“Per questo anche noi chiamiamo Giano padre, venerando con questo nome il Sole”. Così si esprime Macrobio, per bocca del pontifex Solis Vettio Agorio Pretestato, nei suoi Saturnalia, opera di vasto sapere e alta dottrina composta nel V sec. e.v., chiarendo che l’antico Dio solare dell’età del bronzo Ani si era trasmesso ai romani col nome di Janus. In alcune serie di aes grave (bronzo pesante - le monete pesanti in bronzo dei primi tempi della Repubblica) del Lazio, dell’Umbria e dell’Etruria ricorre su una delle facce, in sostituzione della testa bifronte di Giano, una ruota, il disco del sole o addirittura la testa radiata del Dio. L’iconografia delle monete, da cui traspare con molta evidenza la solarità come principale attribuzione di Ani-Janus attesta ancora nel III sec. a.e.v. una concezione religiosa più vicina a quella originaria, ancora fortemente radicata nelle popolazioni delle campagne. Il culto del Sole appare, infatti, preminente su ogni altro tra le genti italiche sin dalla più alta preistoria. In Sardegna il Sole era la divinità primaziale, identificato e simboleggiato con il toro, come mostrano alcune monete che portano nel verso la rotella solare e il possente animale cornuto. Alcuni nuraghi, costruzioni tipiche della civiltà sarda, sono calibrati in modo che, togliendo la pietra apicale, che alla sommità della pseudo-cupola chiude il vano interno (tholos), il raggio del Sole, che a mezzogiorno del solstizio d’estate penetra nella costruzione attraverso il foro, illumini una nicchia in cui doveva esser posta un’immagine del Nume che appariva essere la sorgente della luce, risaltando in modo mirabile nel resto dell’ambiente immerso in un’oscurità più o meno profonda. La teofania era un evento palese per tutti gli astanti e la circostanza che la divinità si degnasse di visitare il tempio a lei innalzato, il nuraghe, in un solo periodo dell’anno, e cioè nel solstizio estivo, e per un certo lasso di tempo, doveva esercitare un’azione potente sulle genti che vi assistevano e che avrebbero propagato il fausto evento. Un’illuminante connessione del Dio Janus con la civiltà nuragica è offerta dalla presenza in Sardegna delle domus de Janas. La parola jana, che attualmente riveste il significato di fata, è l’epigone semantica di una Dea Jana, corrispondente femminile di Janus, di cui parla Macrobio, esprimente il parallelismo della identificazione di Janus come divinità solare in Apollo e di Jana nella Dea lunare Diana. Janus nella festa dedicatagli nel calendario romano al 9 gennaio (Agonium) è associato a Juno, suprema Dea femminile, in un arcaico legame che risale alle origini pre-latine in cui l’etrusco Ani ha come paredra Uni. La diade etrusca Ani-Uni è il riflesso di una devozione ancora più antica, pre-etrusca, che affonda le sue radici nell’Italia primigenia. L’Ani etrusco della protostoria è il continuatore del Dio solare della civiltà neolitica e del bronzo. In più di un centinaio di scene ritratte nelle incisioni rupestri della Valcamonica, in Lombardia, risalenti al II millennio avanti quest’era, il motivo del Sole appare illustrato nelle sue attribuzioni complesse. Si riconoscono anche costruzioni col disco solare, presumibilmente capanne dedicate al culto. Dalle incisioni camune emerge anche uno stretto rapporto tra il sole e il cervo, fra i raggi dell’astro lucente e le corna dell’animale, nonché tra culto solare e sessualità, come potenza creativa e della crescita. Alcuni personaggi fallici recano sulla testa un’acconciatura a raggi, la stessa che si vedrà nei bronzetti votivi di figurine di offerenti di epoca romana a dimostrazione dell’ininterrotta persistenza nel tempo del culto solare. La corona radiata, composta quasi sempre da un numero maggiore di cinque raggi, posta sul capo degli offerenti, la cui fattura spesso modesta induce a considerarli ex votis di ambiente rurale, ripete l’abbigliamento rituale di molti personaggi incisi sulle rocce camune, come la figurina di uno dei grandi massi di Cemmo che ha, oltre le braccia levate in atto di orante, la corona radiata che le orna la testa. La preminenza del culto solare è dimostrata anche dalle numerose incisioni rupestri del monte Bego, nelle Alpi Marittime, oggi in territorio francese, santuario federale dei Liguri, sulle cui armi era raffigurato il cigno, nel quale era stato trasformato per pietà da Giove il loro re Cicno, disperato per la scomparsa di Fetonte, figlio del Sole. Fra le schiere degli alleati di Enea, scesi in lotta contro Turno, Virgilio presenta Cunaro, “duce dei Liguri”, e Cupavone, figlio di Cicno, “dal cui cimiero si alzano delle penne di cigno”. Ed era su un carro trainato da cigni che Apollo-Sole si muoveva dalle regioni boreali, su cui regnava, per raggiungere l’isola di Delo nell’Egeo, ove aveva visto la luce, allorché vi sbocciavano i primi fiori, nel corso di una processione che aveva come tappa principale il santuario epirotico di Dodona. Qui gli Iperborei erano accolti dai sacerdoti Pelasgi custodi della profetica quercia sacra a Giove, indicato con lo stesso epiteto Naios, piovoso, con cui era adorato anche a Delo. I documentati strettissimi rapporti religiosi tra il santuario epirotico e quello egeo ci inducono a comprendere l’origine pre-ellenica del culto di Apollo recato in Grecia dai divini Pelasgi, che come cicogne migrarono dall’antica madre italica per poi farvi ritorno, dopo aver civilizzato il Mediterraneo tutto. Anche l’oracolo di Apollo a Delfi era di fondazione italica, come ricorda Eschilo, narrando che il Dio ne prese possesso “accompagnato o dir meglio preceduto dai figli di Vulcano che gli sgombravano la via rendendo culto e sicuro l’infesto suolo”. E se la sede di Vulcano era sull’Etna, i suoi figli non potevano che essere i Siciliani, i Ciclopi dalla vista circolare propria degli esseri onniveggenti quali sono per eccellenza gli Dei solari. È per tale ragione che Giulio Cesare Ottaviano Augusto, Padre della Patria e unificatore dell’Italia, nello sforzo di ricostruire gli edifici sacri, di restituire i santuari alla loro dignità, di assumere nella sua persona una precisa serie di cariche sacerdotali dai forti caratteri primordiali e rituali, eresse il tempio di Apollo all’interno del Pomerio, sul Palatino, ove soltanto i culti patrii più vetusti potevano avere ingresso. E di antichissima adorazione Apollo-Sole era oggetto nel Lazio. Evelino Leonardi ricorda che: “Da una radice Sur che significa splendere, si ha in sanscrito suria, che significa Sole. E abbiamo nel nostro Soratte il Monte del Sole, sacrum Phoebo Soracte, come dice Silio; e a Terracina, il tempio ad An-Sur il non spento, l’inestinguibile, il Sole”. Così l’etrusco Arrunte nell’Eneide pregava il Nume di concedergli l’onore di colpire l’amazzone Camilla che seminava morte tra le schiere tirreniche: “Sommo degli Dei, Apollo custode del Santo Soratte,/ tu che primi fra tutti veneriamo, a cui alimentiamo / le fiamme con cataste di pino e, fidando / nella pietà, camminiamo, noi tuoi adoratori, / tra il fuoco e su molta brace, concedi / di cancellare codesta vergogna / con le nostre armi, tu che puoi tutto”. In tutte le opere di Virgilio la presenza di Apollo è fondamentale e l’attributo di phoebus, che si trova ripetuto molte volte nelle egloghe, sottolinea il suo legame con la luce e con lo splendore del sole e molto spesso è l’attributo che identifica Apollo con lo stesso astro diurno, il Dio Sole. È il Regnum Apollinis, annunciato dai Libri Sibillini come il fine della funzione storica della gens Iulia, che Ottaviano intende restaurare. Svetonio riferisce che il padre del futuro Augusto, al momento della nascita del figlioletto, ebbe in sogno la visione di un sole che si levava dal seno della moglie. Nigidio Figulo, sapiente pitagorico, predisse per questo neonato un destino di dominatore universale, confermato dall’oracolo di Dioniso del Perperikon, in Tracia, odierna Bulgaria, nei monti Rodopi sacri a Orfeo. Nella persona di Augusto si incarna una sorta di “luce divina”, una speciale “potenza radiante”, che avrebbe, poi, comportato per intrinseca capacità creativa, quella che fu chiamata non senza significato mistico, la pax augustea. È il titolo stesso più caratteristico di Ottaviano, Augustus, a designare colui che svela la presenza della forza creativa nel tessuto del mondo, comunicandola e restituendo al Lazio e all’Italia quella condizione aurea che gli apparteneva dal tempo di Saturno, dichiarando la fine delle guerre civili e proclamando l’instaurazione della pax Deorum “fermata” sul piano rituale nell’edificio dell’Ara Pacis nel Campo di Marte. Ottaviano diviene così l’incarnazione stessa di un Cosmokrator che dirige i destini del mondo e degli uomini, la personificazione del rector e del pacator orbis, un’epiclesi dell’Apollo solare. Il cammeo di Vienna documenta in modo inequivocabile il legame tra Augusto e il segno zodiacale del Capricorno, sotto la cui costellazione il principe era stato concepito, al punto di svolta dell’asse cosmico, il solstitium. La nascita del sole umano veniva, perciò, a coincidere con quella dell’astro celeste, mentre il cosmo e gli uomini si orientavano verso un destino di luce e splendore assicurato dalla renovatio mundi augustea. Alla condizione dell’ aurea aetas richiama anche il mito solare della Fenice, uccello che muore solo per rinascere più perfetto, che tanta fortuna ebbe tra i successori di Ottaviano. Il Sole, appiccando con i suoi raggi fuoco alla pira funebre, rivolge all’augusto volatile dal piumaggio aureo, roseo, rosso e ceruleo, colori che tingono il cielo all’alba e al tramonto, questo incoraggiamento: mutata melior procede figura, muta di forma e apparirai più bello che mai. Nessun altro mito si adatta in modo più compiuto al destino della Roma celeste, che Enea ammira nell’Elysium, simboleggiando nelle cicliche rinascite la sua imperitura energia solare di centro spirituale che mira a condurre il mondo a uno stato superiore di giustizia e di pace, al di là di ogni possibile decadenza che possa affliggere la Roma visibile. Ed è proprio in una di queste periodiche crisi, nel III sec. e.v., che tra gli Eneadi perpetuamente rinnovantisi per mandato divino si leva l’invincibile braccio di Lucio Domizio Aureliano, assunto alla porpora in un Impero frammentato e sull’orlo del crollo. Sconfitti i barbari in Occidente e in Oriente, agli occhi del Senato e del popolo romano egli apparve come il Restitutor Orbis, il restauratore del mondo. Agli inizi del 274 e.v. Aureliano poteva così celebrare il suo glorioso e memorabile trionfo sui nemici dell’ imperium restituito, salendo in Campidoglio sul carro appartenuto al re dei Goti e trainato da quattro cervi, che nelle raffigurazioni rupestri camune sono aggiogati al carro del sole. Il 25 dicembre 274 e.v., fissando il natale del Sole Invitto, Aureliano innalzava nel Campo Marzio un grandioso tempio all’astro lucente, ponendo sotto la sua tutela l’Impero di Roma. Il Sol Invictus appariva così la proiezione visibile dell’Uno neoplatonico, il sommo principio divino dal quale promana l’essenza di cui sono composti anche gli Dei, testimoniando l’unitaria radice trascendente che sosteneva e legittimava dall’alto l’Impero di Roma. Scegliendo le pendici del Quirinale, ove già in epoca arcaica sorgeva il pulvinar Solis, per l’erezione del tempio al Sole Invitto, Aureliano dimostra inequivocabilmente di perpetuare un culto romano-italico proprio della vetustissima religio. È Tacito ad usare tale espressione descrivendo la congiuntura in cui tra le fiamme dell’incendio, che distrusse Roma all’epoca di Nerone, perirono le testimonianze più venerande della tradizione ancestrale, salvandosi, però, la vetus aedes Solis. Sol fu annoverato fra i Dii Indigetes, gli Dei “primordiali”, delle origini di Roma, non a caso Lido traduce Sol Indiges con “Hélios ghenàrches”, Sole capostipite. Aureliano stesso, inoltre, era figlio di una sacerdotessa del Sole, probabilmente liberta della gens Aurelia che a Roma prestava culto gentilizio al Nume lucente. Festo e Paolo Diacono riportano che il nome più antico della gens aveva la forma Auselii, dal sabino Ausel, Sole, per effetto del rotacismo trasformatosi, poi, in Aurelii. Ma era l’intera Italia a esser chiamata dai Greci Ausonia, Ausones i suoi abitanti e Ausonio il mare che la circondava, a ulteriore conferma del prisco carattere nazionale del culto solare. È questa la ragione per cui Enea, seguendo il vaticinio di cercare l’antica madre, da cui si era mosso per fondare Troia l’etrusco Dardano, reso a Delo dall’oracolo di Apollo, giunto nel Lazio, sbarcato nella costa laurentina, tra tutti gli Dei omaggiò per primo il Sole, costruendo sul posto un piccolo santuario con due altari in posizioni e altezze opposte: uno in alto, orientato dove sorge l’astro e l’altro in basso, ove tramonta. Anche a Laurento l’eroe troiano sacrifica al nume radioso con gli occhi rivolti all’astro nascente insieme a re Latino, nipote di Circe, “ricca figlia del Sole”, abitante sul promontorio che da lei prese il nome, che spesso apparve ai naviganti quale isola per le basse lingue di sabbia che lo univano alla terra ferma. Testimonianza ne è offerta da Esiodo (VII sec.a.e.v.), il quale narrò che Circe sul carro del Sole raggiunse il mar Tirreno e abitò sull’isola che si trova lungo l’Etruria. Sul monte Circeo in epoca romana sarebbe sorto un santuario all’aperto in suo onore e ivi fu trovata una testa in marmo che la ritraeva con un diadema a sette raggi. Enea stesso divinificato fu venerato quale Sol Indiges nel luogo della sua assunzione al cielo presso il fiume Numico nella costa laziale limitrofa a Lavinium, con ciò significando la radice solare della sua progenie destinata a fondare Roma. Nell’Urbe anche l’area del Circo Massimo era consacrata al Sole e qui Augusto collocò un obelisco, dedicandolo al nume per commemorare la sottomissione dell’Egitto. Nel Circo Massimo il Sole è in stretto rapporto con il fondatore della città, Romolo Quirino, inventore della quadriga e dei giochi, e suo tramite con la sfera del potere regale cui dà conferma incessante la vittoria, ritualizzata nella vittoria ludica. Perché come fu scritto: “Roma non conobbe lo spirito nelle forme mistiche o filosofiche, per le quali essa nutrì una mal celata indifferenza; lo conobbe invece attraverso l’azione e lo testimoniò in istituzioni e tradizioni, dove l’azione - sin nei certamina dei circhi - diveniva un rito simbolico e un sacrificio; e nella gloria dell’Imper”. Oggi le ricerche e gli studi topografici dell'Università di Roma, condotti dal prof. Jaia, hanno restituito alla luce nei pressi di Pratica di Mare, l'antica Lavinium, il tempio del Sol Indiges. Possa questo rinvenimento essere foriero dell'alba di un nuovo giorno, dipanando le tenebre dell'imperversante ateismo e consentendo al popolo italiano di ritrovare nelle sue radici il culto avito che renda di nuovo la nostra terra Saturnia. Questo l'augurio. Quod bonum faustumque sit.
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