Le gesta mitizzate di Alessandro Magno sono narrate dall’Arabia fino a Giava e Sumatra
di Francesco Lamendola - 15/06/2010
È possibile che l’occidentale di media cultura ignori che la XVIII Sura del «Corano», denominata «Al kahf» («La caverna»), contiene un ricordo mitizzato di uno dei più importanti personaggi della storia antica: Alessandro Magno.
In essa si parla della leggenda dei «sette dormienti», interessantissimo esempio di sincretismo islamico-cristiano, che avrebbe le sue radici nella leggenda dei sette martiri di Efeso, che si lasciarono murare vivi dai pagani in una caverna al tempo dell’imperatore Decio, verso la metà del III secolo; per poi tornare alla luce, viventi testimonianze del vero Dio, due secoli più tardi, prima di morire definitivamente.
Una caratteristica festività in onore dei «sette santi dormienti» si celebra ogni anno in un paese della Bretagna, Stiffel, il giorno della ricorrenza di santa Maria Maddalena; festa alla quale intervengono, oltre ai devoti cristiani, anche numerosi musulmani provenienti dai luoghi più disparati (e ciò ben prima del fenomeno, relativamente recente, della massiccia immigrazione dall’Asia e dall’Africa verso la Francia e altri Paesi d’Europa), come l’Africa subsahariana e le isole Comore, dato che, appunto nella Sura XVIII, i sette martiri sono ricordati come «Ahlu-l-khafi», vale a dire «la gente della caverna»; devozione che, per quanto strano possa apparire, non è mai stata sconfessata dall’Islam ufficiale.
Così, nella piccola parrocchia di Vieux Marchés, nella Côtes du Nord, le voci di cristiani e musulmani si mescolano nella preghiera, allorché viene cantata una lunga lauda in lingua bretone che ricorda l’eroico sacrificio dei sette giovani martiri: esempio forse unico di convergenza culturale fra le due grandi religioni monoteiste derivate dall’ebraismo. E, intrecciata alla versione islamica leggenda (usiamo qui la parola “leggenda” nel senso più generico e non per avanzare un giudizio di merito, ché essa potrebbe anche avere una radice storica reale), vi è il ricordo - che ha assunto nel tempo dei tratti sempre più leggendari - della straordinaria personalità e delle imprese eccezionali di Alessandro Magno, colui che cercò di fondere la cultura del’Occidente con quella dell’Oriente.
Nel corso del Medioevo, svariate località della Germania, della Francia e della Spagna si vantarono di accogliere le reliquie dei sette martiri della grotta di Efeso; e anche nell’area islamica lo stesso culto si diffuse in diverse località carovaniere, specialmente del Nord Africa.
Ha osservato in proposito Federico Perrone, nel suo commento al «Corano» (Milano, Mondadori, 1979, vol. 1, p. 422):
«È tutta una storia del mondo antico che fa riscoprire la localizzazione di un culto parallelo tra islam e cristianesimo. L. Massignon lo ricollega a un culto venerando e preistorico, quello della rugiada celeste delle sette pleiadi che portava la benedizione al raccolto dell’annata, a fine luglio, dai paesi dove si coltiva il riso fino alle steppe degli Arabi dello Yemen e a quelle dei Turchi.
Questo tema di terra perdonata e di vegetazione risuscitata diventa, in ambiente marittimo, un tema di navigazione protetta. I sette dormienti diventano protettori dei naviganti in pericolo. La loro leggenda si è estesa fino a Sumatra, di dove sarebbe partito, nel secolo XII, il battello che avrebbe portato nel Madagascar la colonia musulmana da cui nacquero gli Hovas. Ancora non molti anni fa i piloti delle isole Comore onoravano le loro imbarcazioni con il nome dei sette.»
Di fatto, sedici versetti della Sura XVIII sono consacrati ad Alessandro Magno, qui chiamato «Dhûl-Qarnain», ossia «Quello dal Doppio Corno». In quella sura, Mohammed risponde a quattro difficili domande postegli dai rabbini di Medina: prima, chi sia il misterioso personaggio che dorme in una caverna e che si risveglierà solo alla fine dei tempi; seconda, chi possiede la Fontana della Vita eterna; terza, chi può essere più grande e anche più piccolo di Mosè; quarta, chi fa il giro della Terra, in attesa del Giudizio universale.
Orbene: mentre la prima domanda chiama in causa, in modo abbastanza esplicito, la leggenda cristiana dei sette martiri di Efeso rinchiusi nella caverna, la quarta ed ultima si riferisce proprio ad Alessandro Magno: un Alessandro Magno, però, totalmente islamizzato e trasformato, addirittura, in un vero e proprio messaggero divino. Nella risposta, infatti, Mohammed afferma che egli è il difensore della Fede, colui che porta in ogni continente la luce della vera religione e la cui preghiera risuona da Occidente a Oriente, da Mezzogiorno a Settentrione. Il «bicornuto», infatti, è - come appare anche sulle monete del IV secolo avanti Cristo - il dio Ammone; trasformatosi poi in Alessandro, suo divino messaggero (e da non confondersi con Mosè, egli pure rappresentato sovente, nell’iconografia occidentale, con un corno sulla fronte).
Così, Alessandro - che, come è noto, condusse personalmente una spedizione fino all’Oasi di Siwa, sede di un celebre oracolo di Ammone, in cui (secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, storico greco del I secolo avanti Cristo ) egli venne sepolto dopo la morte improvvisa, avvenuta a Babilonia il 13 giugno del 323, per sua esplicita volontà - diviene, nel «Corano», la spada fiammeggiante di Dio, il vero credente che separa i giusti dai malvagi e che prepara, da un confine all’altro del mondo, l’avvento della vera religione.
Ed ecco che sia la leggenda dei sette giovani dormienti, sia quella di Iskander, il divino messaggero «bicornuto», si diffondono dal Mediterraneo all’Oceano Indiano e alle coste sud-occidentali del Pacifico, ove nel corso del Medioevo si stabilirono numerose colonie di mercanti arabi, importandovi naturalmente anche il loro credo religioso.
Come si è formata, in seno all’Islam, la tradizione di un Alessandro Magno che indica la via del Cielo ai veri credenti; non già di un profeta, ma di un mistico personaggio che viene mandato sulla Terra da Dio stesso, dotato di autentica onnipotenza? In parte dalla tradizione orale e in parte dal «Romanzo di Alessandro» dello Pseudo-Callistene, formato da una serie di racconti apocrifi raccolti ad Alessandria d’Egitto a partire dal secolo successivo alla morte del sovrano, che ebbero straordinaria fortuna sia in Occidente che in Oriente e che vennero tradotti in ebraico, in siriaco, in arabo, in persiano, in latino, in greco, in numerose lingue europee moderne, comprese quelle slave. Così, prima di “approdare” alla XVIII Sura del «Corano», Alessandro Magno era già stato trasformato in una sorta di eroe santificato, benefattore dell’umanità, attraverso l’antichità ed il Medioevo, sia nell’ambito della cultura cristiana, sia di quella ebraica.
Non che la leggenda relativa al sovrano macedone sia sempre stata interamente positiva. Nel «Libro dei Maccabei» egli è ricordato in termini sostanzialmente negativi, come esempio di orgoglio sfrenato e di ambizione smisurata; e anche nella tradizione persiana, ad esempio nel «Vero Libro della Legge», scritto in epoca sassanide (VI secolo dopo Cristo), «il maledetto Iskander» viene descritto addirittura come un inviato sulla Terra di Ahriman, il Dio del male. Tuttavia, la tradizione a lui favorevole - che, in ambito ellenistico, lo vede addirittura come una sorta di incarnazione di Dioniso-Bacco -, finirà per prevalere nettamente, specialmente in ambito ebraico, cristiano e musulmano, e ciò in ragione di due elementi decisivi: il fatto che sia stato colui che ha liberato i popoli semiti dal dominio persiano e, in secondo luogo, il fatto che si è mostrato ovunque rispettoso dei culti locali.
La sura della Caverna, pertanto, raccoglie essenzialmente la tradizione ebraica del «Romanzo di Alessandro», con evidenti influssi cristiani e gnostici e arricchendola con il ricordo di numerosi eventi soprannaturali, in cui il gusto del meraviglioso si mescolo alla volontà edificante e forgia un personaggio dai caratteri semidivini, mandato dal Cielo a portare la giustizia tra i popoli e a preparare l’avvento del Giudizio finale.
Ha scritto lo storico francese Paul Faure nella sua biografia «Alessandro Magno» titolo originale: «Alexandre», Paris, Fayard, 1985; traduzione italiana di Francesco Morabito per «Il Giornale», Roma, 1989, 313-15):
«Mentre gli Arabi fanno di lui un pio mussulmano che è andato in pellegrinaggio alla Kaaba, i principi di Georgia, d’Armenia, del Turkestan – antica Sogdiana -, d’Afghanistan si lusingano e si gloriano di discendere da Alessandro. Egli ha fondato in Asia sei Alessandria, a Begram, a Termez, a Leninabad a/o presso Sukkar, alla foce del Purali e presso Abadan. La tradizione, che gliene ha attribuito dodici, quarantadue, addirittura settanta, ha fatto fiorire la sua leggenda quasi ovunque nell’antico Impero persiano. I suoi immediati successori, Antioco e Seleuco, hanno dato il suo nome ai posti che fortificavano o cercavano di colonizzare per assicurare la continuità dell’impero.
Ed è così che, sino ai giorni nostri, Iskanderun (Alessandretta) in Turchia, Muhammarah in Iraq, Marv (Merv) in Uzbekistan, Khanu e Hormuz in Iran, Herat e Kandahar in Afghanistan, Uchh e Karachi in Pakistan hanno preteso di essere state fondate da Alessandro in persona. I loro abitanti conservano pietosamente la leggenda del re-giustiziere, protettore e salvatore dell’umanità, unificatore dell’Impero, anche se non ha fatto altro che passare a cavallo attraverso una borgata indigena, molto anteriore per data. Lungo tutto il corso dell’Amu Daria e del Wakhsh, l’antico Osso, gli abitanti segnalano dei tumuli, dei forti, dei muri, dei passaggi di Iskandar. A Derbent essi mostrano il luogo di nascita di Rossana o Roshana, sua sposa. A Kilif, 70 km a nord-ovest di Balkh (Battra), i geografi arabi del Medio Evo situavano la Rubat Dhû-l-Qarnain, cioè il Posto di guardia di Alessandro, testimone del suo passaggio dalla Battriana in Sogdiana nella primavera del 329 a. C. Le atuali guide del Tadijkistan e dell’Uzbekistan non mancano di raccontare ai turisti di tutto il mondo le alte gesta ed i misfatti di Alessandro in occasione delle sue campagne in Sogdiana e di mostrare qualche traccia del suo passaggio, da Tashkent a Samarcanda, nella valle dello Zeravshan. Sottolineano che egli ha perduto più di 2.000 uomini nell’estate del 338 (Arriano, IV, 6, 2; Quinto Curzio, VII, 7, 39). La città di Marghilan, nel Ferghana, pretende di conservare uno dei suoi stendardi e vi si mostra persino la sua tomba. Nella valle della Kunar, l’antica Euaspla, a nord-est di Djalabad, gli uomini dagli occhi azzurri “discendono da Alessandro”. A qualche chilometro da Taxila, nel Pakistan, dove l’esercito si è acquartierato nell’inverno 327-326, a Mankiala, gli indigeni credono che sotto lo stûpa del centro della pianura Alessandro in persona abbia inumato il cavallo Bucefalo. Essi continuano persino a chiamare così i loro propri cavalli. Presso la città santa di Thata dove, si dice, è terminata la grande marcia verso est, si parla comunemente d’Iskedder Sia, Alessandro il Grande. Ma ben alidlà di questo punto, nella valle del Gange che egli non ha percorso, e dove solo Megastene si è recato verso il 280 a. C., il folklore evoca il Conquistatore, sia che si faccia di lui il rivale di Çandragupta, sia semplicemente che si giochi a scacchi, gioco della “kshah”, o a carte, gioco del “naib”, suo luogotenente. Molti amici, in Iran, in Afghanistan e in Pakistan, sono stati capaci di raccontarmi in dettaglio le imprese di quest’uomo prodigioso e ispirato, non solo secondo il Corano e la vita romanzata, attribuita a Callistene e tradotta in indostano, ma secondo la tradizione locale e l’insegnamento dei loro precettori.
La storia d’Iskandar Zulkarnain, conquistatore del mondo e portatore delle luci della vera religione, è penetrata con l’islam a Giava, nel XV secolo, e si è diffusa, nel XVI e XVII secolo, in malese, in giavanese e in bugi. La versione malese studiata da Van Leeuwen nel 1937 riporta, dapprima in stile epico, le vittorie di Alessandro, non senza assimilazioni audaci. È così che Andalo-Candolo vi è confuso con Andalas, altro nome di Sumatra. Poi l’autore-interprete mostra il suo eroe alla ricerca della sorgente dell’eternità. Questa ricerca filosofica lo conduce a tuffarsi in fondo all’Oceano in una sorta di campana e ad esplorare il mondo infernale. La sua personalità è stata introdotta alle origini della dinastia dei sovrani malesi. Nella regione di Palembang si può venerare la sua tomba ai piedi del monte Siguntang. No, l’Iskandar malese non è, come Vishnû, o Bhîma, un dio che discende sulla terra, scompare e rinasce metamorfizzato: è un eroe culturale misterioso e che non è mai morto del tutto.»
Il fatto che la leggenda di Alessandro Magno sia giunta a diffondersi in un ambito geografico così lontano dai luoghi che videro le sue imprese e nei quali si formarono i primi racconti su di lui, può stupire solo chi ignori quanto grande sia la capacità di diffusione delle tradizioni orali nelle culture antiche ed in quella medievale.
È stato osservato, ad esempio, che elementi culturali dell’India antica si sono agevolmente diffusi non solo fino al Sud-est asiatico, all’arcipelago indo-malese, alla Cina, alla Mongolia, alla Corea e al Giappone (a cominciare dal Buddhismo), ma anche molto più in là, fino agli arcipelaghi del Pacifico meridionale. Oppure, per spostarci nell’ambito delle culture precolombiane delle due Americhe, siamo oggi pressoché certi che elementi culturali incaici, ivi comprese certe tecniche di tessitura e decorazione, hanno valicato la Cordigliera delle Ande e si sono diffusi fra i popoli indigeni del bacino del Paranà-Paraguay, a migliaia di chilometri di distanza dall’altopiano peruviano e boliviano da cui si erano irradiati in origine.
Quanto, poi, al fatto che la tradizione relativa alle gesta mitizzate di Alessandro sia sfociata in un vero e proprio culto religioso, o meglio, che sia confluita in una religione mondiale, come l’Islamismo, anche questo non dovrebbe meravigliare poi troppo, se si superano gli angusti schemi mentali propri di tanta cultura accademica e si ammette che la storia umana è un palcoscenico molto più grande di quanto solitamente siamo disposti a immaginare. Gli elementi storici, trasformati dai racconti mitizzati di innumerevoli generazioni, possono entrare nel corpo delle religioni e viaggiare attraverso lo spazio ed il tempo in una maniera assai più audace di quel che non si creda; e la stessa cosa vale quando si tratti della loro confluenza non già in una sola religione, ma addirittura in due, come nel caso del romanzo di Alessandro Magno e della leggenda dei sette giovani dormienti, incorporati sia nel Cristianesimo che nell’Islam e tuttora vitali, al punto da formare la materia di una particolare forma di devozione popolare.
Così, quando i pescatori di Giava e di Sumatra invocano, ai nostri giorni, la protezione di Iskandar, prima di affrontare le onde del mare dal quale traggono le fonti di sostentamento, di certo essi ignorano che il loro protettore celeste non è altri che un antico sovrano macedone il quale concepì e realizzò, in maniera che ancora oggi possiede del sorprendente, l’audacissimo disegno di fondere la cultura greca con quelle d’Egitto e dell’Asia anteriore e che si spinse con i suoi eserciti fin nel cuore dell’India, in un tempo in cui scarse e fantastiche erano le conoscenze geografiche tra il bacino del Mediterraneo e quello dell’Oceano Indiano.