Ildegarda di Bingen e il tema della doppia luce
di Paola Ricci Sindoni - 28/01/2010
Entrare dentro la densità potentemente simbolica del linguaggio di Ildegarda di Bingen,
prodotto dall’impeto dell’esperienza vivente e dall’urgenza dolorosa di una necessità,
quella di dire l’indicibile, è come sentirsi attraversati da una grande libertà di chi, come
lei, si è sentita travolgere da una inarrestabile forza vitale e sul proprio agire ha percepito
la libertà, la libertà di Dio.
“Il libro delle opere divine” ( a cura di M.Cristiani e M. Pereira, con un saggio
introduttivo di M. Cristiani, A. Mondadori, Milano 2003), potente affresco
cosmologico “il farci natura dello spirito” espresso in visioni corpose che traggono
ispirazione e conferma delle pagine della scrittura, da Genesi ad Apocalisse come ha
bene pensato qui Marta Cristiani, sembra rimandare, tramite un’ eco certamente di tipo
diacronico, ad un altro affresco, quello michelangiolesco della Cappella Sistina che –
come queste pagine- stordisce ed insieme affascina, specie in quella scena centrale che
rende possibile, al pari di Ildegarda, il movimento dell’invisibile: l’atto della creazione
che per sempre segna l’incontro fra il Dio creatore e l’Adamo, la creatura. Da un lato
Dio, animato da una potenza sovrana una potenza fatta di vigore carnale, quanto di
emanazione spirituale, dall’altro Adamo che non è un atomo, ne’ un feto, ne’ uno
schiavo, ma un compagno “l’uomo uguale al Dio – scrive Romain Rolland- che si
sveglia dal sonno della terra e guarda in viso Dio che lo risveglia, in silenzio, pronti tutti
e due a lottare”. Abbiamo tutti presente il fascino denso di quel risveglio, che si compie
attraverso la mano tesa del Creatore verso la creatura che a sua volta risponde col gesto
della mano tesa; le due mani comunque non si toccano, c’è un minuscolo, irriducibile
intervallo, uno spazio vuoto che vale la pena leggere nel suo potenziale teologico: è un
piccolo spazio sacro in cui risiede l’infinito del mistero e dell’invisibile ( E. Zola) che
segnano la tensione a rompere la solitudine di questi due esseri che non intendono
annullarsi a vicenda, quanto piuttosto lasciare che quel vuoto, quel piccolo spazio sacro
rimandi alla vita, alla lotta, alla cooperazione della mano di Dio con la mano dell’uomo.
In quel minuscolo scarto tra due dita tese l’una verso l’altra si compie l’evento mistico,
ormai per sempre segnato dai due, perché il due è il numero della relazione, il numero
della separazione ma anche del completamento, della tensione dell’uno verso l’altro, che
genera dubbio, crisi, alternativa. Il due è il numero del confronto, del rapporto teso
verso l’Altro, ma anche verso “noi” e “loro”, è il numero dell’accordo e della
competizione; insomma dell’originario porsi “faccia a faccia”, là dove si è pronti a
lottare – come Giacobbe con l’angelo- pur di avere delle risposte e pretendere una
benedizione, dove nessuno esce vincitore o vinto, anche perché il guadagno di un nome
nuovo porta il segno di una ferita lacerante.
L’evento dell’incontro–lotta con Dio, nella sua veste mitico-simbolica così come ci è
restituito dalle pagine di Ildegarda, porta sempre impressa la frattura dolorosa e
provocatoria del pensiero duale, così che non regge più lo stereotipo della mistica
femminile medievale raccolta asceticamente verso il centro dell’Uno, dentro “l’universo”
del proprio mondo interiore, che diventa misura privata di un legame intimistico
con Dio.
Le visioni di Ildegarda e le loro possenti traduzioni linguistiche non sono il risultato di
un pensiero monologico, volto a coltivare il pensiero del numero “uno”, ma il segno di
una espressione duale non solo perché portano il doppio sguardo di Dio sulla creatura e
della creatura su Dio, ma anche perché originariamente plurale, aperto cioè alla
multivocità della natura e del mondo.
Tale dualità, inoltre, la si rintraccia – grazie anche al ricco orizzonte storico che ci ha
aperto Marta Cristiani nella sua Introduzione - nell’esplicita rete di rimandi teologici e
filosofici che concorrono a questo grande affresco.
Le categorie fondamentali di Paolo e di Giovanni, innanzitutto, e poi Agostino e Duns
Scoto, la teologia simbolica di Dionigi l’Areopagita, ed anche l’intensità della visione
conoscitiva di Ugo di San Vittore convinto, come Ildegarda, che il percorso della
conoscenza intellettiva è incapace ad aprirci all’intuizione dell’immensità divina.
Dirà al riguardo Ildegarda che intelletto e ragione, ossia spiegazione teologica e
comprensione mistica sono “le due braccia dell’anima”, mai risolvibili in una unica
energia.
La presenza di questa dualità –che non è certo da confondere con alcun tipo di
dualismo, estraneo a questo orizzonte spirituale- la si ritrova in special modo
nell’autocomprensione di Ildegarda riguardo all’esperienza della luce che precede ed
accompagna le sue visioni.
Soprattutto in una lettera, datata 1771, al monaco Gilberto di Gembloux che le aveva
chiesto precise informazioni sulle sue visioni, Ildegarda fornisce delle preziose
indicazioni riguardo al loro darsi, così che esse possano essere fenomenologicamente
analizzate. Il ricorso al procedimento husserliano è qui d’obbligo: la filosofia, in questo
caso, lungi dall’esprimere interpretazioni teologiche sul contenuto delle visioni, è
chiamata ad esplicitare le modalità essenziali, il darsi originario del vissuto mistico, la
Sache insomma, così come si manifesta.
Le visioni si verificano – chiarisce Ildegarda- quando lei è completamente sveglia e
cosciente e non sembra assumere i caratteri dello stato di trance, di separazione
dell’anima dal corpo propri, ad esempio, dei culti misterici di marca ellenistica, pur
presenti in altre manifestazioni della mistica speculativa cristiana, maggiormente legata
all’aria rarefatta del neoplatonismo.
La visione, inoltre, e questo è il secondo tratto indicato da Ildegarda è sempre
accompagnata da una esperienza auditiva, rappresentata da una voce che viene dall’alto.
Questi sono elementi certi, per distinguere questo vissuto mistico da quell’esperienza di
Dio proprio della mistica speculativa secondo cui lo spazio intenzionale riempito dalla
presenza divina è lo spazio interiore del soggetto, ordinato secondo la struttura verticale
dello spirito che “uni- direziona” il percorso mistico.
E’ il caso comunque di lasciare ancora la parola ad Ildegarda quando presenta il terzo, e
più decisivo, carattere della visione, quella che la identifica con la luce, definita – come
si sa – “ombra della luce vivente”, mai assente dalla sua anima. Ma – precisa questa
donna – in questa ombra della luce vivente è presente “la luce vivente”, un’altra luce.
Scrive Ildegarda: “In essa talvolta ma non spesso [nell’ombra di luce] vedo un’altra luce
che chiamo “luce vivente”, ma non so dire quando e in che modo io la veda; però
quando la vedo, si allontanano da me tristezza ed angoscia ed allora mi comporto come
una semplice fanciulla e non più come una donna ormai vecchia”.
Un’altra luce, dunque, che certo si riflette nell’ombra di luce. Non ci sono due luci, una
differente dall’altra come pretenderebbe ogni rigido dualismo di stampo manicheo. Ma
dualità sì, o meglio una visione duale della luce, quasi che l’esperienza mistica di
Ildegarda non si esaurisse nello spazio uni- dimensionale dell’anima, ma estaticamente
(ex- stasis) si proiettasse fuori, che è quel mondo cultico e sacramentale in cui dimora il
mistero.
Certo, questa mistica duale, misterica è vissuta evidentemente nell’ambito interiore della
coscienza, orientata però in questo caso non verso la “fine punta” dell’anima, come nella
mistica speculativa, ma verso il contenuto oggettivo del mistero. Si tratta di due
differenti forme di esperienza di Dio: l’esperienza riflessiva e l’esperienza culticoliturgica
che ispirano due diverse – certo non opposte- concezioni della mistica, nate
entrambe nel terreno comune della rivelazione cristiana.
Ildegarda non sembra voler avviare un processo di identificazione con il divino nel
progressivo distacco ascetico, come ad esempio pretende l’Uno di Plotino, con i legami
sensibili della corporeità. La sua è teologia dello spirito (fuoco e vita). L’interiorità, per
lei, è certamente lo spazio privilegiato entro cui si svolge la visione, che è sempre
l’affacciarsi di “altro”, una luce (“l’altra luce”), di una voce (che viene dall’alto).
L’interiorità comunque non è l’ambito esclusivo e pervasivo della soggettività, quella
che come noi equivocamente identifichiamo da Cartesio in poi,come ambito specifico
dell’ “io”, marcando di questo equivoco tanto pensiero occidentale.
Analizzando fenomenologicamente la fonte del vissuto mistico della visione in Ildegarda,
è possibile intravedere come tale evento non venga totalmente assorbito dalla sua
soggettività, ma venga colto come proprio (custodito nella coscienza) e al contempo
come altro (“l’altra luce”). Come dire che questa donna mistica sostiene
drammaticamente in sé la ferita di questa dualità, che le fa vivere l’accadimento in prima
persona, come un fatto che la cattura pienamente, ma al contempo la sperimenta come
“altro da sé”, di cui sa di dover rendere conto, allo stesso modo dei profeti
veterotestamentari.
Innanzitutto c’è il messaggio, che urge e che deve essere comunicato, pena la perdita
della propria autenticità. In pieno momento storico come quello altomedievale, segnato
dal silenzio sociale delle donne, irrompe il dire mistico, e il tono alto di questo grido apre
ad Ildegarda nuove finestre sul mondo, così che incurante degli effetti e dei sospetti che
questo dire può suscitare al potere politico e a quello spirituale, ha preteso di incontrare
regnanti e papi per soccorrerli nelle loro cecità interiori e costringerli a cambiare rotta.
Non c’è dubbio che la sua mistica assuma un tono profetico, non solo rivestendosi
dell’attitudine critica nei confronti dell’insistenza con cui il male continua a imperversare
nel mondo, ma anche per quell’appassionato radicamento alla Scrittura Sacra.
La mistica profetica è mistica della Parola contemplata nella pienezza del suo essere e
del suo darsi: è il Verbo fatto carne a rappresentare la comunicazione totale e definitiva
di Dio agli uomini, ma è l’intero orizzonte di senso racchiuso nell’intero testo biblico – si
pensi alla lettura di Genesi compiuta da Ildegarda- a costituire il contenuto plastico delle
sue ardite rappresentazioni espressive.
Più vicino alla lettura semitica che a quella idealistica, non ha temuto a delineare
arditamente il carattere – come dire – fisico, corporeo degli eventi biblici, convinta che
la storia dell’incontro dell’uomo con Dio non è solo un grande avvenimento teologico e
antropologico, ma un evento presente in tutta la realtà, quella del cosmo, della natura,
del cielo organicamente (Theilard de Cardin) protesi verso il corpo glorificato del
Crocefisso- Risorto.
Non si pensi comunque, come si nota a tratti nella bellissima Introduzione di Marta
Cristiani, che la monaca claustrale Ildegarda si consumi in queste alte contemplazioni nel
chiuso della sua cella. Questo è di certo un altro elemento dell’esperienza duale della
spiritualità di Ildegarda. Con la semplice scorta di due monache e uno stalliere
attraverserà, a periodi alterni fra il 1158 e il 1163 il vasto territorio del Meno per poi
navigare la Mosella e il Reno spingendosi fino a Colonia, forse fino a Liegi. Le tappe di
questo percorso sono i monasteri femminili e maschili, che Ildegarda si impegna a
riformare (anche quelli maschili!), ma la sua predicazione investe la società civile, le
piazze, i mercati, le chiese in presenza del popolo, dei nobili, degli alti prelati, mentre è
accompagnata dall’eco, inaudita per una donna, della sua fama profetica.
Conviene aggiungere, in conclusione, allo stile tutto femminile con cui aveva improntato
i suoi monasteri, specie quello di Rupertsberg da lei fondato. La sua concezione della
donna monaca è tutt’altro che quella tradizionale, tanto da suscitare perplessità nella
badessa di Andernach che le scrive piuttosto allarmata:
“Ci è giunto all’orecchio qualcosa a proposito di un’usanza del vostro monastero
certamente non comune: che cioè nei giorni festivi, durante il salterio, le sorelle
siedono nel coro con i capelli sciolti e si ornano di un velo di seta bianca, il cui orlo
arriva fino a terra. Portano sul capo corone dorate e lavorate, nelle quali sono
armonicamente intrecciate su entrambi i lati e sul retro delle croci e sulla fronte
un’immagine dell’Agnello. Sembra inoltre che le sorelle si ornino anche le dita con
anelli d’oro. Tutto questo nonostante il primo pastore della Chiesa lo abbia proibito
con esortazioni, dicendo che le donne devono comportarsi costumatamente, senza
capelli intrecciati, oro e perle, né preziose vesti”.
Effettivamente, da Paolo in poi, gli autori spirituali si compiacciono di descrivere le
monache come figure sciatte e mortificate, così come le regole monastiche redatte
appositamente per comunità femminili insistono su una doverosa rigidità in materia di
abbigliamento. Ildegarda lungi dallo smentire queste voci contraddice ancora una volta
ogni scontata tendenza e propone la sua personale visione:
“Nello Spirito Santo le vergini sono spose della santità e dell’aurora della verginità.
Perciò devono avvicinarsi al sommo sacerdote come olocausto gradito a Dio. Per
questo motivo spetta alla vergine indossare una veste luminosamente bianca”.
Non è forse questa veste bianca l’abito della schiera dei beati dell’Apocalisse? Non
rappresenta il segno luminoso del mistero della verginità che vigila nell’attesa della
redenzione finale (Ap. 3, 4)?
“Dal chiarore dell’aurora – scrive Ildegarda- vidi uscire un uomo splendidissimo che
diffuse la sua luminosità sulle tenebre, ma fu avvolto da queste e fatto rosso di sangue
e bianco di pallore, vinse le stesse tenebre. Lingua umana non può esprimere a quale
altezza di gloria si sia innalzato”.
Nella dura lotta fra venuta dell’Anticristo e vittoria finale del Figlio dell’uomo si è
giocata la straordinaria avventura umana di questa donna, sempre vissuta di passione
all’ombra di quell’”uomo splendidissimo”.