Euro crisi. Era già tutto previsto…
di Stefano Vaj - 29/04/2010
Il problema dell’euro non è la sua esistenza. L’esperienza storica mostra che non vi sarebbe nulla di strano di per sé nell’adozione di una moneta comune come parte di un processo di unificazione politica. La cosa non è neppure, di per sé, in necessario ed immediato conflitto con un certo grado di autonomia o pluralismo territoriale: sono esistite valute il cui utilizzo era comune e diffuso addirittura al di là del dominio immediato del soggetto politico di riferimento. Del resto, la natura potenzialmente ambivalente dell’euro è stata resa evidente dalle reazioni isteriche che aveva immediatamente suscitato la provocazione iraniana relativa ad una sua possibile sostituzione al dollaro come moneta per gli scambi petroliferi; provocazione che molti hanno interpretato come una minaccia ben più grave all’ordine occidentale di quelle pur propagandisticamente ben più strombazzate come la paventata acquisizione di un deterrente nucleare da parte di tale paese.
Il problema dell’euro sta nel suo concretizzare e rappresentare il terzo stadio di un percorso ideale che va dalla fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694 additata da Ezra Pound come il simbolo e la svolta all’origine della perversione della moneta, che passa da quella della Federal Reserve nel 1913, e che si conclude, al grado zero della sovranità popolare sulla moneta, con il subentrare della Banca Centrale Europea alle funzioni delle banche d’emissione dei sedici paesi dell’Unione che le hanno affidato la propria politica monetaria. Banca in sostanza controllata dalle maggiori banche nazionali, private, dei paesi che hanno adottato la moneta che essa stampa – con la singolare ma significativa eccezione del quattordici per cento (!) detenuto dalla Banca d’Inghilterra stessa, istituto di emissione che all’euro neppure aderisce! -; e che ha la peculiarità, storicamente inedita, di essere la prima banca d’emissione non solo “indipendente” dall’esecutivo del rispettivo paese, ma addirittura senza più neppure un governo nazionale di fronte a sé, organo di cui come è noto sono sprovviste tanto l’Unione Europea che a maggior ragione l’”area dell’euro”, al punto da rivendicare per sé stessa una soggettività propria di diritto internazionale pubblico, quasi alla stregua di uno Stato. Così da realizzare in forma in certo modo perfetta il sogno di autoreferenzialità completa di questo tipo di istituzioni: “autoreferenzialità” che poi significa naturalmente riferimento agli interessi, e se possibile prima ancora alla cultura ed ai valori, di “sistema” che la finanza internazionale incarna al di là dei conflitti stessi che possono percorrerla, ed ovviamente sopra le teste, e sulla pelle, dei popoli più direttamente coinvolti.
A fronte di ciò, la Lega, la “sinistra nazionale” del quotidiano Rinascita, e numerosi altri ambienti e circoli “sovranisti”, autonomisti, identitari di tutta Europa, avevano come noto cavalcato ben giustificate resistenze contro l’adozione della nuova moneta.
Una battaglia certo popolare, nei due sensi del termine, perché l’euro è stato un disastro annunciato. Un disastro innanzitutto nel senso che si è già detto: oltre a chi resta persuaso, forse illudendosi, della possibilità di affermare e proteggere tuttora la propria indipendenza al livello dei vecchi Stati-nazione, o su una base ancora più ristretta, anche i più accaniti fautori della creazione di un soggetto politico su scala continentale non possono non constatare che i “trasferimenti di sovranità” che colpiscono progressivamente anche negli orpelli gli ordinamenti statali europei non avvengono a favore di un’entità sovraordinata e “imperiale”, ma del nulla; o meglio di istanze burocratiche mondialiste il cui unico scopo è svuotarne progressivamente il contenuto nel quadro di un dirigismo ed un centralismo tanto più odiosi quanto più sprovvisti di un qualsiasi progetto, senso o legittimazione di tipo politico. Ed è stato anche un disastro sociale evidente, atteso che per fenomeni complessi, ma prevedibili e puntualmente previsti, l’adozione dell’euro ha contribuito a massacrare economie locali e potere d’acquisto dei salari: per riesumare un efficace slogan di Rifondazione comunista, dell’epoca in cui tale partito ancora vantava una parvenza di impegno sociale, con la nuova moneta gli stipendi hanno a lungo continuato ad essere pagati in lire (cioè all’improbabile cambio ufficiale di 1936,27 lire), mentre i prezzi al consumo sono divenuti immediatamente pagabili in euro (al cambio reale da tutti immediatamente identificato in mille lire per un euro). In occasione del dibattito sulla ratifica del trattato di Amsterdam, il senatore Tabladini aveva così dichiarato per la Lega Nord: “La Lega Nord per la Padania indipendente non è pregiudizialmente ostile all’idea di un’Europa che si evolva verso un modello di federazione di Stati. Ma il problema è che la situazione nel suo evolversi, come si è delineata prima a Maastricht e poi ad Amsterdam, contiene in partenza il nucleo di una degenerazione del concetto di federalismo europeo, perché affida ad un organismo tecnico politicamente non responsabile (la Banca Centrale Europea, tanto per intenderci) il compito di determinare il carattere della politica economica continentale attraverso il governo della moneta“.
D’altronde, quella contro la nuova moneta è anche stata una battaglia il cui unico, vero significato si è ridotto a raggranellare qualche facile quanto effimera simpatia in più; posto che se fosse stato davvero possibile evitarne l’adozione, contro gli interessi che militavano a favore… non sarebbe stato neppure necessario farlo, perché ciò avrebbe presupposto appunto l’esistenza di una sovranità monetaria che avrebbe inevitabilmente coinvolto l’euro stesso.
L’esperienza concreta invece sappiamo quale è stata. Una BCE impervia a qualsiasi esigenza diversa dagli interessi del sistema finanziario internazionale, che ne ha, con la sua politica monetaria, fedelmente servito i veri o supposti interessi, in particolare in vista della globalizzazione crescente dei mercati e degli interessi delle istanze politico-militari a questa asservite (ma viceversa in grado di influenzarla…), a danno dell’economia reale, della prosperità, della potenza dei paesi di riferimento. O al massimo attenta ad una cultura novecentesca dell’ordinaria amministrazione e dell’ordinario, immediato e sicuro profitto dei suoi soci ultimi. In questo quadro va inserita la politica che mantenendo a suo tempo alto il corso dell’euro ha facilitato, in un regime di assoluto liberoscambismo, le importazioni e gli investimenti all’estero, indirettamente contribuendo alla disindustrializzazione dei nostri paesi ed al ritardo nella loro modernizzazione tecno-produttiva; così come ha favorito l’ultima “bolla” americana di cui tuttora godiamo le conseguenze. Ciò nella schizofrenica ma in fondo plausibile situazione di borse europee pronte a reagire a loro volta con cali di quotazioni, facendo eco a Wall Street, ad ogni successivo apprezzamento della loro moneta (!) sul dollaro.
Ma naturalmente, nel mondo della hedge economy, “rialzismo” e “ribassismo” sul mercato delle valute hanno cessato da decenni di essere ideologie, o anche solo di corrispondere ad interessi stabili e definiti di forze precise. Ciò cui poteva giovare ieri un euro forte o uno yuan debole può giovare oggi o domani l’esatto contrario. D’altronde, al contrario dell’immaginario “casinò perfetto” delle teorie economiche classiche, le operazioni speculative, qualunque sia il loro oggetto o scopo occasionale, non sono mai indifferenti, né si annullano l’un l’altra. Provocano danni nel mondo reale, e, ciò che più importa, provano spostamenti di ricchezza e potere. Da certi paesi verso certi altri; dall’economia industriale verso quella finanziaria; da taluni ceti verso ceti diversi (ed essenzialmente parassitari…); dal risparmiatore e, attraverso gli Stati, dal contribuente verso taluni ambienti pubblicamente ben identificabili.
Leggiamo una descrizione del tipo di cose che questo mese o il prossimo possono coinvolgere in direzioni apparentemente opposte e variabili le monete coinvolte, tratto non dalla Gazzetta dei Complottisti Anonimi, non dal bollettino di Canicattì del Partito Nazimaoista del Cane Impiccato, ma da… Panorama:
“La cena si è tenuta alla Townhouse, una sala privata ed esclusiva creata dal ristorante Park avenue winter al numero 100 sulla 63ª strada di Manhattan, quasi all’incrocio con Park avenue. In questa fascia dell’Upper east side, il quartiere prediletto dai miliardari newyorkesi, la sera si vedono solo domestici che portano a spasso cani che annusano le limousine nere parcheggiate in doppia fila. … Neppure Tom Wolfe, che nel Falò delle vanità fu il primo a raccontare i vezzi e la spietatezza dei raider di borsa americani, «i padroni dell’universo», come li chiamava lui, avrebbe mai potuto immaginare una cena come quella dello scorso lunedì 8 febbraio a New York.
Sulle sedie color cioccolata siedono le migliori menti speculative americane, compresi gli emissari dei tre gestori di hedge fund più ricchi e potenti del mondo: George Soros, John Paulson e Steven Cohen. Ed è della loro prossima scommessa miliardaria che si discute mentre i camerieri fanno circolare lo champagne Krug e lo chef Craig Koketsu prepara il suo menu con pollo al limone e filet mignon.
Stavolta l’obiettivo è più grande del mercato immobiliare distrutto nel 2008. Per colpire la nuova preda nel mirino, l’euro, la moneta unica europea che tanti successi ha ottenuto durante la crisi internazionale contro il biglietto verde americano, ci vuole una strategia più sofisticata che permetta di giocare non solo sulla crisi della Grecia (300 miliardi di euro di debito sovrano e un deficit del 12,7 per cento rispetto al pil), ma anche su paesi di maggiore peso economico che i convitati giudicano vulnerabili. Il Portogallo, sì, ma è piccolo. L’Irlanda, va bene, ma siamo sempre lì.
La Spagna, certo, quella andrebbe bene. Già, sono i Pigs, maiali da mandare al macello, ridacchia qualcuno. E, perché no?, perché non provare ad azzannare addirittura l’Italia? Un paese finanziariamente più solido degli altri, ricorda uno dei commensali, ma politicamente così diviso che sarebbe facile da spolpare grazie a molti appoggi interni. Lì per lì, si inventa un nuovo acronimo Piigs (la doppia I sta per Irlanda e Italia). Già due giorni dopo, se ne approprierà la Cnn nel suo programma dedicato alla finanza.
Ai tavoli, dove, per accompagnare il filet mignon con costolettine brasate e verdure grigliate, è stato scelto un Montrachet d’annata [il che dimostra che i signori dell'universo se non altro non capiscono nulla di accostamenti enogastronomici, per tanto che le bottiglie costino 300 dollari l'una...], si approfondiscono strategie finanziarie come l’«Hong Kong double play». Sempre alla ricerca di riferimenti alle proprie imprese passate, i manager degli hedge fund si riferiscono alla doppia scommessa che tentarono durante la crisi delle economie asiatiche a cavallo tra il 1997 e il 1998.
Quella volta i raider fecero due scommesse contemporanee: una contro la borsa e l’altra contro il dollaro di Hong Kong, che sembrava resistere meglio alla crisi mentre, con effetto domino, si svalutavano tutte le monete della regione. Molti però ricordano bene che solo un intervento particolarmente tempestivo delle autorità di Hong Kong aveva sventato il loro tentativo di fare soldi abbattendo anche quella moneta.
Per portare l’euro alla parità col dollaro dalla soglia massima di dicembre di 1,51 euro contro 1 dollaro, in una discesa vertiginosa che potrebbe rappresentare il colpaccio di una vita, ristabilendo il primato finanziario degli Stati Uniti, dovrà essere usata una versione riveduta e aggiornata di quella stretta mortale. I lavori, per la verità, sono già in corso da tempo: a novembre i mercati davano la possibilità di una tale parità col dollaro a 33 a 1.
Oggi le puntate vengono accettate a 14 a 1. Quello che agli occhi dei comuni mortali potrebbe sembrare un complotto, nel linguaggio dei manager degli hedge fund ha un nome molto più rispettabile: «Idea dinner», una sorta di brain storming della speculazione. Abbattere la moneta unica europea è infatti solo uno di 23 possibili spunti d’investimento messi nel menù della serata: si parla anche di scommettere sul rialzo del dollaro canadese e della Philip Morris, e di trafiggere con «put» al ribasso la Bank of America e la Wells Fargo. [...]
A differenza di quel che si pensa, infatti, i raider degli hedge fund adorano scambiarsi informazioni, perlomeno quelle che non violano i segreti più inconfessati li, come gli algoritmi che governano i loro computer.
Il consenso, quasi sempre transatlantico fra Wall Street e la City londinese, può essere persino utile perché porta a un effetto cartello che aumenta in modo esponenziale le possibilità di guadagno. Tutti sanno che la vera bravura non sta nell’identificare il bersaglio, ma nel colpirlo e affondarlo.
Si fa presto a determinare che scommettendo sul ribasso dell’euro si può fare l’affare della propria vita, ma l’importante è come costruire la propria puntata e quando metterla sul tavolo. …
Ma gli occhi degli invitati sono tutti puntati sul manager che rappresenta George Soros, il quale ha sicuramente più dimestichezza di tutti nelle scommesse sulle valute: l’attacco del finanziere di origine ungherese alla sterlina nel 1992 gli portò in tasca 1 miliardo di dollari e costrinse la Gran Bretagna a ritirarsi temporaneamente dallo Sme, il sistema monetario europeo. Nessuno crede realisticamente che Soros possa ripetere l’impresa con l’euro, la cui forza sul mercato è ben maggiore rispetto a quella della sterlina: circa 1.200 miliardi vengono scambiati ogni giorno nella moneta comune europea. Ma nella Banca centrale europea di Francoforte preoccupa, e non poco, la campagna di stampa che il vecchio finanziere sta conducendo contro l’euro (nello schema qui sopra i possibili effetti sui cittadini). In mancanza di una riforma politica, ha scritto Soros di recente sul Financial Times, ovvero se non si crea un Tesoro unico capace di agire sul piano fiscale a fianco della Bce, il dissolvimento della moneta unica europea è quasi certo.
Cosa che non significa necessariamente che lui punti per forza sul dollaro. Mentre a Davos, al World economic forum, parlava pubblicamente a fine gennaio dell’imminente bolla speculativa dell’oro, si è scoperto che nell’ultimo trimestre Soros ha raddoppiato le sue posizioni sul metallo giallo. Andy Cowen, il manager della Sac, è il primo a intervenire durante la cena dicendo che, secondo i suoi analisti, in qualsiasi modo finisca la crisi greca, l’euro è destinato comunque a uscirne indebolito.
Molti dei presenti hanno già fatto centinaia di milioni di dollari di guadagno sulla crisi di Atene comprando cds, i credit default swap, che rappresentano un’assicurazione sulla possibilità di bancarotta della Grecia. Ora quasi tutti hanno chiuso la loro esposizione sotto il Partenone e sono passati alla fase successiva della campagna di distruzione dell’economia europea, concentrandosi sulle incursioni contro l’euro. …
A Roma, nei maestosi corridoi del ministero del Tesoro, nessuno sottovaluta le intenzioni degli speculatori tanto più che proprio Giulio Tremonti è stato il primo a sollevare già nel G8 di Osaka del 2008 la questione dei contratti speculativi richiedendo meccanismi obbligatori di controllo e di riequilibrio temporale delle posizioni di perdite e di guadagno così da limitare la formazione di bolle” (“Il più grande attacco valutario degli ultimi anni”, di Pino Buongiorno e Marco Demartino, in Panorama 08/03/2010).
Aggiunge Italia-Oggi, caso mai qualcuno ancora non si sentisse abbastanza preso di mira anche nelle sue posizioni personali di lavoratorie dipendente, disoccupato, risparmiatore o imprenditore:
“È risaputo che i cosiddetti fondamentali dell’economia italiana, di quella europea e mondiale sono notevolmente peggiorati a causa della crisi sistemica globale. Per rimettere in moto l’economia e l’occupazione ci vorranno nuove energie, nuove visioni strategiche e tempi lunghi. Però non esiste alcuna ragione o giustificazione per aspettare bordate speculative contro l’Italia e l’Europa, senza prendere, da subito, indispensabili ed efficaci contromisure. Anzitutto si riconosca che, oltre alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo e all’Irlanda anche il nostro paese è entrato nel mirino della grande speculazione. … Uno degli strumenti per garantire che questa scommessa si avveri, portando loro ovviamente grandi profitti a spese delle economie nazionali, è l’utilizzo di derivati, in particolar dei credit default sawps (cds), che scommettono sul ribasso dell’euro. Si ricordi che persino Warren Buffet, il noto finanziere d’assalto americano, definì i cds «armi finanziarie di distruzione di massa!». Infatti questi fondi, usando l’effetto della leva finanziaria, manovrano derivati per venti-trenta volte il valore del contratto iniziale. Alcuni già paragonano il caso della Grecia alla banca americana Bear Stearns, la prima a crollare nel 2008, e quello del Portogallo alla Lehman Brothers che navigò a vista per mesi prima di fallire e innescare la crisi finanziaria globale. … Certamente nella scala del rischio l’Italia viene dopo la Grecia, che oltre a un debito pubblico di 125% del Pil, di poco superiore a quello italiano, ha anche un deficit del 13% del Pil. Anche la Spagna corre gravi rischi perché, sebbene abbia un debito pubblico di 67% del Pil, che sommato a quello privato arriva però a 4,9 trilioni di dollari cioè a 342% del Pil, ha anche un deficit dell’11,4%, una disoccupazione del 20% e una gigantesca bolla immobiliare con 1,3 milioni di case invendute. Ma non è da sottovalutare il fatto che Robert Mundell, premio Nobel per l’economia nel 1999, studioso della moneta unica europea, abbia di recente affermato che «l’Italia è ad alto rischio. Essa è la minaccia più grande per l’economia dei 16 paesi della zona dell’Euro». I cds in circolazione a livello internazionale sono oltre 36 trilioni di dollari (stima di fine giugno 2009). Tutti derivati Otc e quindi fuori bilancio. I grandi operatori sono naturalmente le solite 4 grandi banche americane, JP Morgan, Bank of America, City Bank e Goldman Sachs con l’aggiunta della Deutsche Bank tedesca e della Barclays inglese. Poi vi sono gli hedge fund internazionali. Si calcola che soltanto il 5% di queste operazioni rappresenti coperture di credito per effettivi valori sottostanti. Tutto il resto è meramente virtuale e speculativo. ” (“Sono pronte le raffiche di credit default swap contro l’euro”, di Mario Lettieri, già sottosegretario all’economia nell’ultimo governo Prodi, e Paolo Raimondi, economista, in Italia-Oggi del 06/03/2010).
C’è del resto chi, come Zubi Diamond, paradossalmente accusa i gestori riuniti nella potente Managed Fund Associations, spesso ex militanti radicali degli anni settanta ed ottanta, di essere “anticapitalisti”. Ed in effetti delle loro vecchie idee hanno conservato probabilmente l’avversione verso il meccanismo dell’accumulazione capitalistica primaria, e perciò verso chiunque, paese od azienda, abbia accumulato ricchezza producendo qualcosa, la regola essendo quella viceversa di impossessarsi di tale ricchezza senza fare nient’altro che rischiare soldi altrui e moltiplicare leve finanziarie e risposte di mercato, in un’unica cordata che vede i fondi legati alle merchant banks, le merchant banks legate alle banche commerciali, le banche commerciali legate ai fondi e nella posizione appunto di controllare banche di emissione la cui “indipendenza” (indipendenza… dai popoli che dovrebbero servire e dalle loro istituzioni politiche, cioè) è diventata il maggior tabù della nostra epoca. In questo l’America, intesa come popolazione e tessuto economico-produttivo, è evidentemente sotto attacco come qualsiasi altro paese, anche se rappresenta l’epicentro e tuttora il principale luogo di residenza degli ambienti in questione, e la struttura politico-militare di riferimento del sistema di potere internazionale che garantisce il quadro giuridico in cui si dispiegano i meccanismi descritti.
E non è forse un caso che la riflessione sulla moneta, e la sua popolarizzazione vedono per una volta un contributo americano importante, e non solo di eretici tipicamente inascoltati della prima metà del novecento, come appunto Pound o Douglas, ma ad esempio quello che (ri)scoprono e rendono disponibili al riguardo ad un pubblico che non leggerebbe mai un libro di economia film in libero dominio diffusi su Internet negli ultimi anni come Zeitgeist Addendum o Moneta come debito, da cui sono state puntualmente ricavate versioni italiane.
A fronte di tutto ciò, non esistono ritorni al passato. Il denaro è nato dal conio del principe che garantiva le unità di peso del metallo pregiato usato come mezzo di scambio, si è trasformata in pezzi di carta per meglio corrispondere alle esigenze del prestito a interesse, è oggi composta da valori contabili che esistono solo nella Rete, non vengono mai davvero pagati, e si espandono e restringono a prescindere dall’immissione stessa di nuovo circolante e per ordini di grandezza superiori. Ritornare a fasi precedenti di tale processo, ove anche avesse successo, non farebbe in tutta probabilità che ricondurci a conclusioni e conseguenze che già conosciamo nel mondo contemporaneo, e che è legittimo giudicare men che desiderabili. L’uscita dall’euro in questo quadro sembra ad esempio un progetto totalmente irrealistico, non solo e non tanto perché politicamente difficilissimo – ciò che si dovrebbe davvero fare se possibile lo è anche di più -, ma perché non si vede lo scopo del ritorno a piccole valute locali ancor più vulnerabili al sistema descritto, o al meglio utilizzabili (ma solo fuori dall’Unione Europea…) per la politichetta stracciona delle svalutazione competitiva dei governi democristiani del dopoguerra per sostenere esportazioni e turismo straniero. Tanto più nella misura in cui c’è oggi l’esperienza svizzera degli ultimi decenni sta a dimostrare che l’indipendenza conquistata a prezzo di un’uscita dalla storia è essa stessa instabile nel mondo del ventunesimo secolo.
Piuttosto, proprio la radicale smaterializzazione della moneta e l’evidenziazione dei meccanismi, essenzialmente perversi, che la coinvolgono può contribuire a rendere più evidente l’essenza essenzialmente strumentale ed arbitraria della moneta e delle regole cui essa è sottoposta, che in Italia sono state ben illustrate dal lavoro indefesso di un altro outsider non condizionato dal pregiudizio filosofico di un’economia politica che scambia le sue costruzioni teoriche per leggi naturali, Giacinto Auriti. Le cui idee oggi vengono a quanto pare riscoperte non certo da una sinistra ufficiale ormai ridotta all’umanitarismo d’accatto ed alla difesa di interessi corporativi, non certo da una destra postmissina impaziente di strappare alla prima la palma di cameriere più qualificato dei poteri forti nel nostro paese, ma all’interno del mondo identitario, da parte di un’autrice come Ida Magli, e persino al cuore del più conclamato liberalismo politico, dai libri di Tremonti al Giornale che pubblica oggi articoli sul signoraggio bancario (! – cfr. il redazionale dell’11/1/2009).
E costituire i presupposti in termini di “pensiero trasversale” per una riappropriazione innanzitutto culturale, e poi politica e reale dei meccanismi monetari, a partire dall’adozione anche localista di strumenti di scambio (e di politica in senso ampio “monetaria”) paralleli ed indipendenti rispetto all’euro cartaceo, per finire con il superamento radicale dell’assurdo pregiudizio liberista che consente oggi alla BCE di proteggere il sistema che non solo permette l’espropriazione di ricchezza reale in cambio di nulla, ma garantisce l’indisturbato scatenarsi di ondate di miseria e degrado in paesi le cui infrastrutture, popolazione, domanda interna, risorse naturali, capacità produttiva, pure non sono cambiate di un millimetro dalla vigilia della crisi stessa, dimenticando una volta di più il monito poundiano che non sono i soldi che si mangiano, e che “dire che uno Stato non può fare qualcosa perché mancano i soldi è come dire che non può fare un’autostrada perché mancano i chilometri”.