrà nientemeno che dal presidente Theodore Roosevelt.
Nato (forse) nel 1829 nell’attuale Arizona sud-orientale a quel tempo messicana, il destino di Geronimo fu naturalmente quello di un uomo di frontiera in contatto e in urto con nemici d’ogni bandiera. A quasi trent’anni assistette allo sterminio delle sua famiglia ad opera dei soldati messicani. Scese in guerra ribellandosi alle prepotenza dei bianchi fino al 1886 (celebre il suo coraggio, la sua determinazione, la sua intelligenza tattica), quando fu costretto ad arrendersi definitivamente alla potenza delle armi americane. Fu in prigione in Florida poi in Oklahoma – a Fort Sill – dove trascorse la vecchiaia da convertito alla chiesa riformata olandese, divenendo perfino un affarista e a volte una semplice attrazione “turistica”. Non morì da guerriero, cioè sul campo di battaglia, ma da prigioniero di guerra, se ne andò in inverno con una polmonite senza mai poter rivedere i luoghi natii. Aveva 80 anni o più, ed era oramai per alcuni versi occidentalizzato (quasi un cow-boy…). Tuttavia al suo nome è legato l’ultimo vero grande tentativo di resistenza contro l’arroganza e la furbizia statunitense di casa nel mitico west.
Alle vicende della sua storica resa dell’86 - Geronimo era rimasto oramai solo con una manciata di uomini e di donne - nel 1994 Walter Hill dedicherà un film (Geronimo), con Robert Duvall e Gene Hackman sceneggiato da John Milius. Un artista sensibile e molto apprezzato a destra, basti sfogliare il suo curriculum (Un mercoledì da leoni e Conan il barbaro).
Sui resti mortali del capo Apache ci sono anche delle leggende (o forse verità scomodissime). Pare che il suo teschio sia conservato da decenni una setta più meno segreta dal nome poco rassicurante “Skull and Bones” (cranio e ossa), del quale fra gli altri sarebbero parte perfino i Bush (dal nonno di George W. fino all’ex presidente). Secondo le credenze indiane se le ossa di Geronimo non torneranno ove è giusto che debbano tornare, cioè nella sua tomba vegliata da un’aquila in pietra, lo spirito tormentato del grande guerriero Apache non avrà mai pace.
Adesso che i Bush sembrano usciti di scena sarebbe auspicabile un chiarimento (è vero o non è vero quel che si dice?). Se i guerrieri si combattono in vita, è opportuno che gli spiriti si onorino nella morte, a maggior ragione dopo un secolo di acqua passata sotto i ponti d’acciaio della civiltà americana. Parola d’ordine: dignità prima di tutto.
dal Secolo d'Italia