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Se anche Sartori parla di Decrescita

di Alessio Mannino - 06/07/2010

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L’altro giorno quasi ci veniva un colpo, a veder comparire sul fondo di prima pagina del Corriere della Sera, organo ufficiale dell’establishment finanziario italiano, la parola “decrescita” declinata in senso, udite udite, positivo. Lo ha fatto quel politologo ormai anziano e irriducibilmente antiberlusconiano, di penna sciolta e arguzia toscana, spesso saggio ma non di rado rifilatore di crasse panzane (anche nell’articolo in questione, come vedremo), il barboso teorico di leggi elettorali ma pregevolissimo autore di Homo videns, Giovanni Sartori.

Sentiamo che dice: «L’ ultima stima di qualche anno fa che ho sott’occhio contabilizza il Pil, il Prodotto interno lordo, del mondo in 54 trilioni di dollari, mentre gli attivi finanziari globali risultano quattro volte tanto, di addirittura 240 trilioni di dollari. Oggi, con i derivati e altre furbate del genere, questa sproporzione è ancora cresciuta di chissà quanto. (…) Semplificando al massimo, da un lato abbiamo una economia produttiva che produce beni, che crea “cose”, e i servizi richiesti da questo produrre, e dall’altro lato abbiamo una economia finanziaria essenzialmente cartacea fondata su vorticose compravendite di pezzi di carta».

Dopo aver delineato il quadro, l’editorialista (che grosso modo potremmo definire un liberale di tipo montanelliano) cede la parola al capo-scuola mondiale del pensiero della decrescita, il francese Serge Latouche, che col liberalismo (e il liberismo suo gemello in economia) non ha niente a che fare: «Latouche ha calcolato che lo spazio “bioproduttivo” (utile, utilizzabile) del pianeta terra è di 12 miliardi di ettari. Divisa per la popolazione mondiale attuale questa superficie assegna 1,8 ettari a persona. Invece lo spazio bioproduttivo attualmente consumato pro capite è già, in media, di 2,2 ettari. E questa media nasconde disparità enormi. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti; e se tutti vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei». Folgorante conclusione: «La morale di questa storia è che già da troppo tempo siamo infognati in uno sviluppo non-sostenibile, e che dobbiamo perciò fare marcia indietro. Latouche la chiama “decrescita serena”. Serena o no, il punto è che la crescita continua, infinita, non è obbligatoria. Oramai è soltanto suicida» (Corsera, 25 giugno 2010). 

Hai capito, la firma del Cocchiere della Sera. Ha accolto la tesi fondamentale del più eretico degli economisti contemporanei, anzi di uno che sostiene che l’economia è un’invenzione sostanzialmente anti-umana (il suo ultimo libro uscito in Italia si intitola appunto “L’invenzione dell’economia”). E ha osato sottoscrivere l’idea-tabù per eccellenza: se continuiamo su questa china, a rincorrere una crescita economica senza fine e senza scopo, il sistema in cui viviamo è destinato al suicidio. Per carità, un editoriale non fa primavera e non smuove le montagne.

Tanto più che Sartori persiste nel tenersi stretto ai limiti intellettuali di uno che è pur sempre affezionato al sistema («Questa economia cartacea non è da condannare perché tale, e nessuno nega che debba esistere») e alle sue personali fisse (come quella per cui se il miraggio del nostro modello di iperproduzione e iperconsumo ha fatto lievitare la prolificità del Terzo Mondo, devono essere quei miserabili negri a fare meno figli, non noi a cambiare modello: «La dissennata esplosione demografica degli ultimi decenni mette a nudo che la terra è troppo piccola per una popolazione che è troppo grande»).

Ma la notizia che è che ormai la necessità reale, urgente, oggettiva, inoppugnabile di rivedere i presupposti della nostra economia fondata sul nulla è arrivata ad un punto tale da saltar fuori l’alternativa obbligata della decrescita persino sulle colonne di una voce allineatissima com’è il primo giornale italiano. Riprendendo un pensatore, uno dei pochi rimasti in giro, che sul Manifesto del giorno dopo spiegava come meglio non si potrebbe il pantano in cui, per dirla con Sartori, ci siamo infognati: «C’è una spada di Damocle sul sistema: si tratta della creazione di averi finanziari attraverso i prodotti derivati. Sono i dati della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) di Basilea: 600mila miliardi di dollari di prodotti derivati, una cifra che rappresenta più o meno 15 volte il pil mondiale, che va messa a confronto con i 5mila miliardi stanziati per salvare le banche o i 750 miliardi di euro messi dall’Europa per far fronte alla crisi della Grecia e di altri stati. Siamo in un sistema di fiction, di speculazione fantastica, che può crollare, soprattutto con le politiche deflazionistiche messe in atto oggi. In Occidente, abbiamo vissuto una parentesi storica, grazie all’economia del petrolio. In Europa è come se ogni cittadino avesse avuto a disposizione 50 schiavi, 150 negli Usa. L’industrializzazione in Europa è stata terribile tra il 1750 e il 1850, poi è andata meglio dal 1850 in poi, con lo sfruttamento del carbone e del petrolio, ma a scapito degli altri, del terzo mondo e della natura. Quando facciamo il pieno mettiamo nel serbatoio un’energia equivalente a 5 anni di lavoro di un operaio. I ricchi sono diventati più ricchi e i poveri meno poveri e hanno persino avuto l’illusione di diventare ricchi. Ma adesso la festa è finita. Non sarà mai più cosi, neppure nei paesi emergenti, come la Cina, dove i contadini sono cacciati dalla terra come lo erano in Gran Bretagna nel XIX secolo».