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Cari bamboccioni impreparati

di Luca Ricolfi - 19/01/2010

 
 
La maturità di un ceto politico, così come quella di un individuo, si misura anche dalla capacità di cogliere l’ironia, lo scherzo, l’umorismo, più in generale di capire in che registro avviene un discorso. La stessa frase, ad esempio «vorrei essere in Antartide con i pinguini», a seconda del tono, del contesto e di chi la pronuncia può significare che mi sto preparando a un viaggio avventuroso ma anche, più banalmente, che i miei commensali sono di una noia mortale.

Purtroppo la capacità di riconoscere e usare i registri è fra le facoltà che stiamo perdendo, come giustamente ci ha ricordato Cesare Segre in un bell’articolo di pochi giorni fa sul «Corriere della Sera». Una conferma di tale perdita ci viene dalle reazioni alla proposta del ministro Brunetta di stabilire «per legge» che a 18 anni i giovani devono lasciare la famiglia. Non è bastato che il ministro stesso, forse consapevole del livello di immaturità del circo mediatico, abbia specificato subito che lo diceva «un po’ scherzando».

Nonostante l’evidente natura paradossale della proposta (una norma dirigista e illiberale proposta da un liberale come Brunetta!), si è immediatamente scatenato il putiferio del dibattito, delle accuse, delle messe a punto, delle prese di distanza. Giornalisti, ministri, parlamentari, dopo una settimana di cronache sul terremoto di Haiti, hanno immediatamente preso la palla al balzo per posizionarsi e criticare Brunetta, credendo o fingendo di credere che davvero il ministro avesse in mente una legge capace di costringere i genitori a espellere di casa i figli al compimento del diciottesimo anno di età. E’ un peccato, perché la provocazione di Brunetta tocca un tema serissimo, su cui vale la pena farci qualche domanda vera. Da molti anni le statistiche ci dicono che in nessun Paese occidentale i figli restano in casa con mamma e papà così a lungo come in Italia. Perché?

Per anni l’interpretazione dominante è stata che le cause sono essenzialmente economiche: poche occasioni di lavoro, mercato degli affitti congelato, proliferazione delle «università sotto casa». Da un po’ di tempo si stanno facendo largo anche letture meno economiciste, che avanzano il sospetto che c’entrino anche il familismo e il deficit di responsabilità individuale tipici della società italiana. Alberto Alesina e Andrea Ichino, ad esempio, in un bel libro appena uscito da Mondadori (L’Italia fatta in casa) ipotizzano che la lunga permanenza in famiglia sia anche il frutto di una scelta, ossia delle preferenze degli italiani. E Lucetta Scaraffia sul Riformista, citando una ricerca dell’Istat, fa notare che quasi metà dei «bamboccioni» restano in famiglia non per necessità, ma perché in casa si trovano fin troppo bene.

C’è un aspetto, tuttavia, che resta quasi sempre in ombra, e che invece a mio parere meriterebbe più attenzione: le scelte scolastiche dei giovani italiani. Fra i molti record negativi dell’Italia c’è anche il fatto che in nessun altro Paese sviluppato sono così tanti i giovani che potremmo definire nullafacenti, nel senso che né lavorano né studiano. Se a questo aggiungiamo il fatto che il numero di giovani che riescono a laurearsi è circa la metà di quello medio europeo, e che ai test PISA sui livelli di apprendimento i risultati dei nostri quindicenni ci collocano agli ultimi posti in Europa, forse riusciamo a vedere un’altra faccia del problema dei bamboccioni. E cioè che il guaio dei giovani italiani non è solo l’attaccamento a mamma e papà, la preferenza per i comodi della vita familiare, il deficit di responsabilità individuale, ma il fatto che la loro preparazione media è così bassa da impedire loro l'accesso a posti di lavoro di qualità. Detto più brutalmente, siamo noi che li stiamo ingannando, è la finta istruzione che forniamo loro a renderli così deboli. Quel che è successo è che da molti anni la scuola e l’università italiane non solo rilasciano pochi diplomi e poche lauree, ma rilasciano titoli formali più alti del livello di istruzione effettivamente raggiunto. La conseguenza è che abbiamo un esercito di giovani che, per il fatto di avere un titolo di studio relativamente elevato (diploma o laurea), aspirano a un posto di lavoro di qualità, ma per il fatto di essere più ignoranti del giusto difficilmente riescono a trovare quello che cercano. Un sistema di istruzione ipocritamente generoso illude i giovani e ne innalza il livello di aspirazione, un mercato del lavoro spietato li riporta alla realtà. Con tre conseguenze empiriche, che le cronache di questi giorni propongono crudamente alla nostra attenzione.

Primo. In un concorso pubblico per vigili urbani nemmeno i laureati riescono a superare decentemente le prove scritte, e quindi nessuno viene ammesso agli orali, e tanto meno assunto (concorso di Grosseto). Secondo. Ancora una volta un genitore si trova condannato dalla magistratura a mantenere figli ultratrentenni che non trovano un lavoro «adeguato» (l’ultimo caso a Bergamo).

Terzo. Nella crisi gli italiani perdono il lavoro (800 mila posti di lavoro in meno in 2 anni) mentre gli immigrati lo guadagnano (400 mila posti di lavoro in più in 2 anni).

Si potrebbe pensare che dipenda solo dal fatto che gli immigrati sono meno istruiti degli italiani, e per questo motivo si accontentano di lavori poco qualificati. Ma non è così, perché il livello di istruzione medio di italiani e stranieri è quasi identico. La differenza è che gli immigrati vogliono innanzitutto lavorare, e per questo accettano posti molto inferiori al loro livello di qualificazione. Mentre gli italiani pretendono di lavorare in posti adeguati alla loro istruzione formale, e raramente si chiedono se c'è una ragionevole corrispondenza con la loro istruzione effettiva.