Con lo "Strega" non ha vinto soltanto Antonio Pennacchi ma tutto un popolo del '900
di Luciano Lanna - 05/07/2010
Che un romanzo come Canale Mussolini abbia vinto il premio Strega non è solo una notizia di cronaca letteraria ma, stavolta, un segnale evidente di un'Italia che è cambiata e si è riconciliata nel profondo con la sua storia, la sua memoria, i suoi "vinti" e i suoi "dimenticati".
Il romanzo di Antonio Pennacchi, oltre a colpire per una scrittura straordinaria e per la capacità di narrazione, è andato infatti a colmare un vuoto sinora incomprensibile. A oggi non c'era un solo romanzo che raccontasse l'epopea della bonifica pontina - la quale pure coinvolse migliaia di veneti, fiulani, ferraresi e non solo - e riuscisse a restituirla all'immaginario per tutto quello che quell'insieme di vicende personali e corali hanno storicamente significato...
«Per la prima volta dai tempi di Giulio Cesare e dei longobardi - spiegava Pennacchi nel suo precedente libro, il saggio Fascio e martello - due milioni e duecentomila ettari di terreno passano a formare una nuova piccola proprietà contadina, una nuova classe sociale che prima non c'era mai stata...». E più avanti precisava senza mezzi termini: «Ora è certo che la Repubblica italiana, con la sua democrazia e la sua Costituzione democratica, nasca dalla resistenza; ma è altrettanto certo che tutti quelli che l'hanno costruita (o almeno la stragrandissima parte) fino al 25 luglio del 1943 fossero stati in un modo o nell'altro tutti quanti fascisti. Ergo la resistenza, da fenomeno storico che in alcune zone e regioni ha avuto anche veri e propri caratteri di "epopea" e di "guerra di popolo", ma che sul piano complessivo, militante e militare, non può essere oggettivamente definita fenomeno dai caratteri unanimistici, è divenuta "mito" e "mitologia lustrale", con il preciso e oggettivo scopo di lavare e mondare ogni colpa di chi era stato fascista fino al 25 luglio e per tutti i vent'anni precedenti. E scaricarla in toto, questa colpa, su quelli che lo erano rimasti anche nel biennio 1943-45: "Sono solamente loro i fascisti: noi stiamo in pace, amen"...».
Ecco, la vittoria di Antonio Pennacchi di giovedì sera è come se dicesse che adesso tutto questo può essere detto e condiviso, che non ci sono più egemonie che stabiliscono i recinti e i limiti del discorso pubblico. E il nome di Pennacchi figura accanto a quelli, per citare qualcuno, di Flaiano e Cardarelli, Pavese e Alvaro, Soldati e Comisso, Buzzati e la Morante, Tomasi di Lampedusa e Arpino, Piovene e Sgorlon... Come a dire i grandi della nostra letteratura dal secondo Novecento in poi. E non a caso un precedente romanzo di Pennacchi, Il fasciocomunista, ha già avuto una versione per le scuole. È già un classico, il nostro Antonio, e anche per questo non comprendiamo chi ha scritto che avrebbe «vinto lo strapotere nostalgico» e «perso la spensierata giovinezza dell'esordiente». Oltretutto almeno due degli altri finalisti, Paolo Sorrentino e Lorenzo Pavolini, avevano anche fatto sapere di fare sotto sotto il tifo per Pennacchi. E quando l'altra sera al Ninfeo di Villa Giulia dopo la mezzanotte Antonio è stato proclamato vincitore del più importante premio letterario italiano dal presidente della giuria, Tiziano Scarpa e dal direttore della Fondazione Bellonci, Tullio De Mauro, le sue parole hanno confermato questa sensazione di coralità e condivisione: «Lo dedico - ha detto - a mio fratello Gianni e alla mia nipotina che è in arrivo...». Più tardi ha aggiunto: «Mia moglie è il vero autore, tutti i miei lavori nascono dalla sua forza. Lei mi dà la forza di lavorare. Il demone della letteratura è infatti arrivato tardi, ho cominciato a scrivere a 36 anni, tre mesi dopo la morte di mio padre, se non avessi iniziato sarei dovuto rinascere». E in Canale Mussolini, c'è tutta la sua gente, i suoi nonni, la mamma che sparava agli americani invasori dell'Agro Pontino, gli zii, tutto il suo popolo... E l'epigrafe del romanzo è esplicita. «A mio fratello Gianni, a tutti i nostri morti», scrive Antonio, dedicando il libro a suo fratello maggiore, il simpatico e coraggioso giornalista scomparso prematuramente nel dicembre scorso, da lui trasposto nel personaggio di Manrico ne Il fasciocomunista.
Ma parlando con chi gli era vicino Pennacchi ha aggiunto che con lo Strega non ha vinto solo lui, ma appunto, tutta la "sua" gente, i vinti del Novecento, gli esclusi dalle convenzioni dell'establishment, il popolo protagonista di quella straordinaria epica che è la lotta nella quotidianità. «Io le storie - ha spiegato - le caccio via, ne ho davvero tante intorno. Ogni famiglia ha i suoi scheletri nell'armadio, sono dolori veri. Si tende a nasconderli e invece bisogna tirarli fuori. E il narratore è quello che prende alcune storie e le fissa perché non vadano perse...». Siamo d'accordo e ci mettiamo anche qualcosa di personale. Chi scrive conosce Antonio da una decina d'anni e, da almeno cinque, premeva continuamente perché Antonio scrivesse il romanzo per il quale, spesso diceva, lui era «venuto al mondo». Sarà un grande romanzo, ci vincerai lo Strega, gli dicevamo io e mio fratello per invogliarlo. E quando lo incontrai in un momento di scoraggiamento provammo, insieme a Pablo Echaurren, a dirgli di tornare a casa nella sua Latina e "mettersi a scrivere". E l'episodio, sia ben chiaro, lo diciamo senza prenderci troppo sul serio, ci ha fatto ricordare la vicenda del primo vincitore del Premio Strega. Correva l'inverno del '46, e il geniale Leo Longanesi - da poco inventatosi anche editore - passeggiava con Ennio Flaiano, quando si fermò e gli disse: «Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?». Dandogli tre mesi di tempo. A febbraio gli riscrive: «Il termine massimo che le posso concedere è di una settimana o poco più, vale a dire Lei dovrebbe farmelo avere qui a Milano il 12 marzo perché il 13 abbiamo il turno preso il linotipista…». Raccontò lo stesso Flaiano: «Dopo quattro chiacchiere mi disse: "Si metta a scrivere e non perda tempo". Me lo ordinò addirittura, senza spiegarmi le ragioni che io non vedevo chiare...». Nel marzo del '47 a Longanesi viene quindi consegnato Tempo di uccidere. Lo scrittore venne come trascinato da Longanesi nell'impresa che lo porterà a vincere il primo Premio Strega. Quando le copie del libro sono stampate, l'editore continua a consigliare l'insicuro romanziere: «Carissimo Flaiano, si faccia avanti col Premio della Bellonci. Ansaldo ha letto il libro e lo trova bellissimo. Io sono dello stesso parere. Bisogna battere Moravia…». Così il primo Strega andò a Flaiano. E quest'ultimo a Pennacchi.