L’11 settembre 2001, mentre osservavo l’orrore e la distruzione dell’attacco al World Trade Center, mi tornarono alla mente le immagini del luogo da cui ero venuta, di tutto ciò che la mia famiglia aveva dovuto affrontare e si riattivò in me la memoria cellulare profonda che conservo ancora come sopravvissuta al bombardamento di Dresda del 1945. Riuscivo a sentire la disperazione e il terrore della povera gente intrappolata nelle torri, la terribile consapevolezza che non c’era via di fuga e che ciò che stavo osservando era la morte collettiva di migliaia di persone, un inimmaginabile sterminio di massa. La mia mente urlava: questa è Dresda! E’ Dresda di nuovo!! Ne sono di nuovo testimone. E’ un altro tempo, un altro luogo, ma l’orrore e la distruzione sono gli stessi e l’unica differenza è un più lieve bilancio dei morti, poche migliaia di persone a confronto delle molte centinaia di migliaia di innocenti che morirono a Dresda.
Sono nata nelle prime ore della mattina del 7 settembre 1943, a Tallin, in Estonia, subito dopo un intenso bombardamento della città ad opera dei sovietici. Quando le sirene dell’allarme aereo iniziarono a suonare, mia madre, incinta e in piena fase di travaglio, si rifugiò in una cantina a casa di un’amica, senza sapere se sarebbe rimasta viva da un minuto a quello successivo o se sarebbe vissuta abbastanza da dare alla luce il bambino che stava per partorire.
Nel corso degli anni, mi sono domandata spesso quale karma e quali strani destini mi abbiano portata in questo mondo proprio durante quell’intenso bombardamento e quale miracolo ci abbia consentito di sopravvivere non solo a quella notte di terrore, ma a molti altri episodi che ci portarono a sfiorare la morte mentre fuggivamo dalle milizie sovietiche che avrebbero inghiottito l’Estonia per i successivi 50 anni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Estonia era stata occupata in numerose occasioni sia dai sovietici che dai tedeschi. Aveva sofferto sotto le brutali minacce d’invasione dei russi dall’est, aveva fronteggiato occupazioni e violenze contro il suo popolo nel corso dei secoli e aveva lottato per difendere la propria lingua e la propria cultura dalla perpetua minaccia di annientamento.
E per quanto l’Estonia fosse stata occupata in alcuni momenti anche dalle truppe tedesche, l’influsso esercitato dalla Germania era vissuto in modo diverso. C’era l’idea che la cultura estone si fosse evoluta sotto l’influenza tedesca, in termini di educazione, architettura, letteratura. E c’era il senso di comunanza con una cultura più nobile, rispetto alle orde di predoni che sarebbero piovute dalla Russia in spaventose ondate di saccheggi e massacri.
Verso la fine del 1944, divenne evidente che la Germania si stava ritirando e che il suo esercito si preparava a lasciare l’Estonia per l’ultima volta. Nella gente si diffuse l’agghiacciante consapevolezza che non ci sarebbe stata più una forza-cuscinetto da opporre alle armate sovietiche e che un’occupazione permanente e brutale da parte delle forze comuniste era imminente e inevitabile. Durante la prima occupazione sovietica del 1939/40, mio nonno e molti altri membri della nostra comunità erano già stati deportati nei gulag siberiani (campi di lavoro), dove erano morti di freddo e di stenti, e gran parte degli uomini del paese erano stati costretti al servizio militare.
La fattoria di mia nonna era stata occupata per qualche tempo dalle truppe tedesche. Era una grande fattoria, le cui risorse le consentivano di sfamare molti di quei soldati. Si provava nei loro confronti un senso di gratitudine per la protezione offerta contro le truppe sovietiche. Mia madre si innamorò di un ufficiale tedesco che prestava servizio nell’esercito come medico. Quando nell’autunno del 1944 l’armata tedesca iniziò la ritirata e divenne chiaro che l’invasione comunista era inevitabile, quel gentile medico tedesco fece in modo che anche io, mia madre e mia nonna potessimo lasciare il paese.
Ce ne andammo con una nave tedesca da evacuazione, che raggiunse la Germania attraverso il Baltico. La nave che era davanti alla nostra venne bombardata e affondò, senza che vi fossero superstiti. Si viveva momento per momento e il motto di mia madre era “vivi oggi perché il domani potrebbe non arrivare mai”. Mia madre e mia nonna erano convinte che, quale che fosse il destino che avremmo dovuto fronteggiare, sarebbe stato comunque migliore che l’essere condannate ai campi di lavoro sovietici e a morte certa, nel caso in cui fossimo rimaste in Estonia. Non vedemmo mai più quel medico tedesco, che fu richiamato a servire la sua patria. Ci unimmo al fiume di migliaia di rifugiati in cerca di un riparo e di un luogo sicuro, chiedendoci ogni giorno dove potessimo trovare del cibo e un tetto e dove potessimo nasconderci per avere salvezza.
La fame e la denutrizione erano nostre costanti compagne. Mia madre strisciava in ginocchio di notte attraverso i campi coltivati in cerca di un po’ di cibo, scavando con le mani nella speranza di trovare i rimasugli abbandonati di una patata. Anche negli anni successivi alla guerra, quando eravamo ormai al sicuro in Canada, gli occhi di mia nonna si riempivano di lacrime se iniziavo a lamentarmi di un cibo che non mi piaceva. Mi ricordava quanto fosse sacro il cibo e di come lei avesse tenuto da parte ogni briciola di pane per potermi sfamare.
Il flusso di umanità senza dimora, i senzatetto disperati e sconvolti dalle bombe, i profughi affamati, avevano tutti un’unica, fervida preghiera: che la guerra finisse presto, che potessero sopravvivere all’orrore, tornare a casa, riunirsi alle loro famiglie, e che per il momento fosse loro possibile trovare un rifugio sicuro dove ritemprare i loro animi provati dalla guerra.
E avvenne che fosse Dresda quella destinazione, la preghiera esaudita, il porto sicuro per centinaia di migliaia di profughi, la maggior parte dei quali erano donne e bambini. Molti fuggivano dall’armata sovietica in arrivo dall’est ed erano venuti a Dresda perché avevano sentito dire che si trattava di un luogo sicuro, che non sarebbe stato preso di mira dai bombardamenti perché non c’erano né fabbriche di munizioni, né installazioni militari, né artiglieria pesante in grado di alimentare la macchina bellica. Anche alla Croce Rossa era stato promesso che Dresda non sarebbe stata bombardata. Si ritiene che oltre mezzo milione di rifugiati si fossero riversati nella zona di Dresda in cerca di salvezza, facendo più che raddoppiare il numero della popolazione ordinaria.
Non so bene dove attraccò la nostra nave o quale strada prendemmo per andare a Dresda. Ma è probabile che scendemmo a terra nei pressi di Danzica e che ci facemmo poi lentamente strada verso l’interno per recarci a Dresda. Mi ricordo che mia madre e mia nonna mi parlavano spesso della loro preoccupazione di trovarsi di nuovo, nel corso del viaggio, dietro le linee sovietiche, poiché l’armata russa stava avanzando da nord e da est. Camminarono a piedi per centinaia di chilometri, con gli zaini in spalla e con me bambina legata su un carretto che loro spingevano e su cui avevano ammucchiato i loro pochi averi. Per anni mia madre conservò i vecchi stivali da neve che aveva indossato e che le ricordavano quella lunga marcia e i piedi sanguinanti. Li tirava sempre fuori dal cassetto quando si parlava di racconti di guerra. Quegli stivali logori e intrisi di sangue erano come vecchi amici fidati che l’avevano aiutata nel corso di quel lungo viaggio.
Non so quanto tempo rimanemmo a Dresda. Mia nonna, in cambio di un po’ di cibo, lavorava come infermiera in un ospedale della periferia cittadina e avevamo trovato, lì vicino, una stanza in cui vivere all’interno di una soffitta. Ma anche se il porto sicuro era stato finalmente raggiunto, entrambe le donne sapevano d’istinto che la sicurezza sarebbe durata poco, perché i sovietici stavano muovendosi rapidamente verso Dresda e si avvicinavano ogni giorno di più. Nel corso del loro viaggio da profughe, la loro paura più grande era quella di cadere nuovamente nelle mani dei comunisti e di essere rimandate in Estonia e poi nei campi di lavoro sovietici.
Il mio ricordo del bombardamento di Dresda è mediato dagli occhi di mia nonna, che fu testimone dell’orrore e della devastazione, e include alcuni episodi che la storia ha registrato. Anche l’esperienza di Elisabeth, l’unica altra sopravvissuta al bombardamento di Dresda che io abbia incontrato nel corso della vita, può conferire a questa storia una dimensione personale. Benché fossi troppo piccola per averne dei ricordi coscienti, ho rivissuto quegli eventi attraverso incubi notturni che si ripeterono continuamente nei miei primi 12 anni di vita, con il mio subconscio in lotta per liberarsi del terrore collettivo che era stato impresso sulla mia anima e che mi tormentava con immagini di morte e distruzione, con incendi spaventosi che annunciavano la fine del mondo, con la terra che si apriva in crepacci d’inferno pronti ad inghiottirmi.
Mia nonna iniziava sempre il racconto di Dresda con la descrizione dei grappoli di candele rosse infuocate che scendevano dai primi bombardieri e illuminavano il cielo come centinaia di alberi di Natale, segno certo che si sarebbe trattato di un attacco aereo di tutto rispetto. Poi arrivò la prima ondata di bombardieri britannici, che colpì poco dopo le 10 di sera della notte tra il 14 e il 15 febbraio 1945, seguita da altri due raid di bombardamento a tappeto ad opera di inglesi e americani nel corso delle successive 14 ore. La storia ritiene che si sia trattato del più mortale bombardamento aereo di tutti i tempi, con un numero di vittime superiore a quello delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
In 20 minuti di intenso bombardamento, la città si trasformò in un inferno. Il secondo attacco arrivò tre ore dopo il primo, con lo scopo dichiarato di “colpire i soccorritori, i pompieri e gli abitanti in fuga totalmente privi di copertura”. Nel complesso, gli inglesi lanciarono circa 3.000 tonnellate di esplosivo, che distrussero tetti, muri, finestre, interi edifici e che includevano centinaia di migliaia di sostanze incendiarie al fosforo, cioè un liquido infiammabile che diffondeva incendi inestinguibili in ogni crepa in cui penetrasse, accendendo la miccia dell’inferno che trasformò Dresda in un “uragano di fiamme”.
Quando gli americani sorvolarono la città per il terzo e ultimo attacco, il fumo che si alzava dalla città in fiamme quasi ostruiva la visibilità. Un pilota americano ricorda: “Lanciavamo le bombe da 8.000 metri d’altezza e riuscivamo a malapena a scorgere il suolo, a causa delle nubi e delle alte colonne di fumo nero. Non un solo colpo fu sparato contro i bombardieri britannici o americani”. Gli americani lanciarono 800 tonnellate di esplosivo e bombe incendiarie nell’arco di 11 minuti. Poi i P-51 americani scesero a volo radente e iniziarono a mitragliare le persone che cercavano di fuggire dalla città.
Mia nonna descriveva la terribile tempesta di fuoco che impazzava come un uragano, distruggendo la città. Sembrava che l’aria stessa fosse in fiamme. Migliaia di persone vennero uccise dalle esplosioni, ma un numero enorme e imprecisato venne incenerito dalla tempesta di fuoco, un tornado artificiale con venti che correvano ad oltre 100 miglia all’ora e che “risucchiavano vittime e detriti nel loro vortice e bruciavano l’ossigeno con temperature di 1.000 gradi centigradi”. Molti giorni dopo, quando gli incendi erano ormai spenti, mia nonna fece un giro nella città. Ciò che vide è indescrivibile in qualunque lingua umana. Ma la sofferenza incisa sul suo volto e la profondità dell’angoscia riflessa nei suoi occhi mentre raccontava questa storia erano la testimonianza dell’orrore ultimo, della crudeltà dell’uomo verso l’uomo e dell’assoluta oscenità della guerra.
Dresda, capitale della Sassonia, centro di arte, teatro, musica, musei, vita universitaria, splendente di armoniose architetture, un luogo di bellezza pieno di laghi e giardini, era completamente distrutta. La città bruciò per sette giorni e rimase rovente per settimane. Mia nonna vide i resti delle moltitudini di persone che avevano disperatamente tentato di sfuggire alla tempesta ardente tuffandosi nei laghetti e nelle piscine. Le parti dei loro corpi che erano immerse nell’acqua erano rimaste intatte, ma le parti che sporgevano fuori dall’acqua erano carbonizzate oltre ogni possibilità di identificazione. Ciò che vide fu un inferno al di là dell’immaginazione umana, un olocausto di distruzione che sfida ogni descrizione.
Ci vollero più di tre mesi soltanto per seppellire i morti, migliaia e migliaia di cadaveri vennero gettati in fosse comuni. Irving ha scritto: “Il bombardamento aveva colpito il bersaglio in modo così disastroso, che non era sopravvissuto un numero di persone in salute sufficiente a seppellire i morti”. Il massacro di massa e il terrore crearono così tanta confusione e disorientamento che ci vollero mesi prima di comprendere l’effettiva portata della devastazione; le autorità, per paura di un’epidemia di tifo, cremarono migliaia di cadaveri in pire frettolosamente allestite e alimentate da paglia e legno. La stima delle vittime compiuta dai tedeschi arrivava fino a 220.000 morti, ma il completamento dell’identificazione dei cadaveri fu interrotto dall’occupazione di Dresda da parte dei sovietici, nel maggio successivo.
Elisabeth, che all’epoca del bombardamento di Dresda era una ragazza di 20 anni, ha scritto per i suoi figli un memorandum in cui descrive ciò che le accadde quel giorno. Si era rifugiata nella cantina della casa in cui abitava e racconta: “Poi la detonazione delle bombe iniziò a scuotere il terreno e tutti, in preda al panico, si affrettarono a scendere nei sotterranei. L’attacco durò circa mezz’ora. Il nostro edificio e la zona circostante non erano stati colpiti. Quasi tutti tornarono di sopra, pensando che fosse finita, ma non era così. Il peggio doveva ancora venire e quando arrivò fu un vero e proprio inferno. Durante la breve tregua, lo scantinato si era riempito di persone in cerca di riparo, alcune delle quali erano rimaste ferite dalle schegge delle bombe.
“A un soldato era stata tranciata via una gamba. Lo accompagnava un medico che cercava di prendersi cura di lui, ma lui urlava di dolore e c’era molto sangue. C’era anche una donna ferita, il cui braccio, appena al di sotto della spalla, era stato reciso e ora le penzolava appeso ad un pezzo di cartilagine. Un medico militare si prendeva cura di lei, ma la perdita di sangue era molto copiosa e le sue urla erano spaventose.
“Poi ricominciarono a cadere le bombe. Questa volta non c’erano pause tra le detonazioni e gli scossoni erano così forti che perdemmo l’equilibrio e fummo scagliati qua e là per il sotterraneo come un mucchio di bambole di pezza. In certi momenti i muri della cantina si dividevano a metà e si sollevavano verso l’alto. Vedevamo all’esterno i lampi delle terribili esplosioni. C’erano una quantità di bombe incendiarie e contenitori di fosforo che si rovesciavano ovunque. Il fosforo era un liquido denso che prendeva fuoco appena esposto all’aria e quando penetrava nelle crepe degli edifici bruciava tutto ciò con cui veniva a contatto. Le sue esalazioni erano tossiche. Quando lo vedemmo scorrere lungo i gradini del sotterraneo, qualcuno urlò di prendere le birre (ce n’erano alcune immagazzinate nel luogo in cui ci trovavamo), di inumidire uno straccio o un pezzo dei nostri vestiti e premercelo contro la bocca e il naso. Il panico era terrificante. Tutti spingevano, premevano e graffiavano per impossessarsi di una bottiglia.
Io mi ero tolta un pezzo di biancheria, lo avevo imbevuto di birra e lo premevo contro la bocca e il naso. Il calore dentro quella cantina era così intenso che ci vollero solo pochi minuti perché quel pezzo di stoffa si prosciugasse completamente. Ero come un animale selvaggio, che proteggeva la sua riserva di umidità. Non mi fa piacere ripensarci.
“Il bombardamento continuava. Cercai di reggermi appoggiandomi al muro e questo mi strappò la pelle dalla mano. Il muro era rovente. L’ultima cosa che ricordo di quella notte è di aver perso l’equilibrio, di essermi aggrappata a delle persone per restare in piedi, ma di essere poi caduta trascinandole a terra con me, me le vidi cadere addosso. Sentii che qualcosa mi si era rotto dentro. Mentre ero stesa lì a terra avevo un solo pensiero: continuare a pensare. Finché sapevo che stavo pensando voleva dire che ero viva, ma a un certo punto persi conoscenza.
“La cosa che ricordo subito dopo è di aver sentito un freddo terribile. Mi resi conto in quel momento di essere stesa sul terreno, vedevo gli alberi in fiamme. Era giorno. Su alcuni alberi c’erano animali che strillavano. Erano le scimmie dello zoo, che era andato a fuoco. Iniziai a muovere le gambe e le braccia. Faceva molto male, ma riuscivo a muoverle. La sensazione di dolore mi diceva che ero viva. Credo che i miei movimenti furono notati da uno dei soldati dei reparti medici di soccorso.
“Questi reparti erano stati inviati in ogni zona della città ed erano stati loro ad aprire dall’esterno la porta della cantina. Avevano portato tutti i corpi fuori dall’edificio in fiamme. Ora stavano cercando di capire se qualcuno di noi dava segni di vita. In seguito venni a sapere che da quella cantina erano stati estratti più di centosettanta corpi, ventisette dei quali erano tornati alla vita. Io ero uno di questi. Un miracolo!
“Poi cercarono di portarci all’ospedale, fuori dalla città in fiamme. Questo tentativo fu un’esperienza raccapricciante. A bruciare non erano solo gli edifici e gli alberi, ma lo stesso asfalto delle strade. Per ore e ore il camion cercò di trovare dei percorsi alternativi, prima di riuscire a venir fuori dal caos. Ma prima che i veicoli di soccorso potessero condurre i feriti negli ospedali, alcuni aerei nemici si abbassarono nuovamente verso di noi. Venimmo spinti in fretta e furia fuori dai camion e fatti sdraiare al riparo sotto di essi. Gli aerei ci sparavano addosso con le mitragliatrici, lanciando altre bombe incendiarie.
“Il ricordo più vivido nella mia mente è quello delle immagini e delle grida degli esseri umani rimasti intrappolati nell’asfalto fuso e rovente, che bruciavano come torce umane invocando un aiuto che nessuno poteva dargli. In quel momento ero troppo intontita per comprendere fino in fondo l’atrocità di quella scena, ma quando fui “al sicuro” in ospedale, l’impatto di quelle immagini e di tutto il resto mi provocò un completo collasso nervoso. Dovettero legarmi al letto per evitare che mi infliggessi da sola delle gravi ferite. Urlai per ore ed ore dietro una porta chiusa, mentre un’infermiera restava accanto al mio letto.
“Mi stupisco di come tutto questo sia ancora così vivido nella mia memoria (Elisabeth aveva più di 70 anni quanto scriveva queste righe). E’ come aprire una diga. Questo orrore è rimasto dentro di me, nei miei sogni, per molti anni. Sono felice di non provare più sentimenti di furia o di rabbia quando ripenso a queste esperienze. Provo solo una gran compassione per il dolore di chiunque, incluso il mio”.
“L’esperienza di Dresda è rimasta molto vivida in me per tutto il resto della mia vita. I media riferirono in seguito che il numero dei morti provocati dal bombardamento era stato stimato in oltre 250.000, più di un quarto di milione di persone. Questo era dovuto a tutti i profughi che erano arrivati a Dresda cercando di sfuggire ai russi e alla fama di città sicura di cui Dresda godeva. Non c’erano rifugi antiaerei, perché era stato fatto un accordo con la Croce Rossa.
“Cosa ne fu di tutti quei cadaveri? La maggior parte rimase sepolta tra le macerie. Penso che tutta Dresda si trasformò in un’unica fossa comune. Per la maggioranza di quei corpi, ogni identificazione fu impossibile. Dunque i parenti delle vittime non furono mai avvertiti. Innumerevoli famiglie rimasero senza madri, padri, mogli, figli e congiunti di cui ancora oggi nessuno sa nulla”.
Secondo gli storici, la questione di chi ordinò quell’attacco e perché non ha mai avuto risposta. A tutt’oggi nessuno è riuscito a far luce su queste due cruciali domande. Alcuni pensano che la risposta possa trovarsi in carteggi inediti tra Franklin D. Roosevelt, Dwight Eisenhower, Winston Churchill e forse altri. La storia riporta che l’attacco inglese e americano contro Dresda provocò un numero di vittime pari a due volte e mezzo quelle che l’Inghilterra aveva subìto in tutta la Seconda Guerra Mondiale e che fra i tedeschi morti durante la guerra, uno su cinque morì durante l’olocausto di Dresda.
Alcuni dicono che il motivo fosse quello di infliggere il colpo di grazia allo spirito tedesco, che l’impatto psicologico provocato dalla totale distruzione del cuore pulsante della storia e della cultura tedesca avrebbe messo in ginocchio la Germania una volta per tutte.
Altri dicono che si trattò di un test per sperimentare nuove armi di distruzione di massa, la tecnologia delle bombe incendiarie al fosforo. Senza dubbio alla radice di tutto vi furono necessità di controllo e di potere. Il bisogno insaziabile dei dominanti di imporre controllo e potere su un’umanità prigioniera e impaurita è ciò che porta a stermini di massa come i bombardamenti di Dresda o di Hiroshima.
Ma io credo che vi fosse un ulteriore e più cinico movente, che potrebbe rappresentare il motivo per cui ogni indagine completa sul bombardamento di Dresda è stata soppressa. Gli alleati sapevano benissimo che centinaia di migliaia di profughi si erano diretti a Dresda nella convinzione che si trattasse di un rifugio sicuro e alla Croce Rossa era stato garantito che Dresda non era un obiettivo. A quel punto si scorgeva all’orizzonte la fine della guerra e si sarebbe dovuto affrontare il problema dell’enorme massa di rifugiati da essa provocati. Cha fare di tutta questa gente dopo la fine della guerra? Quale soluzione migliore della soluzione finale? Perché non prendere due piccioni con una fava? Con l’incenerimento della città, insieme ad una larga percentuale dei suoi residenti e profughi, l’efficacia delle nuove bombe incendiarie era stata tangibilmente dimostrata. Sgomento e terrore erano stati instillati nel popolo germanico, accelerando così la conclusione della guerra. In ultimo, il bombardamento di Dresda assicurò la sostanziosa riduzione di un enorme oceano di umanità indesiderata, alleggerendo notevolmente i problemi e l’incombente fardello della ristrutturazione e risistemazione postbellica.
Forse non sapremo mai cosa ci fosse nella psiche degli uomini di potere di quell’epoca o quali furono i veri motivi che portarono a scatenare una devastazione così mostruosa contro le vite dei civili, a massacrare in massa un’umanità indifesa che non costituiva alcuna minaccia militare e il cui unico crimine era quello di cercare sollievo e riparo dall’infuriare della guerra. In assenza di una qualsiasi giustificazione militare per una simile carneficina di persone inermi, il bombardamento di Dresda può solo essere considerato un orrendo crimine contro l’umanità, che attende invisibilmente e silenziosamente giustizia, per poter risolversi e guarire tanto nella psiche collettiva delle sue vittime quanto in quella dei suoi carnefici.
da Current Concerns n. 2, 2003
traduzione di Gianluca Freda