Che cosa umilia una Repubblica laica?
di Franco Cardini - 27/01/2010
Il 2 luglio del 1798 un giovane militare che, piaccia o no, è colui che ha dato un senso alla Rivoluzione francese e resta, anche grazie alla sua opera di legislatore laico, uno dei “Padri storici” dell’Europa, sbarcava nel porto di Alessandria d’Egitto e lanciava uno stupefacente proclama, nel quale si sosteneva che la Repubblica nata dalla Rivoluzione e l’Islam riposavano sugli identici valori di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Al di là della sua genialità di demagogo (ma era anche ben altro), il generale Napoleone Bonaparte aveva una buona conoscenza dell’Islam: superiore forse a quella di molti politici d’oggi, francesi e non. Allora: sbagliava lui, o sbagliano oggi i suoi connazionali i quali vedono in alcune usanze (peraltro minoritarie) di alcuni gruppi musulmani d’oggi un insulto e un attentato a quei valori?
La repubblica francese di questi anni non è nuova a esperimenti liberticidi travestiti da misure libertarie: è già in vigore da tempo la norma che vieta il hijab il semplice velo da testa, praticamente un foulard) nelle scuole. L’alibi giuridico è stato, in quel caso, quello del “divieto di ostentazione di segni d’appartenenza religiosa”: una norma ambigua e pericolosa. Quand’è che una croce o una stella di David al collo diventa “ostentata”? Se ha un centimetro di diametro? O due? O cinque?
Ora, si vara una legge che proibisce gli abbigliamenti musulmani di copertura integrale (burqa e niqab), senza cercar nemmeno l’alibi dell’ostentazione: e tanto meno quello – che pur sarebbe plausibile – della sicurezza, nel nome della quale si può chiedere a chiunque di mostrar il volto scoperto come elemento d’immediata riconoscibilità. No. In questo caso si fa riferimento ai “valori della Repubblica”. E il presidente della commissione responsabile dichiara che burqa e niqab sono “solo la punta dell’iceberg”, perché in realtà rappresentano solo uno degli aspetti della repressione dei diritti della Donna nell’Islam. E’ un vecchio discorso: che però viene acriticamente ripetuto, senza che si fornisca mai lo straccio d’una prova dell’assunto dogmatico secondo il quale le donne musulmane, se potessero, insorgerebbero in blocco per sbarazzarsi di quegli odiati indumenti. Al contrario. E’ sempre più frequente imbattersi – piaccia o no – in donne musulmani giovani, istruite, magari carine, che adottano l’uso di quegli indumenti o che, pur non portandoli, ne difendono la legittimità. Capita sempre piu spesso di leggere e di ascoltare difese della copertura integrale per nulla retrograde e reazionarie, ma al contrario intelligenti e spiritose: dove per esempio si rimprovera alle “occidentali” la schiavitù costituita dall’ostentazione continua a tutti delle loro grazie, l’implicito mercimonio che in essa è presente, lo stress derivante dal dover esser sempre belle e ordinate anche quando si scende al market paragonato alla libertà di un bel burqa indossato in fretta per cinque minuti, sotto al quale magari si resta in calzamaglia e bigodini.
Esagerazioni? Mica tanto. Nei paesi musulmani sta montando un agguerrito e serio movimento femminista che punta a ben altro: e che difatti difende gli indumenti tradizionali. Quanto ai valori di una “repubblica laica” che paradossalmente tutela il diritto alla pubblica impudicizia ma punisce quello al pudore, va detto chiaro che la vera laicità consiste non già nel vietare simboli e atteggiamenti religiosi, bensì nel permettere e nel tutelare tutti i comportamenti che non impediscano la convivenza e l’esercizio dei diritti altrui. E imporre agli altri i propri canoni morali sostenendone aprioristicamente la “superiorità” non è laicità. E’ prepotenza.