E Serge Latouche rilancia per l'oggi le tesi poundiane
di Riccardo Notte - 21/03/2010
Con "L'invenzione dell'economia" lo studioso propone una rigorosa analisi storico-critica che muove da lontano: dall'etica di Aristotele
Preso alla lettera, il messaggio dell'economista e filosofo francese Serge Latouche assume un insolito sapore escatologico, un annuncio della fine dei tempi che talvolta sfiora i toni della predicazione millenarista. Perché nel volume L'invenzione dell'economia (Bollati Boringhieri, pp. 257 pagine, € 18,00) nell'ottima traduzione di Fabrizio Grillenzoni, abbondano frasi apocalittiche come le seguenti: «Questo totalitarismo dell'economia è destinato a portare, nel tempo, alla morte dell'economia, e forse dell'umanità stessa. L'assurdità di una vita di cui l'economia è insieme il mezzo e il fine si smaschera, e con ciò si smaschera il vuoto fondamentale della vita. Tanto vale suicidarsi e farla finita subito». Davvero sinistro. Oppure si legge: «Il sole della modernità e dell'economia ha raggiunto il suo Occidente, cioè il luogo del suo tramonto». Annuncio quasi spengleriano. Ma ancora: «La monetizzazione di tutto e di ogni cosa alla quale oggi assistiamo provoca il collasso delle significazioni». Enigmatico. D'altronde, Latouche è celebre per le sue tesi anticonformiste, enunciate ad esempio in Come sopravvivere allo sviluppo (2005), in La Megamacchina (1995) o nel Breve trattato sulla decrescita serena (2008); ma in L'invenzione dell'economia, se si escludono le provocazioni appena citate, inutilmente si cercherà la moneta catastrofista oggi così facilmente spendibile nell'era della crisi economica planetaria. Nella prefazione all'edizione francese, apparsa nel 2005, Latouche ricorda che la genesi di questo libro affonda in tempi remoti e non sospetti, quando il mito dominante era quello dell'espansione illimitata.
All'epoca fiorivano interpretazioni dell'agire economico che promettevano vertiginosi, inarrestabili incrementi progressivi. Grandi personalità della scienza, come il biofisico Stuart Kauffman, ragionavano intorno ai "possibili adiacenti", che in economia si sarebbero tradotti in sempre maggiori livelli di complessità, quindi di ricchezza. Anche Derrick de Kerckhove, allievo e prosecutore di Marshall McLuhan, illustrava grafici che connettevano la crescente velocità dell'informazione all'accelerazione economica e finanziaria, prospettando mirabolanti futuri contingenti. Oggi, invece, anche i sostenitori dello sviluppo illimitato confessano alcune incertezze, e l'industria editoriale vi si adegua.
Ma perché considerare l'economia una "invenzione"? Il libero scambio, la moneta, il prestito a interesse e il concetto stesso di merce sarebbero dunque paragonabili alle scoperte e applicazioni della macchina a vapore o dell'elettricità? È possibile ripensare la storia in assenza di sistemi produttivi e finanziari? È concepibile l'homo senza l'aggettivo oeconomicus? Se l'economia è davvero un'invenzione maledetta, generatrice di ossessioni utilitaristiche senza fondo e senza scopo, è corretto auspicare una società priva delle leggi economiche oggi conosciute e accettate? Non si sfiora forse il sogno degli anarchici? Soprattutto, è realistico pensare a un mondo privo del denaro, eppure sovrabbondante di beni e di servizi? I poeti, i letterati, ci hanno provato. Il poeta americano Ezra Pound, nei suoi scritti economici, denunciò l'allucinazione, la mania e l'idea fissa del mercato, come si sa. E H.G. Wells, in Uomini come Dèi, descrisse dal canto suo la civiltà senza denaro e senza merci degli utopiani, gli abitanti di una immaginaria dimensione parallela. Da queste radici migliaia di emuli.
Latouche apparentemente non si spinge così lontano, o per meglio dire non si dichiara. Certo è che in L'invenzione dell'economia troviamo una rigorosa analisi storico-critica che muove da lontano: dall'Aristotele dell'Etica nicomachea fino alle sorprendenti radici agostiniane e gianseniste del capitalismo, passando per l'invenzione lessicale del termine "economia", per la fondazione dell'ideologia lavorista, per la costruzione di una fisica sociale, per la inevitabile distruzione del concetto di communitas per la pressione del capitale finaziario. L'ascendenza metafisica - studiata con acume in oltre i due terzi di questo arduo testo - certamente sgomenta, ma a ragione consente di parlare di una vera e propria religione dell'economia, e della sua specifica dogmatica.
La pietra di paragone non poteva che essere l'opera di Adam Smith: forse il capitolo più impegnativo del libro. Con la mediazione e critica del pensiero di Depuy, Latouche riesamina il movente fondamentale, l'impulso primario che si cela dietro ogni accumulazione capitalistica. Era rovello dell'autore della Ricchezza delle nazioni, e lo è ancor oggi per ogni economista. Ed ecco sorgere, del tutto inatteso, il confronto con René Girard, il grande antropologo e filosofo, teorico del capro espiatorio, del meccanismo persecutorio e della rivalità mimetica. Al fondo del processo economico potrebbe infatti celarsi il desiderio di approvazione degli altri, mutuato dal possesso e dall'ostentazione: forma trasversale e a-culturale di narcisismo collettivo, che si risolve nella fondazione di un autentico mito. Il mito economico, per l'appunto.
Certo, il desiderio mimetico può percorrere vie opposte. Da un lato esso può volgersi nell'interiorità, e praticare la cura dell'anima e la saggezza. Dall'altro esso può ben realizzarsi nell'acquisizione della ricchezza. In fondo, entrambe le vie sono forme di "speculazione", cioè di relazione dell'io con gli altri.
Solo che questa Alice perennemente davanti allo specchio può tendere sia all'esteriorità, quindi alla proprietà, al fasto e a tutto ciò che il denaro può comprare, comprese le anime, sia all'acquisizione dei saperi e delle virtù. Entrambe, però, a ben vedere, esperienze faustiane, e infelici, perché ambedue uniformate all'accumulazione progressiva, entrambe accomunate dalla necessità di trasformare un processo vitale in astratto capitale. Tutto sommato, un libro che lascia pochi spiragli.