Psicologia della vittoria
di Francesco Lamendola - 16/04/2010
Avete mai osservato con attenzione l’espressione, i gesti, la postura di un atleta che esce vittorioso da una gara?
Di un ciclista che taglia per primo, in volata, la linea bianca del traguardo, bruciando tutti i rivali nello sprint; o di due giocatrici di beach volley che hanno vinto la partita; o dei componenti di una squadra di calcio che conquistano l’oro ai Mondiali?
Per chi abbia praticato uno sport nella propria vita, non c’è bisogno di osservare il viso degli altri, perché sa bene quali sensazioni si provano, o almeno ci si immagina di provare, in quegli istanti in cui il tempo sembra fermarsi e il mondo interro pare volersi inchinare davanti alla forza, alla bravura e alla determinazione del campione vittorioso.
Bello, semplicemente: è qualcosa di esaltante, di glorioso, di incomparabile; qualcosa che fa battere il cuore all’impazzata per la gioia del risultato raggiunto.
Ora, il cortese lettore vada a sfogliare una enciclopedia illustrata della seconda guerra mondiale (o della prima, se preferisce, o magari di quella del Vietnam) e provi a soffermarsi sulle fotografie che ritraggono un reggimento di fanteria al ritorno dal fronte, dopo una guerra vittoriosa, mentre si affaccia dai finestrini della tradotta militare; o del pilota di un aereo da caccia che è appena rientrato alla base, magari dopo aver abbattuto un apparecchio nemico; o, ancora, dell’equipaggio di una nave da guerra che rientra in porto dopo la distruzione della squadra nemica.
Ebbene: su quei volti, in quei gesti, in quelle posture del corpo, non sarà difficile ravvisare impressionanti analogie con quelli degli atleti che hanno appena concluso una prestazione sportiva e si abbandonano al tripudio della vittoria.
Terribile.
Sono analogie che fanno riflettere, che lasciano pensosi.
Agli esseri umani, per un istinto assolutamente naturale, piace vincere.
Chiediamo cortesemente al lettore di rileggersi con tutta calma, meditandola bene a fondo, la precedente affermazione.
È semplicemente terribile.
Se c’è qualcuno che vince, ci deve essere, per forza, anche qualcuno che perde. Dunque, la vita umana si regge, dall’individuo al gruppo fino alla nazione, sulla guerra eterna di tutti contro tutti; e aveva ragione Hobbes, in tal caso, a definirla «bellum omnium contra omnes».
Perciò, non restano che due vie da percorrere, se si vuole uscire da una simile, orrida prospettiva che condannerebbe la nostra esistenza a un perpetuo inferno.
La prima è quella di negare l’assunto iniziale: che l’uomo sia naturalmente aggressivo. Ma allora bisognerebbe spiegare perché ricerchi così volentieri la competizione e, soprattutto, perché provi un piacere così intenso nella vittoria. Talmente intenso, da poterlo paragonare al piacere sessuale: guardare per credere.
L’ottimismo antropologico sarà pure bene intenzionato, ma commette l’errore basilare di voler far coincidere la realtà con i propri desiderî. È l’errore dello struzzo: gli aspetti negativi della realtà, in questo caso della natura umana, non scompaiono per il semplice fatto che ci si sforza di non vederli o, addirittura, li si nega.
Konrad Lorenz ha creduto di risolvere il problema negando che l’aggressività sia il male: essa non sarebbe altro che il retaggio della nostra origine ferina, anzi, sarebbe parte della natura in quanto tale. Ma, a parte il fatto che tale dottrina si fonda su un’altra dottrina del tutto ipotetica, anche se spacciata ormai impunemente per dimostrata (l’evoluzionismo darwiniano), rimane la constatazione che l’uomo è incapace di controllare la propria aggressività, indipendentemente dal fatto che egli disponga, per distruggere il proprio nemico, della clava o della bomba atomica.
L’aggressività non è un male storico, che, nelle condizioni tecnologiche della modernità, sarebbe più pericoloso di quanto non lo fosse all’epoca di Achille; bensì un male meta-storico, ossia ontologico: costitutivo della natura umana.
Se l’uomo moderno, con le sue sofisticate bombe al fosforo bianco, è in grado di incendiare intere città e bruciare vivi tutti i loro abitanti; e se è in grado, con le bombe all’idrogeno, di spegnere la vita sull’intero pianeta, cose che non poteva fare all’epoca di Achille, ciò non dipende dal fatto che egli sia più “cattivo” dei suoi progenitori che fecero la guerra di Troia.
L’entità delle distruzioni è un fatto puramente meccanico e quantitativo. Ciò su cui si dovrebbe riflettere è l’istinto aggressivo, che, nell’uomo, è sempre lo stesso.
Ecco perché tutte le tradizioni religiose parlano, in forme e lingue diverse, di un unico, disastroso evento originario: di una Caduta, cioè, in seguito alla quale gli uomini hanno perduto la condizione di pace e felicità che possedevano «ab initio» e sono precipitati in una condizione di miseria, di fatica e di morte.
La seconda strada che si può percorrere, per tentare di uscire dalla palude della violenza, è quella di prendere atto della insopprimibile carica di aggressività presente nella natura umana e di impegnarsi a trasformarla, rielaborarla, sublimarla.
L’artista, colui che crea opere di pura bellezza traendole dalle pieghe più profonde e misteriose della sua stessa anima, là dove essa confina con una forza superiore ed eterna, compie una tale trasformazione alchemica; e, in verità, la stessa cosa fa lo sportivo che s’impegna con tutte le proprie forze per vincere una gara, sebbene - questo è ovvio - su un diverso piano di consapevolezza spirituale.
Anche il raffinato giocatore di scacchi - un gioco che gronda violenza, a dispetto delle aristocratiche apparenze, proprio per le implicazioni psicologiche aggressive nei confronti del’avversario - sta compiendo un tentativo di trasformare la propria carica distruttiva in qualcosa di costruttivo o, quanto meno, di non esplicitamente violento.
Ma avete mai osservato il viso, la bocca, la luce dello sguardo di un anziano giocatore di briscola, nel momento in cui butta giù sul tavolo dell’osteria, con un gran colpo della mano stretta a pugno, l’asso pigliatutto? Il meccanismo è quello, ancora quello.
Lo spettatore di un film horror o di un western che trasudano violenza e sangue, alla loro maniera - cioè su un piano ancora più basso - fanno, o tentano di fare, una operazione analoga: solo che, mano a mano che si scende nella scala della consapevolezza, la sublimazione si riduce sempre più, fino a scomparire quasi interamente: e tutto ciò che rimane è l’originario istinto aggressivo che è, in fondo, una pulsione di morte.
Ecco, l’abbiamo detto: l’aggressività verso l’altro è un mascheramento inconscio della pulsione di morte.
E se la battaglia è difficile, durissima, disperata, meglio ancora; almeno le cose sono chiare: si cerca di uccidere, più o meno simbolicamente, l’avversario, per non dover confessare che si vorrebbe uccidere, in fondo, se stessi. Ma è la propria morte, quella di cui si va alla ricerca: e se non oggi, domani.
Ciò è particolarmente evidente, in guerra, quando si presti attenzione alla psicologia di coloro che vanno incontro a una battaglia perduta in partenza.
Prendiamo, ad esempio, i volontari che, a migliaia, corsero ad arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana (sissignori: a migliaia: a dispetto di quel che va dicendo, da decenni, la Vulgata democratico-resistenziale). Si osservino i volti di quei ragazzi, ragazzi di diciotto, vent’anni: ragazzi che, all’epoca della marcia su Roma, non erano neppure nati. Altro che fascisti incalliti! Erano idealisti della più pura specie; ma tormentati da una oscura pulsione di morte.
Volevano morire per riscattare l’onore della Patria dopo l’obbrobrioso armistizio dell’8 settembre 1943 (obbrobrioso in tutti i sensi, non solo politico e militare): volevano, in fondo, immolarsi sulla loro stessa pira funebre, come il filosofo Peregrino, di cui parla Luciano di Samosata o come i monaci buddisti che si davano fuoco all’epoca della guerra del Vietnam.
Comunque, volevano morire, non vincere. Sapevano di non poter vincere: contro i giganteschi carri armati delle ben nutrite e bene equipaggiate divisioni americane e britanniche, che cosa avrebbero potuto fare con le loro misere armi individuali, con l’uniforme a brandelli e l’intestino squassato dalle coliche della pessima alimentazione?
Chi non ci crede, vada a rileggersi il libro di Adriano Bolzoni «La guerra dei neri» (Roma, Ciarrapico Editore, 1981), che, anche da un punto di vista letterario, vale dieci volte più delle tanto celebrate storie della Resistenza dei vari Battaglia, Bocca e Salvadori. Intendiamoci: il riconoscimento dell’onestà morale vale nei due sensi; vale anche per quei ragazzi del Regno del Sud che, nello sbandamento generale, scelsero di prendere le armi per combattere contro gli ex alleati tedeschi; e, naturalmente, per tutti quei giovani partigiani in buona fede che salirono sulle montagne del Nord per veder rinascere un’Italia migliore.
Torniamo, adesso, alla nostra riflessione iniziale.
Non si compete per il piacere di competere, ma per vincere; e competere per vincere significa competere per umiliare l’avversario e, contemporaneamente, gratificare il proprio Ego. Dietro tutto questo, però, è presente, al tempo stesso, un oscuro istinto di morte.
Dal momento che l’aggressività fa parte della natura umana, l’unico modo per evitare che essa si trasformi in una terribile arma di distruzione e, in ultima analisi, di autodistruzione, è quello di elaborarla attraverso forme e ritualità che permettano di estrarne il pungiglione mortale, la violenza cieca e incontrollata.
Ciascun essere umano, mano a mano che acquista consapevolezza della necessità di un cammino spirituale verso la liberazione, dovrebbe costruirsi la propria personale strada per uscire dal circolo vizioso della propria pulsione di morte.
Il desiderio della vittoria non è altro, in fondo, che un oscuro desiderio di annullamento; e il desiderio di annullamento può indirizzarsi nei due sensi, verso il reintegro di sé con se stessi (pace interiore) e verso l’apertura all’armonia cosmica (pace esteriore); oppure verso la distruzione di sé e dell’altro, in forme più o meno esplicite di violenza.
Ecco, dunque, che non è tanto il “cosa”, ma il “come” a segnare la differenza fra una aggressività primitiva e distruttiva ed una aggressività rielaborata e sublimata.
Per esempio, vi sono due generi di piacere sessuale: quello basato sulla violenza, anche solo psicologica, e sulla sopraffazione dell’altro; e quello basato sulla profonda e armoniosa fusione di due anime attraverso due corpi. Il primo riproduce il meccanismo dell’impulso di morte, il secondo porta verso la liberazione e la pace dell’anima.
Similmente, vi sono due modi di gareggiare in una competizione sportiva: l’uno sano e costruttivo, volto al superamento dei propri limiti e alla conquista di una maggiore stima di sé; e l’altro malato e distruttivo, che vede nell’avversario un nemico da battere, da gettare nella polvere, e, nella vittoria, una gratificazione di tipo puramente ed esclusivamente narcisista.
Noi dobbiamo prendere coscienza di queste componenti presenti nella nostra natura e orientare i nostri impulsi esistenziali, le nostre energie psichiche e la nostra volontà vitale in direzione del superamento del livello primitivo, brutale e distruttivo dell’aggressività, per trasformare quest’ultima in energia positiva, benefica e autorigenerante.
Tutto questo è possibile se ci si vuole bene, se si ritiene di avere un valore e se si ha fiducia nella propria capacità di migliorare, di evolvere e di oltrepassare continuamente i propri limiti e le proprie imperfezioni.
Vi è un modo di rendersi conto se ci si trova sulla buona strada, ed è questo: osservare in quale modo si vive la sconfitta. Colui che vive la sconfitta non come una umiliazione e uno smacco insopportabile, ma come uno stimolo per perseverare e impegnarsi maggiormente nel futuro, vuol dire che ha raggiunto un sano equilibrio interiore ed è maturo per sviluppare sempre di più la parte migliore di sé: la più generosa, la più aperta e la più disponibile ad imparare.
Chi non sa accettare la sconfitta, pur avendo la coscienza di essersi impegnato al massimo, non è nemmeno degno della vittoria. Perché solo chi sa trovare occasioni di crescita nella sconfitta è un uomo grande; chi non le sa trovare è un uomo piccolo, anche se può aver vinto molte medaglie.