La scuola agra
di Giovanni Tesio - 25/11/2009
Copertina de La scuola agra, di Giovanna Lo Presti
Giovanni Lo Presti, autore della Scuola Agra, ci invita a riflettere. Perché imparare “per la vita” se la vita si è così evidentemente economicizzata, tecnologizzata, burocratizzata, atomicizzata, utilitaricizzata? Non sarebbe forse meglio imparare “per la scuola”?
Insegnanti sofferenti, studenti latitanti, riforme incongruenti, scuole fatiscenti, apparati imbarazzanti. S’intitola La scuola agra il bel libello (un po’ pamphlet) che Giovanna Lo Presti ha pubblicato presso le Edizioni romane per la decrescita felice (pp. 104, euro 8), parafrasando il titolo famoso di uno dei romanzi più aspri e grotteschi che la letteratura italiana del secondo Novecento abbia saputo esprimere: La vita agra di Luciano Bianciardi.
Quanto è ancora pertinente il famoso adagio latino, Non scholae sed vitae discimus? Quanto piuttosto, oggi, rovesciabile nel suo opposto: Non vitae sed scholae discimus? Perché imparare “per la vita” se la vita si è così evidentemente economicizzata, tecnologizzata, burocratizzata, atomicizzata, utilitaricizzata (lo stridore degli impronunciabili nomi)? Non sarebbe forse meglio imparare “per la scuola”, ossia “decrescere” per recuperare quel nucleo folto di valori che rimandano all’inutile piuttosto che all’utile, al gratuito piuttosto che all’economico, al formativo – ed è un semplice bisticcio – piuttosto che all’informatico?
Domanda provocatoria che scaturisce dalla lettura di questo j’accuse di pacata – e a tratti ironica – tessitura. Domanda provocatoria per raccogliere la sfida di alcune domande ben più serie che l’autrice – nella sua personale esperienza di tanti anni di insegnamento – giunge a porre con la dovuta puntualità. Come può la scuola arginare lo strapotere della televisione, dei videogiochi, del cellulare? Come può opporsi al frastuono della merce e alla logica del profitto? Come può contrastare la prepotenza dell’homo oeconomicus su ogni altro aspetto dell’umano? Come può contendere alla velocità dello slogan il più libero campo di un’articolata conquista linguistica? Come può recuperare a se stessa elementi di credibilità?
Otto capitoli tra una premessa e una postilla per tentare un’analisi di ciò che la scuola sta diventando – da Berlinguer alla Gelmini, via Fioroni, via Moratti: la Gelmini come esito ultimo di una perversa consecutio – con preoccupante continuità politica, più che per trovare risposte sicure, visto che qui non valgono né certificazioni né imbonimenti di qualità, e meno che mai vale la strombazza dell’eccellenza chimerica: corsi straordinari, corsie preferenziali, effetti speciali, aule magnetiche, soccorsi salvifici, zone ludiche, prof confidenti, pof provvidenti, bar accoglienti, laboratori aggiornati, sponsor illuminati, dirigenti alati, promesse mirifiche, risultanze pacifiche, prospettive infallibili, futuri incredibili.
Qui si parla piuttosto di scuola-azienda e dell’ingresso delle aziende nella scuola, si parla di “falsità immanente”, di fine della scuola pubblica, di perdita del principio di anteriorità, che significherebbe semplicemente l’autorità di chi viene prima: la catena delle generazioni, il silenzio del passato, il discredito della memoria, lo stato di orfanezza, di disagio, di afasia, di vuoto istituzionale.
Il risultato è ben diverso da un altro libro sulla scuola, Orgoglio di classe, che Margherita Oggero – altra insegnante, più anziana, che faceva tuttavia tesoro di un’esperienza vissuta – pubblicò da Mondadori un anno fa. Diverso perché mentre il discorso della Oggero si traduceva in un taglio più pratico, quello della Lo Presti si traduce in un taglio più critico. Il buon senso della Oggero diventa più sistematica (ancorché sintetica) esegesi nella Lo Presti, che cita Gramsci, cita Adorno, cita Steiner, cita Debord (ma anche Contessa di Paolo Pietrangeli e Pierino Porcospino di Heinrich Hoffmann nella traduzione di Gaetano Negri), mirando a fissare i fondamentali di una crisi dal volto plurimo e dai risvolti complessi: passaggi di una cultura che si riverbera sia sui principi di fondo sia sulle pratiche specifiche (disorientamenti, smarrimenti, scoraggiamenti, lamenti, ipocrisie, menzogne, che caratterizzano e bollano un intero sistema di riferimento).
La scuola che ne emerge è una scuola perduta, il cui ritrovamento non può essere delegato alla buona volontà dei singoli, spesso incrementata da una progettualità vacua, burocraticamente disposta, ma se mai – in questo j’accuse che diventa quasi una complainte – a una buona dose di speranza, che all’autrice richiama un passo di Steiner e al suo recensore un passo di Havel, desunto da Seamus Heaney: “Non è la convinzione che qualcosa finirà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come finirà”. L’implacabile e laico illuminismo dell’analisi che cede alla misteriosa passione del riscatto.