L'aporia fondamentale del pensiero democratico è presupporre che esso sia conforme a natura
di Francesco Lamendola - 20/05/2009
Sarebbe un grave errore pensare che il pensiero democratico sia intrinsecamente più «liberale» e più tollerante di una qualsiasi altra ideologia politica.
L'equivoco nasce dal fatto che è divenuto un luogo comune affermare che la democrazia è più debole - ma anche eticamente superiore - a ogni altro pensiero politico, per il fatto che essa si impegna a garantire la libera espressione del dissenso anche a quanti non la condividono, permettendo così ai suoi mortali nemici di prosperare e di godere di quegli spazi di manovra che essi, andati al potere, si affrettano a revocare nei confronti di tutti gli altri.
Ora, a parte il fatto che bisognerebbe spiegare ai detenuti di Guantanamo o alle vittime dei villaggi vietnamti, iracheni e afghani in che cosa consista tale supposta debolezza e tale supposta tolleranza, come pure agli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, resta il fatto che se è vero che la democrazia predica il rispetto formale delle altrui opinioni, di fatto essa si ritiene l'unica ideologia politica realmente conforme a natura, in quanto basata sulle libertà naturali, e appunto perciò inalienabili, dell'uomo. (Notiamo, per inciso, che delle altre specie viventi la democrazia non fa parola, perchè, essendo una ideologia antropocentrica e sviluppista, considera del tutto normale che l’uomo possa disporre a suo piacere della natura).
Ne consegue che i cultori della democrazia non possono non guardare ad essa come a una realtà che, presto o tardi, finirà per imporsi ovunque, insieme al libero mercato, alle meraviglie della tecnologia e all'economia globalizzata: versione laica e post-moderna dello Spirito Assoluto di hegeliana memoria; oppure, se si preferisce, versione borghese del materialismo dialettico della Vulgata marxista. In entrambi i casi, si tratta della ferma convinzione che la propria idea politica corrisponde a una necessità della Storia e che, pertanto, presto o tardi finirà per imporsi ovunque: più o meno come i telai meccanici si sono imposti alle manifatture domestiche e hanno avuto la meglio (a suon di condanne a morte) sulla patetica resistenza dei luddisti, nell'Inghilterra della prima Rivoluzione industriale.
È ovvio che, se qualche società o qualche Stato si ostina a resistere un po' troppo a lungo alle «magnifiche sorti e progressive», allora un piccolo aiutino alla marcia trionfale del Progresso diventa lecito, se non addirittura doveroso: come si può tollerare, infatti, che alcuni esseri umani continuino ad essere esclusivi dai benefici della democrazia, loro «naturale» diritto? Di qui alla teoria della guerra preventiva, o a quella della guerra umanitaria, il passo è breve: e, come abbiamo visto, non ci vuole molto a compierlo, quando si verifichino le condizioni adatte.
Non vogliamo, tuttavia, impostare la presente riflessione sul terreno del pensiero politico, ma su quello della concezione antropologica presupposta dai sostenitori della «naturalità» della democrazia e della «innaturalità» degli altri sistemi politici.
Il pensiero democratico moderno (quello antico meriterebbe un discorso a parte, che ci riserviamo di svolgere in altro momento) è figlio del pensiero liberale; se non ci fossero stati l'Illuminismo e la Rivoluzione francese, non sarebbe nata l'idea democratica. A sua volta, il pensiero liberale è figlio del pensiero giudaico-cristiano: senza il messaggio evangelico della uguaglianza di tutti gli esseri umani davanti a Dio, non ci sarebbero stati Lock e Rousseau, né gli «immortali principi» dell'89, al coro di «Liberté, Fraternité, Egalité». Ovvio.
Quello che è meno ovvio, a quanto pare, è che il pensiero democratico moderno ha fatto una deliberata confusione tra l'idea cristiana della eguaglianza spirituale degli uomini, in quanto figli di Dio, e quella della loro eguaglianza politica, in quanto soggetti dei medesimi diritti, cosa che presuppone, manifestamente, anche la loro eguaglianza, o equivalenza, in fatto di capacità intellettuali, di attitudini morali, di esercizio attivo della propria cittadinanza: il che è, altrettanto manifestamente, assurdo.
Eppure, lo slogan «un uomo, un voto», si regge proprio su questa deliberata confusione concettuale: si parte dalla (giusta) considerazione che ogni uomo deve godere di una pari dignità morale e giuridica, e si arriva alla (assurda) conclusione che ogni uomo è perfettamente in grado di svolgere una partecipazione attiva alla vita politica, esercitando il proprio diritto di voto e ricoprendo qualsiasi funzione amministrativa e politica; anche se, in realtà, non ne possiede né le capacità, né le attitudini e neppure il desiderio o l'interesse.
Questo non è affatto pessimismo antropologico, ma è quanto emerge da una spassionata e oggettiva valutazione dei fatti. Vi sono molte persone, diciamo pure la maggioranza, che non sono in grado di comprendere nemmeno le basi essenziali della politica; e che, nondimeno, esercitano esattamente lo stesso peso elettorale di chi possiede capacità eminenti e ogni altra attitudine per svolgere un ruolo altamente positivo nel contesto della vita associata.
E questo che diciamo per la politica, vale per ogni altro campo del pensiero e dell'attività umana; non solo: vale, prima di tutto, ed a maggior ragione, nell'ambito di qualsiasi forma di vita sociale, dalla più banale assemblea di condominio alla più sublime forma di servizio e di missione spirituale, quale può essere quella di un grande maestro religioso. Perché il fatto vero, evidente, innegabile, e che tuttavia i cultori della democrazia non vogliono vedere e si rifiutano di ammettere, è che esistono due grandi categorie di uomini (astraendo da quanti sono colpiti da forme di invalidità o malattia vera e propria): coloro i quali sentono, pensano e agiscono in profondità, e che sono guidati da un alto senso del dovere e della responsabilità; e coloro i quali vivono all'insegna della superficialità, della convenienza personale, della furbizia da quattro soldi.
Esistono, naturalmente, infinite sfumatue intermedie; ed esiste la possibilità di cambiamenti, per cui - talvolta - accade che degli esseri umani passino dall'uno all'altro di questi due gruppi fondamentali; ma, nel complesso, la distinzione che abbiamo fatta è quella su cui si regge la storia umana, per chiunque abbia occhi per vedere e non si lascia accecare da pregiudizi di alcun genere, per quanto «buonisti» e bene intenzionati.
Ebbene, è proprio questa semplice verità che ripugna profondamente ai cultori del pensiero democratico: pur di non rinunciare alla loro finzione di una umanità fondamentalmente omogenea, essi sono disposti a dare torto ai fatti di cinquemila anni di storia e ripetono, senza stancarsi mai, che, se opportunamente educato e indirizzato, anche l'uomo più meschino e insignificante può divenire un cittadino esemplare e un nobile sostenitore dei sacrosanti principi di libertà, fraternità e uguaglianza, ossia dei fondamentali diritti «naturali».
Lasciamo perdere, per ora, quanto di buona fede e quanto di mala fede ci possa essere dietro una posizione così palesemente assurda e insostenibile; lasciamo perdere, cioè, se dietro tanti integerrimi bardi del pensiero democratico non vi siano che dei prezzolati propagandisti dei poteri occulti, i quali hanno bisogno della menzogna egualitaria per poter meglio dominare e asservire la società, appiattendo e livellando l'opinione pubblica e spegnendo ogni focolaio di pensiero veramente libero e indipendente. Non è questo che ci interessa discutere, in questa sede; ne parleremo, semmai, un'altra volta.
Quello su cui ci preme riflettere, ora, è l'estrema fragilità, per non dire l'assoluta inconsistenza, della tesi secondo cui si potrebbe parlare dell'«uomo» e della «umanità» come se tali termini designassero delle categorie sostanzialmente omogenee, più o meno come si potrebbe parlare dell'insieme dei larici, delle betulle, dei leoni o dei delfini. A parte il fatto di avere due braccia, due gambe, due occhi e una bocca, nonché la stazione eretta, il pollice opponibile e un linguaggio di tipo vocale e articolato, gli esseri umani presentano delle differenze intellettuali e, soprattutto, spirituali, così profonde, da far pensare che non esista affatto un «genere umano», per il semplice fatto che la natura umana é un'astrazione, una meta ed un compito da realizzare eventualmente, non una realtà data.
L'uomo, insomma, è un dover-essere, non una creatura definita, se non a livello puramente biologico; ma quello che segna la differenza più grande fra uomo e uomo, è appunto il diverso grado di consapevolezza di tale verità. In altri termini, vi sono uomini (e donne) consapevoli di questo loro dover-essere, ed altri (e altre) che non lo sono affatto; uomini che si pongono lo scopo del proprio perfezionamento spirituale, che cercano di elevarsi intellettualmente e spiritualmente, di purificarsi, di vincere il proprio egoismo istintivo, di aprirsi all'amore disinteressato; ed altri che non ci pensano minimamente e, anzi, si ritengono moto in gamba ogni qual volta riescono a fregare il prossimo, a ingannare quanti si fidano di loro, a tradire i giuramenti più sacri: il tutto in nome del proprio successo materiale e della propria affermazione sociale.
Tale è la «materia prima» con la quale i cantori della democrazia pensano di poter erigere il loro splendido edificio; e la cosa è resa ancor più problematica dal fatto che le regole stesse della democrazia sembrano fatte apposta (e forse lo sono) per facilitare l'ascesa dei più ambiziosi, spudorati, cinici e disonesti, e non certo dei più riflessivi, onesti, leali e disinteressati; in breve: dei peggiori, e non certo dei migliori.
Non vogliamo trarre, da questo ragionamento, la conclusione che tutto il pensiero democratico è un diabolico inganno e che va gettato nel cestino della carta straccia; vogliamo trarne, invece, l'ammonimento a non porre la democrazia come un dato «naturale» o come un monumento sul piedistallo, da adorare incondizionatamente; ma, semmai, come un faticoso punto d'arrivo verso il quale bisogna tendere, ma mettendo in opera tutte quelle strategie che la possano rendere viva e operante, nella piena consapevolezza della estrema difficoltà di un tale progetto.
Due sono, infatti, i pericoli più grandi che minacciano la società democratica: uno è l'azione dei poteri occulti che, in essa, trovano il modo di dispiegare agevolmente tutta la loro malefica influenza; l'altro è la sfrenata demagogia dei suoi ottimistici sacerdoti i quali, astuti o folli - come direbbe il Leopardi de «La ginestra» - o ingannano sé medesimi, o vogliono ingannare il prossimo, allorché sostengono che gli uomini sono naturalmente portati alla libertà e, quindi, all'esercizio della democrazia.
Non è vero: la premessa è sbagliata. Erich Fromm ha mostrato in modo esemplare che molti uomini e intere società sono continuamente tentati di fuggire dalla libertà, come da un fardello insopportabilmente gravoso. E fuggono non solo, come pensava Fromm, in direzione dei totalitarismi, vere e proprie semplificazioni del modello politico-sociale e culturale; ma anche, più semplicemente - e, a nostro avviso, più tragicamente - verso il grande Nulla della stupidità, della volgarità e della insulsaggine oggi dilaganti.
Conosciamo personalmente, tanto per fare un esempio, persone che votano per il maggior partito attualmente al governo, per la ragione che il presidente del Consiglio è il presidente del Milan. Si badi: non perché egli è ANCHE presidente del Milan: ma PROPRIO perché è il presidente del Milan. A questo punto, è chiaro che l'interesse dei poteri forti - e, in gran parte, occulti - diventa, evidentemente, quello di agire su questo fondo di suprema stupidità, allo scopo di rendere gli esseri umani, se possibile, ancora più stupidi; e di avvilirli, facendoli sprofondare, se possibile, ancora più in basso. Sempre nascondendosi dietro gli slogan demagogici secondo i quali bisogna dare alla gente ciò che essa vuole: come dire che, se la gente vuole escrementi per colazione, pranzo e cena, quelli bisogna darle, beninteso con tutti i crismi della libertà e della democrazia.
Abbiamo già sostenuto, in un recente articolo, che gran parte degli esseri umani sono dei dormienti i quali, se destati dai loro sogni voluttuosi, tendono a diventare feroci e a rivoltarsi contro coloro i quali li hanno richiamati alla realtà. Allo stesso modo si può affermare che l'inganno della democrazia si basa sul fatto che quelli stessi che, sfruttando il potere mediatico, fanno di tutto per rincretinire il pubblico, sono proprio coloro i quali levano alte strida «democratiche» allorché qualcuno denuncia i loro secondi fini, accusandolo di disprezzare la volontà popolare.
Già: ma la volontà popolare non dovrebbe essere un feticcio sacro e intangibile: essa è una pura astrazione, sia perché facilmente manipolabile da pressioni esterne, sia perché risulta dalla somma aritmetica, e perciò disordinata e disarmonica, di situazioni umane fra loro incommensurabili, riflettenti la fondamentale bipartizione delle persone di cui si diceva prima.
Come si viene fuori da questa fondamentale aporia?
Semplice: non se ne viene fuori.
Una delle grandi illusioni della democrazia (mutuata da Hegel, che pure non era affatto un campione della democrazia) è che, grazie ad essa, si possa mediare tutto, risolvere tutto, appianare tutto. La democrazia, dunque, come «clavis universalis», come panacea per guarire tutti i mali, come bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. La democrazia come toccasana autoevidente, in quanto ideologia tipica - anzi, la sola ideologia legittima e riconosciuta - delle persone in buona fede, delle «brave» persone.
Ma non è vero: ci sono cose che non si possono mediare, che esigono un salto qualitativo da parte del singolo individuo, se e quando egli decide di intraprendere il difficile cammino del proprio dover-essere, cosparso di ostacoli e poverissimo di gratificazioni che non siano quelle della propria coscienza.
I democratici, pertanto, devono spogliarsi dei propri complessi di superiorità; devono rivedere la bella favola che da se stessi hanno costruito intorno alla propria ideologia; e, soprattutto, devono liberarsi dallo spirito di crociata che li spinge a immaginare che il mondo intero soffra e gema nell'attesa impaziente di ricevere da loro il nuovo Vangelo della felicità universale.
Altrimenti andranno incontro a molte, dolorose sorprese; come quella di scoprire che, in certe parti del mondo, i Talebani o gli uomini di Al Qaida sono più popolari dei leader «democratici» insediati a forza in quel di Kabul o di Baghdad.
Non è vero che i democratici sono tutti bravi e buoni, mentre i non democratici formano un'unica massa di cattivi soggetti: questo fa parte della mitologia che i primi hanno costruito su di sé, con intollerabile arroganza e con illimitato narcisismo.
La democrazia è un sistema politico come un altro, con i suoi pregi e i suoi difetti; e, se può dare discreti risultati in determinati tempi e luoghi, non è però esportabile indiscriminatamente, specie in quelle parti del mondo che hanno costruito dei percorsi storici molto diversi da quello dell'Occidente. Come ogni altro sistema di governo, la democrazia va storicizzata: è il risultato di un determinato sviluppo politico, economico, sociale e culturale: non l'Alfa e l'Omega della storia umana.
Signori democratici, un po' di umiltà.
Il mondo era già civile quando non aveva ancora elaborato niente di simile alla democrazia. Le Piramidi d'Egitto, il Palazzo di Cnosso e la Grande Muraglia cinese sono stati edificati senza di essa; Omero, Dante e Leonardo da Vinci componevano le loro opere senza sentirne la mancanza; Platone aveva espresso nei suoi confronti una profonda disistima, specie dopo aver visto in che modo essa aveva condannato a morte Socrate, «il migliore degli uomini». Per venire a tempi molto più vicini a noi, Pirandello, Gentile e Ungaretti non ci credevano; ma, volendo, l'elenco sarebbe assai lungo.
Ad ogni modo, ogni sistema politico che parta da una antropologia erronea è destinato a non reggersi: questa è la parte ancor viva della lezione di Machiavelli. L'ideologia democratica non vede l'uomo quale egli è veramente, ma attraverso le lenti deformanti del pregiudizio egualitario.
Ci si potrebbe chiedere come mai, allora, essa si sia conservata, e sia pure a fatica, dal XVII secolo ad oggi, e come sia riuscita ad estendersi da piccole repubbliche come i Paesi Bassi, alla superpotenza statunitense. Una possibile risposta, che certamente non piacerà ai democratici, è che essa è troppo utile ai poteri occulti, per volerla sostituire con altre forme di governo: si direbbe che essa sia la forma ideale per consentire il massimo dominio con la massima discrezione.
E, se qualcuno non ne fosse interamente persuaso, forse farebbe bene a domandarsi come mai la stampa e i mezzi d'informazione parlino così poco delle riunioni annuali del Gruppo Bilderberg o del meccanismo del signoraggio, che rende le banche padrone di fatto dell'economia di mezzo mondo: eventi i quali, d'altra parte, sono molto più significativi per i destini del mondo, che non l'elezione di questo o quel governo, o la transazione finanziaria di questo o quel gruppo industriale, naturalmente sanzionata da tutti i crismi della democrazia. Non è questa materia su cui riflettere seriamente?
Un'ultima, piccola postilla su cui riflettere. Mentre stiamo scrivendo, il correttore automatico del computer sottolinea in rosso le parole «Bilderberg» e «signoraggio», segno che non le ha riconosciute. Cosa altamente istruttiva: la cultura ufficiale delle democrazie non ha voluto recepire le parole che pesano enormemente sulle nostre vite, ma che tradiscono la lunghissima coda di paglia dei sistemi democratici.
Questa, crediamo, è la prova migliore del fatto che la democrazia, in pratica, non è quello che vorrebbe far credere di essere: e che tutte le libertà da essa sbandierate, a cominciare da quella del pubblico dissenso, diventano lettera morta, se si cade nella madornale ingenuità di pensare che esse siano garantite automaticamente.