Il libro della settimana: Granfranco Franchi, Monteverde
di Carlo Gambescia - 21/05/2009
Il libro della settimana: Granfranco Franchi, Monteverde, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 313, euro 16,00 - www.castelvecchieditore.com
Dopo aver letto poche pagine del romanzo di Gianfranco Franchi ( Monteverde, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 313, euro 16,00 ), ci siamo sentiti vecchi. O comunque di appartenere a un'altra generazione: quella che ha fatto, o subíto, le sue esperienze negli anni Settanta e non come il giovane autore nei Novanta. Dunque, per dirla con Ortega, differenza di “circostanza”. Per carità c'est la vie : si tratta di una diversità legata al naturale e stringente scorrere del tempo e quindi al diverso ruolo che la politica ha giocato nei due decenni: continuazione della guerra con altri mezzi negli anni Settanta; prolungamento del mondo dello spettacolo negli anni Novanta. Con in mezzo la crescente e sfibrante precarizzazione di tutti i rapporti sociali, a cominciare dal lavoro. Ma entriamo nel merito.
Franchi, oggi appena trentenne, poeta saggista, animatore di un ottimo sito ( http://www.lankelot.eu/ ), ha scritto un romanzo generazionale che analizza meglio di un saggio sociologico la condizione storica, o "circostanza", di quei giovani, intellettualmente al di sopra della media, che tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, avrebbero voluto parlare al mondo e quindi diventare scrittori. Finalmente liberi dalle morse della politica-guerra e della politica-spettacolo. Ma non, come è avvenuto e avviene, da quella del lavoro sottopagato. E alcuni come Franchi ci sono riusciti: il sequel reale della sua vita, lo vede oggi scrittore.
Attraverso l' alter ego, Guido Orsini - protagonista del romanzo - Franchi seziona il combattuto mondo, interiore ed esteriore, di un giovane aspirante scrittore, attraverso i topoi minimalisti ( non è una critica) dei liceali e universitari anni Novanta: casa (quel gusto autodifensivo per i torpori della vita privata) ; lavoro (le solitarie disperazioni di giovani “biagizzati” e con il vizio delle "belle lettere"); donne (la complicata ricerca di sempre fragili ponti tra Apollo e Dioniso); musica (il fascino del rock, come presa decaffeinata del Palazzo d'Inverno); lo sport ( quella strabordante passione per il calcio e in particolare per “La Roma”, o altrimenti “La Magica”).
Dopo aver letto poche pagine del romanzo di Gianfranco Franchi ( Monteverde, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 313, euro 16,00 ), ci siamo sentiti vecchi. O comunque di appartenere a un'altra generazione: quella che ha fatto, o subíto, le sue esperienze negli anni Settanta e non come il giovane autore nei Novanta. Dunque, per dirla con Ortega, differenza di “circostanza”. Per carità c'est la vie : si tratta di una diversità legata al naturale e stringente scorrere del tempo e quindi al diverso ruolo che la politica ha giocato nei due decenni: continuazione della guerra con altri mezzi negli anni Settanta; prolungamento del mondo dello spettacolo negli anni Novanta. Con in mezzo la crescente e sfibrante precarizzazione di tutti i rapporti sociali, a cominciare dal lavoro. Ma entriamo nel merito.
Franchi, oggi appena trentenne, poeta saggista, animatore di un ottimo sito ( http://www.lankelot.eu/ ), ha scritto un romanzo generazionale che analizza meglio di un saggio sociologico la condizione storica, o "circostanza", di quei giovani, intellettualmente al di sopra della media, che tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, avrebbero voluto parlare al mondo e quindi diventare scrittori. Finalmente liberi dalle morse della politica-guerra e della politica-spettacolo. Ma non, come è avvenuto e avviene, da quella del lavoro sottopagato. E alcuni come Franchi ci sono riusciti: il sequel reale della sua vita, lo vede oggi scrittore.
Attraverso l' alter ego, Guido Orsini - protagonista del romanzo - Franchi seziona il combattuto mondo, interiore ed esteriore, di un giovane aspirante scrittore, attraverso i topoi minimalisti ( non è una critica) dei liceali e universitari anni Novanta: casa (quel gusto autodifensivo per i torpori della vita privata) ; lavoro (le solitarie disperazioni di giovani “biagizzati” e con il vizio delle "belle lettere"); donne (la complicata ricerca di sempre fragili ponti tra Apollo e Dioniso); musica (il fascino del rock, come presa decaffeinata del Palazzo d'Inverno); lo sport ( quella strabordante passione per il calcio e in particolare per “La Roma”, o altrimenti “La Magica”).
Il romanzo si chiude con una prometeica dichiarazione dei “diritti del letterato”. E con una dedica, due righe due ma fervide, agli “esuli fiumani e dalmati e ai loro discendenti; alla loro dignità e al loro orgoglio”. In questo modo Gianfranco-Guido, celebra la letteratura, come assoluta indipendenza dal potere, e sacrifica alle piccole patrie (inclusa quella lontana della sua famiglia): il cosmo e il microcosmo. Ecco quel che si dice parlare a tutti: essere nel mondo ma non del mondo.
Per certi aspetti, seguendo una felice intuzione di Nicola Vacca (cfr. http://nicolavacca.splinder.com/post/17418819 ), anche questo libro può essere accostato, nei termini di una comune antropologia culturale della scrittura di confine (essere e non essere del mondo, dicevamo...), a quel grido di rivolta in nome della letteratura lanciato da Luciano Bianciardi ne La vita agra (1962), ma anche in opere precedenti come Il lavoro culturale (1957) e L'integrazione (1960): stessa voglia di guadagnarsi il pane scrivendo; stessa indignazione verso certo capitalismo rapace; stesso stupore nei riguardi di un mondo che talvolta sembra correre verso il precipizio con la pascaliana benda davanti agli occhi.
Per certi aspetti, seguendo una felice intuzione di Nicola Vacca (cfr. http://nicolavacca.splinder.com/post/17418819 ), anche questo libro può essere accostato, nei termini di una comune antropologia culturale della scrittura di confine (essere e non essere del mondo, dicevamo...), a quel grido di rivolta in nome della letteratura lanciato da Luciano Bianciardi ne La vita agra (1962), ma anche in opere precedenti come Il lavoro culturale (1957) e L'integrazione (1960): stessa voglia di guadagnarsi il pane scrivendo; stessa indignazione verso certo capitalismo rapace; stesso stupore nei riguardi di un mondo che talvolta sembra correre verso il precipizio con la pascaliana benda davanti agli occhi.
Per altri aspetti, no. Perché sono passati più di cinquant’anni. E come, abbiamo detto all’inizio, la generazione di Franchi è assai diversa da quella di Bianciardi e del sottoscritto. Quando l'essere sottopagati non era stato ancora eretto a sistema o addiritura permesso legislativamente. La speranza di un mondo migliore, giuista o sbagliata che fosse, era ancora viva e vegeta: alcuni credevano di poter cambiare " la circostanza".
In Franchi, rispetto allo scrittore grossetano, c’è maggiore distanza dalle cose: Bianciardi cannoneggiava e sciabolava; Franchi soccorre e cura i feriti, a cominciare da se stesso, usando se serve il bisturi. E non fermandosi neppure davanti alle autopsie, sempre condotte con mano ferma. Insomma, il più caliente dei due non è Franchi, pur avendo, al momento della stesura dieci anni meno di Bianciardi, il quale quando scrisse La vita agra ne aveva quaranta. Il che si spiega, ancora una volta con la "circostanza": con il fatto che la generazione di Franchi è quella del 1989 e non del 1945: stereo e personal computer contro mitra e bombe a mano... Alcuni diranno, meglio così.
Ma anche gli stili di scrittura sono diversi: più irrequieto quello di Bianciardi, grossetano intabbarrato e inurbato nelle nebbiose e proletarie periferie milanesi degli anni Sessanta; più posato quello di Franchi, civis in (maglietta) polo di Monteverde Vecchio, sempre riscaldato dal suadente sole che irradia Villa Sciarra, meta ancora oggi, seppure non come una volta, di borghesi e distese passeggiate, cani e disattenti padroni permettendo. Benché via Fonteiana così cara a Franchi, sia oggi diventata una specie di “Terra di Nessuno”, tra quel che resta della borghese e alberata di viale dei Quattro Venti e i panciuti palazzoni, già popolari, di via Donna Olimpia, amata anche da Pasolini, che abitò per un certo periodo in quella terra di confine, così vividamente descritta nei suoi romanzi...
Diciamo che il Monteverde, rivendicato già nel titolo, indica due sensibilità diverse, ma non opposte. Due modi di gridare il proprio sdegno al cospetto di un mondo ubriaco solo di se stesso. Due modi di guardare negli occhi la propria "circostanza". Uno "sguardo" che in fondo salda le generazioni, restituendo una parte di quel tempo che giorno dopo giorno la vita toglie. Se non nei contenuti almeno nella forma-sguardo.
In Franchi, rispetto allo scrittore grossetano, c’è maggiore distanza dalle cose: Bianciardi cannoneggiava e sciabolava; Franchi soccorre e cura i feriti, a cominciare da se stesso, usando se serve il bisturi. E non fermandosi neppure davanti alle autopsie, sempre condotte con mano ferma. Insomma, il più caliente dei due non è Franchi, pur avendo, al momento della stesura dieci anni meno di Bianciardi, il quale quando scrisse La vita agra ne aveva quaranta. Il che si spiega, ancora una volta con la "circostanza": con il fatto che la generazione di Franchi è quella del 1989 e non del 1945: stereo e personal computer contro mitra e bombe a mano... Alcuni diranno, meglio così.
Ma anche gli stili di scrittura sono diversi: più irrequieto quello di Bianciardi, grossetano intabbarrato e inurbato nelle nebbiose e proletarie periferie milanesi degli anni Sessanta; più posato quello di Franchi, civis in (maglietta) polo di Monteverde Vecchio, sempre riscaldato dal suadente sole che irradia Villa Sciarra, meta ancora oggi, seppure non come una volta, di borghesi e distese passeggiate, cani e disattenti padroni permettendo. Benché via Fonteiana così cara a Franchi, sia oggi diventata una specie di “Terra di Nessuno”, tra quel che resta della borghese e alberata di viale dei Quattro Venti e i panciuti palazzoni, già popolari, di via Donna Olimpia, amata anche da Pasolini, che abitò per un certo periodo in quella terra di confine, così vividamente descritta nei suoi romanzi...
Diciamo che il Monteverde, rivendicato già nel titolo, indica due sensibilità diverse, ma non opposte. Due modi di gridare il proprio sdegno al cospetto di un mondo ubriaco solo di se stesso. Due modi di guardare negli occhi la propria "circostanza". Uno "sguardo" che in fondo salda le generazioni, restituendo una parte di quel tempo che giorno dopo giorno la vita toglie. Se non nei contenuti almeno nella forma-sguardo.
E spesso la forma è l'uomo.