Addio Sanguinetti, il poeta post-poundiano del gruppo 63
di Miro Renzaglia - 19/05/2010
Una vita dedicata alla poesia. Quella di Edoardo Sanguineti, morto ieri, all’età di 79 anni nella città, Genova, dove era nato il 9 dicembre 1930. Il poeta è morto nel corso di un intervento operatorio le cui circostanze sono oggetto di indagine.
Fine intellettuale, teorico e critico letterario, autore di teatro e docente di letteratura all’Università del Capoluogo ligure, Sanguineti segnerà ancora a lungo il percorso della scrittura poetica italiana. La sua attività prende via, lui poco più che ventenne, con le prime raccolte, Laborintus (1956) e Opus metricum (1961). Proprio nel 1963, darà vita insieme a Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Luciano Anceschi e molti altri, alla esperienza di rinnovamento poetico più profonda del Novecento italiano, dopo il Futurismo: quella del Gruppo 63 che, nel suo nucleo essenziale: Giuliani, Sanguineti, Pagliarani, Balestrini e Porta, s’era già raccolto nell’antologia de I Novissimi nel 1961.
La poesia di Sanguineti è poesia politica in estensione fra lettura ideologica, marxista e strutturalista dei piani della scrittura e attenzione a quelle “umane faccende” che si svolgono, seminascoste e talvolta perfino intimamente tra le pieghe della grande narrazione della storia. Nonostante le tutt’altre ascendenze della politica in senso stretto, il poeta genovese non aveva difficoltà a riconoscere un proprio debito di apprendistato con Ezra Pound, tanto da accettare di buon grado di essere definito da Umberto Eco “poeta post-poundiano”. Era proprio in Pound e nel Vorticismo, infatti, piuttosto che nei futuristi che Sanguineti e, con lui molti dei poeti del Gruppo 63, trovarono la chiave di superamento del fin lì dominante Ermetismo.
Una scrittura materialista, la sua. Dove per materialismo non va inteso solo il principio marxiano del termine quanto, piuttosto, il concepire la parola come materia viva da lavorare e trasformare ai fini di un linguaggio che non si voleva più ripiegato sul suo significato ma che cercava nel significante nuove strutture argomentative. Una ricerca tutta sperimentale che lo porterà negli anni Settanta a sviluppare un discorso se non “al termine della parola” sicuramente in zone molto prossime ai “giochi di parola”.
E’ il tempo Wirrwar (1972) Postkarten (1978) Stracciafoglio (1980) e Scartabello (1981), fino a quel Gatto Lupesco (raccolta che racchiude il lavoro tra il 1982 e il 2001) che contiene la più chiara definizione del suo estremo approdo poetico, Cos’è la poesia: «la linea (lunga che, larga che) lista / (unifica, univerte, ulcera, ustiona), / con campi e cerchi, critico e cronista: / (informa e incide e imprime, idolo e icona): / Arti e artefatti articola in artista / nessi di nodi di nuda non persona, / occhi ottativi in ottimo ottimista: avventi e apofobie, se avverbia, aziona: / normale normativa nutre nomi, / concilia congiuntivi e congiunzioni, / esprime esclamativi, elude encomi: / succhia i supini, è soma in semi ne in stomi: / chiavi e chiodi conchiude in cavi coni, / indica indicativi in ipoidiomi:». Un approdo che ha nell’ironia e nell’autoironia la cifra tangibile dello stile.
In un’intervista del 2003, a cura di Marina Giardina che gli domandava: «Quale è il disordine da cui noi oggi dobbiamo uscire? Quale palus putredinis? Quali modelli?», rispose: «La poesia deve rifiutare i modelli. Si continua a tornare all’ordine quando invece bisogna tornare a quel disordine».
«Quel disordine» a cui intendeva essere necessario continuamente ritornare per rifiutare i modelli imposti, a noi piace dare il nome di vita. Che è poesia.