Contro Galilei
di Francesco Lamendola - 08/10/2009
È bello, nel primo mattino di autunno, levarsi presto e predisporsi ad accogliere il nuovo giorno quando ancora il buio avvolge le cose: è come prepararsi per tempo ad una festa lungamente attesa e desiderata.
Mentre il mondo sta ancora riposando, e la folta massa degli alberi emerge gradualmente e con fatica dall'oscurità della notte, è piacevole compiere in silenzio e tranquillità le prime operazioni della giornata: spalancare i balconi, eseguire in maniera energica i quotidiani esercizi di ginnastica, fare una bella doccia fredda che riscalda il sangue e rimette vigorosamente in movimento la circolazione del corpo.
Poi, lo spettacolo del cielo ancora avvolto nelle tenebre; e, su tutto, l'incomparabile splendore della Luna piena: radiosa, in apparenza così vicina ed infinitamente affascinante, come una promessa dolcemente velata di mistero.
Tiro fuori il mio binocolo 20 x 50 e mi metto ad osservarla, ingrandita dalle lenti che suppliscono alla mia vista troppo debole: stupendo paesaggio di monti e di mari - ché tali li immaginavano gli antichi, e così sono rimasti in una bellissima e poetica toponomastica: Mare Imbrium, Mare Serentitatis, Mare Tranquillitatis, Mare Somniorum.
Dopo avere a lungo goduto dello spettacolo, tiro fuori carta e penna e traccio lo schizzo della superficie lunare; poi, soddisfatto, la confronto con una carta dell'atlante celeste: è emozionante vedere la coincidenza tra la pagina del libro e quanto osservato di persona.
A questo punto, inevitabilmente, il pensiero va a Galilei ed ai suoi disegni della superficie lunare, i primi in assoluto mai tracciati dalla mano dell'uomo. Come è noto, il filosofo Paul K. Feyerabend ha fatto notare l'inverosimile discordanza fra tali disegni e la superficie lunare, quale realmente è e quale appare a qualunque telescopio, e perfino (per chi possieda una buona vista) ad occhio nudo. Viene da chiedersi, e se lo è chiesto Feyerabend, come facesse lo scienziato italiano a vedere tanti particolari della topografia lunare che non esistono affatto, e a non vederne altri che, viceversa, balzano all'occhio, anche ad una osservazione superficiale.
Erano le prime notti in cui un essere umano osservava l'ingrandimento del nostro satellite, esattamente quattro secoli or sono, per mezzo di uno strumento - il cannocchiale - non inventato da Galilei, ma da un oscuro ottico olandese, un anno prima, e da lui subito trasformato in un mezzo per l'esplorazione astronomica. Ancora oggi, però, nessuno ricorda quell'olandese - si chiamava Hans Lippersheim, e realizzò la sua invenzione nel 1608 - , e tutti parlano di Galilei e si gonfiano la bocca col suo nome, come quello di uno dei massimi geni dell'umanità. Il processo e la condanna da parte dell'Inquisizione, poi, ne hanno fatto poco meno che un intrepido eroe del libero pensiero, un martire del progresso e della civiltà contro l'oscurantismo medievale.
Ma è proprio vero?
Cominciamo dal nome. Giocando anche sull'assonanza tra il nome e il cognome, egli è passato alla storia come «Galileo», e basta: ma quello di essere ricordato con il solo nome di battesimo è un privilegio rarissimo, che si attribuisce solo alle personalità somme della cultura e del pensiero. Nessuno chiama Manzoni, «Alessandro», e nessuno chiama Leopardi, «Giacomo»: eppure sono stati dei grandi, dei grandissimi scrittori. E nessuno chiama Petrarca, «Francesco»: quel privilegio è riservato solamente a Dante e a pochissimi altri: Leonardo, Michelangelo, e gli altri maggiori artisti del Rinascimento.
Nessuno scienziato è passato alla storia con il solo nome di battesimo: non Newton, né Volta, né Darwin e neppure Einstein. Galilei, invece, sì; ma vale la pena di chiedersi se i suoi incensatori non lo abbiano fatto per conferire prestigio non tanto a lui, quanto al paradigma scientista che da lui prende origine.
Quello che più colpisce, nella vicenda di Galilei, non è tanto l'arroganza di uno scienziato che voleva insegnare ai teologi come si dovessero leggere le Sacre Scritture; e nemmeno il suoi carattere sgradevole e aggressivo, la sua infinita presunzione, dall'alto della quale pensava di poter prendere in giro chi non la pensava come lui: basti vedere la maniera tendenziosa e ridicola di presentare la teoria geocentrica da parte del personaggio di Simplicio - il nome è tutto un programma - nel «Dialogo sui due massimi sistemi»: come se, con l'artificio del contraddittorio, avesse realmente assicurato una pari dignità alle due teorie astronomiche, la tolemaica e la copernicana, come peraltro aveva promesso di fare dopo l'ammonizione del 1616.
Gli si potrebbe perdonare anche la ridicola imprecisione delle sue carte lunari, se egli non avesse avuto l'abitudine di mettere in caricatura l'imprecisione altrui, con una foga polemica sanguigna e tutta toscana («maledetti toscani», imprecava uno che se ne intendeva, Curzio Malaparte): basti pensare a «Il saggiatore» (il bilancino dell'orefice), contrapposto alla «Libra» del gesuita Orazio Grassi, in una polemica intorno alla natura delle comete nella quale, fra parentesi, egli aveva torto e il suo avversario, invece, ragione.
Così come gli si potrebbe perdonare l'assoluta incapacità di vedere la bellezza delle cose, di vedere la natura con amore, e di provare compassione per gli altri esseri viventi e per le sofferenze causate loro dalla cosiddetta ricerca scientifica: come quando si compiace di descrivere la vivisezione di una cicala per individuare l'origine del suo frinire, e non una sola parola di pietà di sfugge dalla penna, ma emerge soltanto una gelida sete di conoscenza, spietata e inumana (cfr. il nostro precedente articolo: «Esiste, per gli animali, una possibilità di redenzione dalla sofferenza?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 23/03/2009).
Ma quello che proprio non va giù, a chi sappia vedere gli effetti a lungo termine di un determinato atteggiamento mentale, è la pretesa di Galilei (esplicitamente, nella lettera a don Benedetto Castelli, ma, implicitamente, in tute le sue opere e in tutto il suo insegnamento) di asserire che «il gran libro della natura è scritto in caratteri matematici». Da quella affermazione è derivata una mostruosa distorsione mentale, di cui il mondo moderno si è imbevuto sino al midollo, e che tuttora domina i nostri pensieri e condiziona la nostra percezione della realtà.
Se almeno Galilei avesse sostenuto che «il gran libro della natura è scritto ANCHE in caratteri matematici», allora la sua affermazione sarebbe stata perfettamente legittima e il totalitarismo scientista avrebbe dovuto andare a cercarsi altrove le proprie basi teoretiche. Ma quell'ANCHE, Galilei non l'ha detto: perché, come tutti i fondatori di un nuovo paradigma, egli era dominato dalla presunzione e dall'orgoglio; invocava tolleranza per il nuovo modo di studiare il cielo, ma, dentro di sé, già pregustava un mondo ove gli scienziati non persuasi dalle sue idee, sarebbero stati ridicolizzati (come Simplicio) o ridotti al silenzio.
Benché sia stato processato e costretto all'abiura, Galilei era il portatore non della libertà di ricerca scientifica, ma di un nuovo totalitarismo ideologico, quale il mondo non aveva ancora mai visto e quale non avrebbe più visto in seguito.
Sul momento, egli è sembrato la vittima; e, per certi versi, lo è stato: ma, per altri versi, è stato il precursore dell'avvento di un Pensiero Unico, tale da far rimpiangere l'«ipse dixit» dei seguaci ad oltranza dell'aristotelismo (i quali, sia detto fra parentesi, non erano affatto quei poveri sciocchi che la tradizione ci ha tramandato; e che avevano perfettamente ragione di far notare la contraddizione fra il principio galileiano della «sensata esperienza» e la mancanza di prove a sostegno dell'ipotesi eliocentrica, ipotesi che, oltretutto, contraddice in pieno il senso comune).
A partire da quel momento, nella cultura europea - e, poi, mondiale - si è insinuata l'idea, che infine si è trasformata in certezza burbanzosa e in verità incontrovertibile, che il mondo sia solamente quello che è possibile percepire con i sensi fisici e misurare con gli strumenti scientifici; e che solo la matematica e la scienza moderna - quantitativa, meccanicista, riduzionista - possano fornire la conoscenza autentica di esso.
La distinzione aristotelica e tomistica di ordine naturale e ordine soprannaturale, di mondi visibile e mondo invisibile, è entrata in crisi e, da ultimo, è stata relegata nella polvere della soffitta: malinconico ricordo di un'epoca in cui la ragione, per dirla con Kant, era ancora immersa in uno stato di minorità, ed i «lumi» della Ragione non avevano ancora avviato l'umanità verso «le magnifiche sorti e progressive».
Così - e le conseguenze erano implicite nei presupposti del pensiero galileiano, anche se esse si sono manifestate pienamente solo più tardi - l'intera realtà è stata ristretta a quella porzione di essa che cade sotto i nostri sensi fisici; l'invisibile è stato bandito come pura illusione e fonte perenne di alienazione; e l'unica conoscenza del mondo degna di questo nome è stata proclamata quella scientifica.
Un poeta - per esempio -, secondo questa concezione, non esercita alcuna forma di conoscenza sul mondo; e così un pittore, uno scultore, un architetto, un musicista; le loro opere non sono che capricci della fantasia, sogni senza consistenza, passatempi di lusso per una umanità che abbia energie da sprecare, sottraendole alle cose serie - vale a dire, alla scienza quale strumento di dominio sulla natura.
Al tempo stesso, la natura è stata retrocessa al gradino più basso della realtà: pura materia prima al servizio dell'uomo, illimitatamente e indiscriminatamente; e, naturalmente, discarica globale ove gettare i prodotti di scarto dei suoi processi di manipolazione. Un animale, una pianta, non sono esseri viventi, portatori di una dignità intrinseca: sono soltanto mezzi affinché l'uomo possa avere una vita più comoda e possa guadagnare molto denaro. L'uomo non vede più in essi dei compagni di viaggio, dei «fratelli» e delle «sorelle», ma soltanto e unicamente della forza lavoro da sfruttare o del cibo da ottenere con qualunque mezzo, magari con la clonazione degli animali da allevamento o con la modificazione genetica delle piante alimentari.
Cartesio, infatti, ha sistematizzato le premesse del nuovo paradigma della scienza moderna, inaugurato da Galilei, ed ha stabilito una volta per tutte la divisione radicale e incolmabile fra «res cogitans»e «res extensa»: un dualismo schizofrenico, di fronte al quale impallidisce quello artistotelico-tomista di ordine naturale e ordine soprannaturale. Quest'ultimo, infatti, era pur sempre suscettibile di una conciliazione e di un punto d'incontro, poiché scaturiva dalla consapevolezza di un cosmo vivente, pervaso da forze spirituali e animato dalla sapienza divina; mentre il dualismo cartesiano non è che la brutale contrapposizione di due mondi separati e incomunicabili, uno dei quali è preposto a sottomettere selvaggiamente l'altro (un cane che guaisce perché percosso con il bastone, per il filosofo francese, non sta soffrendo veramente, perché esso è pura «res extensa», e la «res extensa» è materia bruta, dunque non prova alcun sentimento).
In nome del moderno totalitarismo scientista, la parola della casta medica è divenuta infallibile e indiscutibile: essa dispone di poteri quasi illimitati sui comuni mortali; può, ad esempio, decidere una vaccinazione obbligatoria per l'intera popolazione di uno Stato, che provocherà la morte di un certo numero di individui allergici a quel determinato farmaco; ma ciò verrà ritenuto un ragionevole prezzo da pagare per il progresso della scienza: beninteso, sempre al servizio della nostra salute e del nostro benessere.
Ma se qualcuno non desiderasse entrare in un tale Paradiso della scienza, e rifiutasse di sottoporsi a quei tali procedimenti stabiliti dalla casta medica?
Un discorso analogo si può fare per l'ultima nata delle scienze moderne: la psichiatria; che, come è noto, è stata ampiamente adoperata per «curare» i soggetti che non gradiscono un certo tipo di Paradiso in terra. Se qualcuno non è d'accordo, va spedito in manicomio: con tutti i timbri e le firme al loro posto.
È giusto addebitare a Galilei siffatte conseguenze del paradigma da lui avvalorato con la propria autorevolezza di scienziato? Chissà: comunque, vale la pena di rifletterci un po' sopra.
* * *
Questa mattina presto, vedendomi uscire dalla stanza con il foglio in mano, mia figlia mi ha chiesto di cosa si trattasse.
«È uno schizzo della Luna», ho risposto.
«E perché lo hai fatto?», ha domandato.
Già: perché?
Secondo Francesco Bacone e secondo i seguaci del paradigma scientista, la natura non si studia certo per amore disinteressato della verità; la si studia per poterla dominare e sfruttare a piacimento. «Sapere è potere», essi dicono: e li vediamo all'opera ogni giorno, mentre gli effetti delle loro manipolazioni entrano con prepotenza incontrollabile nelle nostre case, nei nostri frigoriferi, sulle nostre tavole, nel nostro sangue e nelle molecole del nostro corpo.
Ah, Galilei e la sua pretesa di vedere solo un ordine matematico nel mondo della natura!
Se almeno avesse saputo disegnare un po' meglio la superficie della Luna…