Dobbiamo liberarci dall'inganno dell'io, centro illusorio della nostra persona
di Francesco Lamendola - 15/10/2009
Nel precedente articolo «Lo spirito non s'identifica con l'io, ma è un ente sostanzialmente diverso da esso» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice) abbiamo sostenuto che lo spirito tende a identificarsi con l'io a causa del corpo, ma che si tratta di una identificazione soggettiva e arbitraria, comunque limitata nel tempo; perché, se è vero che non possiamo immaginare un io senza corpo, possiamo però immaginare benissimo uno spirito senza corpo e, dunque, senza io.
Riprendiamo, brevissimamente, alcuni concetti già espressi in quella sede.
Non si può affermare che lo spirito sia il contrario dell'io; non è più grande, né più piccolo; non è più vicino, né più lontano: esso è, semplicemente, un'altra cosa. Lo spirito è diverso dall'io: è un ente a sé stante; il quale, fino a quando si trova congiunto ad un corpo, cade nell'illusione di chiamarsi «io», identificandosi con la sua parte transitoria e non essenziale.
E proprio questo è stato il fraintendimento in cui sono caduti le filosofie idealiste e, in parte, anche quelle spiritualiste: aver posto lo spirito come sinonimo dell'io, come una cosa sola con l'io. Invece lo spirito è un ente ontologicamente completo e perfetto, mentre l'io è un ente anfibio e, in ultima analisi, psicologico: è la coscienza che si pone come soggetto, ma soggetto di che cosa? Non di se stessa, perché anch'essa sta fra lo spirito e il corpo, è di natura ambigua: senza l'unione temporanea di corpo e spirito, non vi sarebbe coscienza, quindi non vi sarebbe io. Di che cosa è allora soggetto la coscienza, di che cosa è soggetto l'io? È soggetto nei confronti del mondo esterno, nei confronti del tu.
E tuttavia, si tratta di una distinzione reale, di una distinzione ontologica, o non piuttosto di una distinzione puramente apparente? Perché se l'io è un ente transitorio, mentre lo spirito è un ente permanente, allora si può parlare, per l'io, di un dentro e un fuori, ma non lo si può fare per lo spirito.
Lo spirito, in ultima analisi, è uno; anzi, già questa è una definizione ingannevole, perché nasce da una contrapposizione psicologica fra esso e l'io; mentre, come si è visto, lo spirito non è il contrario, dell'io, bensì, puramente e semplicemente, un'altra cosa. Pertanto, non diremo che lo spirito è uno, ma diremo piuttosto che lo spirito non è contrapposizione, dunque non è dualità. La filosofia indiana del Vedanta ha trovato la migliore definizione: esso è «ad-vaita», «non due»; perché, se dicessimo: «uno», già avremmo detto troppo.
Queste, alcune delle nostre considerazioni precedenti.
Ora è arrivato il tempo di riprendere quelle riflessioni e di svilupparle ulteriormente, spingendo il nostro precedente ragionamento fino alle sue ultime, logiche conseguenze.
Nel precedente articolo avevamo focalizzato la nostra attenzione intorno al problema dello spirito, alla sua natura, alla sua essenza non duale; adesso, invece, desideriamo concentrare il nostro interesse sull'altro versante della questione, ovvero sull'io.
Innanzitutto, domandiamoci: che cos'è l''io?
L'io è, sostanzialmente, atto coscienziale, presenza del soggetto a se medesimo. Un albero, un leone, un grillo, non hanno un io, perché - almeno stando alle nostre attuali conoscenze - essi non hanno coscienza di se medesimi, ma solo coscienza della realtà in cui sono immersi e della quale sono parte. In altre parole, non possiedono lo sdoppiamento coscienziale di soggetto e oggetto; non c'è, in essi, una parte capace di dire: «io» ed un'altra che sappia dire: «tu».
Nell'essere umano, tale sdoppiamento coscienziale avviene; ed è su di esso, sia detto fra parentesi, che, in genere, egli fonda le proprie pretese di superiorità su tutti gli altri esseri viventi; perché, pur ammettendo che esso è fonte di notevoli sofferenze e di una sorta di estraniamento dal mondo naturale in cui vive, si vorrebbe tuttavia vedervi un elemento di consapevolezza che sarebbe, al tempo stesso, segno e conferma della eccellenza della creatura umana, ciò che le conferirebbe il diritto di disporre a proprio piacere di tutte le altre creature.
Ma di questo, un'altra volta.
La domanda che intendiamo porre adesso è un'altra, e cioè: un tale sdoppiamento della coscienza è giustificato, sul piano ontologico? Che cosa è, in ultima analisi, la coscienza stessa? Si dice che essa è consapevolezza del proprio io: ma se l'io è sdoppiamento, allora esso è il prodotto di un atto secondario, non è un dato originario dell'essere.
Questo è un punto di capitale importanza. Ciò che è secondario, non ha struttura ontologica, ma derivata; non è l'essere, ma una attività o una modificazione dell'essere. Dunque, l'io non è una struttura permanente dell'essere, al contrario, è un ente transitorio e cangiante, come si può bene osservare, solo che lo si tenga sotto osservazione per un certo lasso, anche beve, di tempo. Il mio io di stamane, non è il mio io del pomeriggio e meno ancora quello della notte inoltrata; il mio io di dieci, venti o trenta anni fa, non è più quello di oggi.
E non parliamo delle cosiddette personalità multiple: ossia di quelle personalità che esprimono, contemporaneamente (!), diversi e contrastanti piani di coscienza, diversi e contrastanti piani dell'io, ove solo per una sorta di convenzione si riesce a distinguere una personalità primaria da quelle secondarie.
È, ancora, una abitudine mentale degli psicologi, quella che li porta a generalizzare ciò che stabiliscono, per ragioni operative, sul piano empirico e quantitativo. Essi dicono: questa personalità è emersa dopo, e si manifesta per un tempo più breve (il che non è sempre vero: vi sono casi di personalità secondarie che sono divenute primarie e stabili); dunque, non è quella «vera», ma una posticcia. Ma chi ce ne assicura? L'atteggiamento degli psicologi è legittimo, ma solo nel campo pratico: a livello ontologico, nulla e nessuno consentono di dire quale sia la personalità primaria e quale la secondaria. La durata non è un elemento decisivo; forse che non sappiamo tutti come un uomo possa trovare il coraggio di essere veramente se stesso magari per un attimo solo, magari proprio nell'attimo conclusivo della propria vita?
Perciò, quando lo psicologo stabilisce ciò che è primario e permanente, e ciò che è secondario e transitorio, il filosofo ha tutto il diritto di domandargli: «Amico, in base a quali elementi essenziali, e non puramente esteriori, tu affermi questo? Non è forse vero che quanto si trova sul piano dell'essere, ossia delle realtà permanenti, di ciò che è realmente primario, può tuttavia manifestarsi come secondario nel piano della vita quotidiana, ossia del contingente e del relativo? Non è forse vero che, quando si parla di ciò che è originario, non ci si può basare su quello che si manifesta esteriormente, perché sarebbe capace di indossare mille maschere e mille travestimenti per sembrare altro da ciò che realmente è?».
Ma facciamo ancora un passo avanti e domandiamoci: esiste veramente, l'io? Se esso corrisponde a uno sdoppiamento della coscienza, tale sdoppiamento è reale, o apparente? Quali prove abbiamo del fatto che si tratti di un movimento reale, e non puramente illusorio?
Ebbene, riflettendo a lungo sulla questione, ci sembra sia difficile arrivare a una conclusione diversa dalla seguente: non esiste nessuna prova, nessuna garanzia circa l'esistenza di un io reale, oggettivo, permanente; tutto quel che possiamo osservare, in noi stessi e negli altri, è un flusso continuo di dati della coscienza, di percezioni, pensieri, ricordi, immaginazioni, e così via. Niente, assolutamente niente che autorizzi a parlare di un io permanente; niente, assolutamente niente che consenta di riconoscere una struttura stabile, primaria, ontologica.
L'io, in definitiva, non è un dato dell'essere, ma una sua proiezione illusoria, un suo ingannevole prolungamento.
Come afferma il buddhsimo Theravada, ci sembra quanto meno una ragionevole ipotesi di lavoro quella che l'essere umano non possieda un io, ma un complesso di operazioni mentali sempre cangianti e mutevoli; complesso di operazioni mentali alle quali, per abitudine e per comodità, abbiamo attribuito il nome di «io».
Ma, se l'io non esiste, chi è allora che vuole, spera, desidera, teme; chi è che ci porta di qua e di là, ora allietati da cieli sereni, ora terrorizzati da paurose lune nere; chi è che esprime giudizi, che formula ipotesi, che dubita di tutto, anche di se stesso (il cogito cartesiano!), che s'interroga e lotta per aprirsi una via verso la verità, verso la luce? Non è forse la coscienza? Ma se la coscienza è un altro nome che diamo all'io, allora nemmeno essa esiste?
Probabilmente no; nemmeno essa esiste. E di dove provengono, allora, il timore, il desiderio, il dubbio e tutto quello che abbiamo detto? Da una illusione: illusorio è il mondo materiale, ed illusorio è il centro permanente dell'io. Ma chi è, dunque, il soggetto di una tale illusione?
Perché ogni operazione mentale vuole il proprio soggetto: questo, almeno, in base alle nostre categorie di pensiero.
Ebbene: il soggetto dell'illusione coscienziale non è altri che lo spirito, il quale, come abbiamo precedentemente visto, non s'identifica affatto con l'io, e che è, esso sì, stabile e permanente. Ma, in ultima analisi, lo spirito individuale non è che illusione anch'esso: perché, a rigor di termini, non esiste e non può esistere che un solo ed unico Spirito: l'Essere, fonte di ogni realtà, manifestata e potenziale, transitoria e permanente, stabile ed illusoria.
Nel precedente articolo, avevamo sostenuto che quando lo spirito si separa dal corpo, non si dovrebbe dire - se non in senso puramente figurato - che esso ritorna all'unità e che si fonde con tutti gli altri spiriti; perché gli spiriti non sono veramente distinti l'uno dall'altro, se non quando si trovano legati ad un corpo e ad un io; ma, quando si sciolgono da essi, la distinzione cade.
Ebbene, non esiste una vera distinzione tra gli spiriti individuali, per il semplice fatto che essi non sono realmente separati dall'Essere, ma solo immersi nell'Essere, sono parte dell'Essere, una sua emanazione; e, allorché divengono consapevoli della loro reale natura, cade la loro illusione e cessano di porsi in una sfera di realtà circoscritta ed autonoma, per fondersi pienamente nella luce dell'Essere.
Ha scritto il sacerdote francescano Ignacio Larrañaga nel suo volume: «Dalla sofferenza alla pace. Verso una liberazione interiore» (titolo originale: «Del sufrimiento a la paz. Hacia una liberación interior», Ediciones Cefepal, Santiago de Chile, 1985; traduzione italiana di Ada Jachia Feliciani, Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline, 1986, 1987, pp. 138):
«Una cosa è la persona e un'altra l'io. Ripeterò qui alcuni concetti estrapolati dal mio libro "Sali con me".
La persona è una realtà composta e un composito di realtà. Possiede una costituzione fisiologica, una capacità intellettuale, una struttura temperamentale, un corredo di istinti.. Tale insieme è presieduto e compenetrato da una coscienza che, da padrona, fonde le varie parti. Tutto quest'insieme integrato è l'individuo.
Ebbene, la coscienza proietta per se stessa un'immagine dell'intera persona. Naturalmente una cosa è CIÒ CHE la persona È - e a questo daremo il nome di realtà - e un'altra l'immagine che mi formo di tale realtà. Se la realtà e l'immagine s'identificano, siamo nella saggezza od oggettività.
Normalmente, però, succede quanto segue: la saggezza comincia ad allontanarsi dalla valutazione oggettiva di se stessa in un duplice giuoco: dapprima non accetta, anzi rifiuta la sua realtà; successivamente nasce in lei il COMPLESSO DI ONNIPOTENZA: desidera e sogna un'immagine "onnipotente", per così dire. Dall'aspirare ad essere quale si raffigura nell'immagine, passa insensibilmente a credere di esserlo: un'immagine illusoria ed enfiata che nel presente studio chiameremo "io".
Si finisce, quindi, col confondere ed identificare CIÒ CHE SONO CON CIÒ CHE VORREI ESSERE (o immagino di essere). Nel processo generale di falsificazione, a questo punto, l'uomo aderisce emotivamente, avvolte morbosamente, a tale raffigurazione aureolata e illusoria di se stesso, in una completa simbiosi mentale tra la persona e l'immagine.
Come chiaramente appare, non stiamo parlando del vero IO, che è la coscienza oggettiva della propria identità, ma della sua falsificazione o illusione, ed è quest'ultima che, generalmente, prevale nell'essere umano,. Ed è per tale motivo che lo porremmo tra virgolette ("io").
In definitiva l'"io" è un'illusione. È una rete concentrica intessuta di desideri, timori, ansietà, ossessioni. È un centro immaginario a cui adattiamo, attribuiamo o riferiamo tutte le esperienze di vita, siano esse sensazioni o impressioni, ricordi o progetti.
Il centro immaginario nasce e cresce e si alimenta di desideri e, a sua volta, li genera, come l'olio mantiene viva la fiamma della lampada. Consumato l'olio, la fiamma su spegne; annullato l'"io", cessano i desideri, e, viceversa, spenti i desideri, si estingue l'"io". È la liberazione assoluta.
L'"io" non esiste come entità permanente, come sostanza durevole. Ha mille volti, cambia come le nubi, si alza e si abbassa come le onde, è mutevole come la luna: di mattina ha il volto gioioso; a mezzogiorno un'ombra vela i suoi occhi; all'imbrunire ci appare spiritoso; alcune ore più tardi un'oscura preoccupazione lo rende accigliato.
L'"io" consta di una serie di io che si rinnovano incessantemente e si susseguono gli uni agli altri. È solo un processo mentale che costantemente si distrugge e si ricostruisce. L'"io" non esiste. È un'illusione immaginaria. È un'apparenza che ci seduce e ci obbliga a piegare le ginocchia e stendere le braccia per aderire ad essa con tutti i nostri desideri. È come abbracciare un'ombra. Non è un'essenza, ma una passione, accesa dai desideri, dai timori e dalle ansietà. È una menzogna.
E quella menzogna è la madre feconda di ogni male.
Esercita sulle persone una tirannide ossessiva. Esse sono tristi perché sentono che la loro immagine ha perduto smalto. Notte e giorno sognano e si affannano per aggiungere un po' più di risalto alla loro figura. Vanno di sussulto in sussulto, danzando allucinate attorno a questo fuoco fatuo. E nel ballo generale, al ritmo e al viavai di quel fuoco, sono amareggiati dai ricordi, intristiti dalle ombre, turbati dalle ansietà e feriti dalle inquietudini. E così l'"io" ruba loro la pace del cuore e la gioia di vivere.
L'"io" è inoltre un Caino fratricida. Innalza mura insormontabili tra fratelli e fratelli. Il suo motto è: tutto per me, nulla per te. Attacca, ferisce e uccide chiunque brilli più di lui. Su tutte le lotte fraterne sventola sempre la bandiera e l'immagine dell'"io". In un parto notturno dà incessantemente alla luce gli amari frutti delle invidie, delle vendete, dei dissapori e delle divisioni che assassinano l'amore e seminano dovunque la morte.
L'amor proprio non vuole perdonare; preferisce la soddisfazione della vendetta: una pazzia, perché è solo lui a bruciare.
Alle persone importa meno il possedere che l'apparire: solo quanto fa risaltare la vana menzogna della loro figura sociale sveglia in esse interesse. Per questo smaniano per i vestiti, le automobili, le case, le brillanti feste eleganti, l'apparire nelle colonne mondane dei giornali più importanti; per tutto ciò, insomma, che è apparenza. In un mondo artificiale che gira e gira intorno a questa vana e seducente farfalla.
In sostanza l'"io" è una pazza chimera, un fuoco fatuo, un'etichetta e un abito, una vibrazione inutile che perseguita e ossessiona. È un flusso continuo e mutevole di sensazioni e impressioni, legate a un centro immaginario.»
Come si vede, Larrañaga opera una distinzione tra l'io in senso psicologico, che egli considera illusorio (nella maggioranza dei casi!), perché basato su una erronea identificazione tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere; e l'io in senso filosofico, ovvero la struttura permanente, che costituirebbe il soggetto di tale falsa identificazione.
Ma, suggerisce questo Autore, se la persona fosse capace di identificarsi correttamente con la propria essenza, ovvero di far coincidere il proprio sé con l'immagine di esso, allora ogni problema sarebbe risolto e l'io non sarebbe illusorio e dannoso, ma veridico e benefico; e, di fatto, secondo lui taluni esseri umani sarebbero capaci di tanto.
Eppure, ci sembra che il suo ragionamento contenga un difetto di coerenza. Di fatto, tutto ciò che egli dice a proposito del falso io, lo si potrebbe dire, tranquillamente, dell'io in quanto tale.
Oppure c'è qualche cosa che si possa dire dell'io psicologico, che non calzi perfettamente anche al concetto filosofico dell'io? No, non c'è: e da questo si vede che essi sono una sola e medesima cosa; che non c'è un io percepito ed un io in se e per sé, ma solo e unicamente una illusione del'io, tanto che essa venga percepita in modo «realistico», quanto che venga percepita in modo erroneo, soggettivo, narcisistico e deformante.
Ci permettiamo di riprendere un passaggio chiave del discorso di Larrañaga::
«L'"io" non esiste come entità permanente, come sostanza durevole. Ha mille volti, cambia come le nubi, si alza e si abbassa come le onde, è mutevole come la luna: di mattina ha il volto gioioso; a mezzogiorno un'ombra vela i suoi occhi; all'imbrunire ci appare spiritoso; alcune ore più tardi un'oscura preoccupazione lo rende accigliato.
L'"io" consta di una serie di io che si rinnovano incessantemente e si susseguono gli uni agli altri. È solo un processo mentale che costantemente si distrugge e si ricostruisce. L'"io" non esiste. È un'illusione immaginaria. È un'apparenza che ci seduce e ci obbliga a piegare le ginocchia e stendere le braccia per aderire ad essa con tutti i nostri desideri. È come abbracciare un'ombra. Non è un'essenza, ma una passione, accesa dai desideri, dai timori e dalle ansietà. È una menzogna.»
Se l'io è una menzogna, allora che cosa ci garantisce che vi sia una maniera giusta di percepirlo, ed una maniera erronea e fuorviante?
Chi stabilisce la distinzione tra un io vero ed un io falso?
Non è, anche questa, una operazione inevitabilmente soggettiva, dato che a compierla è pur sempre un io giudicante, ossia un io fallibile e tendenzialmente menzognero, perché puerilmente innamorato di se stesso?
Dobbiamo liberarci dall'io, dunque; perché esso è sempre ingannevole; e perché, in esso, quello che siamo e quello che crediamo di essere, sono SEMPRE due cose diverse.
Data l'importanza e la complessità della questione, ci riproponiamo di ritornarvi sopra in ulteriori occasioni; siamo perfettamente consapevoli che sarebbe ingenuo pensare di aver deciso in poche righe una questione filosofica ed esistenziale di tale portata.
Lo faremo con pazienza, un poco alla volta, esaminando altri aspetti del problema ed anche le conseguenze che ne derivano, sia sul piano speculativo, sia su quello della vita pratica.
Per adesso, ci fermiamo qui; sperando di aver fornito qualche utile stimolo alla personale riflessione di chi ci abbia seguiti in questo e in altri, precedenti lavori.