Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell' Afghanistan
di Duccio Canestrini - 02/11/2009
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C’è una misteriosa isola etnica, nel cuore del continente asiatico, che per noi europei costituisce da sempre una specie di mito. L’antico Kafiristan rappresenta infatti l’ebbrezza, l’amore, la poesia e tutti i sentimenti pagani che abbiamo ereditato dalla civiltà del dio Pan. Questa mitica terra alle pendici della imponente catena montuosa dell’Hindukush, popolata dalle genti kalash, doveva esistere, necessariamente. Non fosse altro che per il nostro etnocentrismo, teso a proiettare schemi e valori che ci appartengono anche sulle culture più lontane. E a interpretarne i tratti distintivi, alla luce della nostra storia. Vuole il mito che il dio greco Dioniso, durante il suo viaggio nelle Indie accompagnato da un corteo di festose baccanti e di silenti (spiriti dei boschi e della natura selvaggia immaginati in forma umana e con orecchie, coda e zampe equine) abbia posto le basi di un insediamento.
Si dice che Alessandro Magno, nel corso della sua grandiosa spedizione in Oriente (IV secolo avanti Cristo), fosse passato da questo avamposto ellenico, e che ebbe a pentirsene. Perché il fascino di quell’isola di grecità, con gli effluvi di mosto che ne emanavano, catturò non pochi suoi soldati, che disertarono. E qui il mito mette radici in terra, Si comincia così a favoleggiare di una terra d’Oriente abitata da gente bionda, di carnagione chiara, con occhi cerulei, che passa il tempo a bere e a cantare, e che sacrifica giovani maschi di capra a un ventaglio di dèi . Con questo mito in mente, partono i primi antropologi armati di strumenti craniometrici, per misurare le caratteristiche fisiche di questi nostri cugini levantini.
Partono scrittori per ambientare, tra quelle mitiche valli, racconti come “L’uomo che voleva essere re” di Rudyard Kipling. Partono cercatori di verità come Georges I. Gurdijeff, alla ricerca di personaggi illuminati (da leggere i suoi “Incontri con uomini straordinari”, pubblicato da Adelphi nel 1987). Partono, verso la fine degli anni Sessanta, anche gli hippy. Sono giovani un po’ stufi di seguire le tracce indiane già battute dalla “generazione bruciata” americana, e che desiderano invece vivere una utopia libertaria, che li conduca a scoprire le loro radici profonde. L’orientalista Fosco Maraini, anch’egli vittima di una cotta per i kalash, che visitò nel 1959, al ritorno da una spedizione del Club alpino italiano sul Sarahgrar dell’Hindukush (7.349 metri), oggi commenta: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Una fanciulla, appoggiata a un muretto di sassi, stava suonando un flauto. Non si scompose per nulla al nostro passaggio, e continuò a riempire l’aria di una musichina lieve, commento perfetto a quanto vedevamo intorno a noi. Pareva impossibile non ci scappasse la parola arcadico’. Tanto infatti risultò adatta al luogo e alla gente, che la usammo, a proposito e a sproposito, per due o tre giorni: ‘Hai visto l’arcadico vecchio?’. ‘Ecco le arcadiche fanciulle!’. ‘Dov’è l’arcadica capanna?’. ‘Buttami l’arcadica pentola”’. Qual è la vera storia dei kalash? I linguisti hanno individuato nel loro idioma, il kalashwar, preponderanti influenze sanscrite. I paletnologi li definiscono indo-ariani. Gli storici delle religioni vedono nel loro pantheon indiscutibili affinità con gli dèi vedici. Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese. tratto da AIRONE n° 98 giugno 1989 Un popolo irriducibile
Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “profondo” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali. Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una Dea Giunone che non disdegna offerte di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno. Delle tre feste tradizionali dell’anno kalash (Joshi in primavera, Prun in autunno e Chaumos in inverno), l’ultima è forse la più importante, perché al rigore della stagione fredda si affidano i più ferventi aneliti e le preghiere più sentite, nella speranza che la morte bianca celi la consueta promessa di rigenerazione. Il Chaumos dura circa due settimane, ed è concepito come una serie di atti di purificazione e di rituali propiziatori alla visita del grande dio della generazione Balumain, che avviene all’alba della notte più lunga dell’anno. Una guerra di parole |
Figli di Dioniso
L’ultima falange macedone |
Nel 1933, per esempio, un esploratore inglese, il colonnello R. Schomberg, giunse per tortuosi sentieri di montagna nella fortezza della tribù degli Hunza e visitò la vicina regione di Nagar. Il signore degli Hunza, il Mir, narrò Schomberg, era orgogliosissimo di discendere da Alessandro. "È buona diplomazia da parte della straniero osservare che c’è grande somiglianza tra il profilo del Mir e quello in rilievo su una moneta greca" scrisse l’esploratore inglese "ma la cosa strana è che la somiglianza esiste davvero." Voglio accertarmene di persona. Il mio viaggio si conclude circa 600 chilometri a nord di Islamabad, nel cuore delle grandi montagne del Karakorum. L’ampia valle di Hunza, sul confine pakistano con la Cina, sembra galleggiare nel cielo, un anfiteatro di pietra sorvegliato da gigantesche sentinelle alte più di 7000 metri. In mezzo a questi colossi di roccia e di neve vivono montanari robusti e longevi. Sul lato sottovento dei ripidi pendii di un gigante innevato, capanne di fango sono disposte come le pietre di un guado lungo le pareti color cannella della valle. Appollaiato su una lingua di roccia sopra le capanne c’è il Forte Baltit, una rocca di pietra e legno costruita 700 anni fa, circondata da bui precipizi.
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