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Alcune aporie della filosofia della storia del pensatore cattolico Angelo Crespi

di Francesco Lamendola - 20/07/2010



 

Il nome di Angelo Crespi (niente a che fare con l’omonimo giornalista del Popolo delle Libertà), nato a Milano nel 1877 e morto a Londra - dov’era divenuto cittadino britannico dal 1938 - nel 1948, è caduto un po’ nel dimenticatoio; di questo saggista e filosofo che, dopo essere stato vicino al Positivismo, per influsso di Ardigò, mentre studiava Scienze naturali a Pavia, era poi approdato a posizioni spiritualistiche e cristiane, specialmente con la mediazione kantiana, e passando anche attraverso il travaglio della stagione modernista.

Convinto assertore di un cristianesimo vigorosamente impegnato nell’ambito sociale, Crespi ebbe anche contatti con il socialismo riformista di Turati e di Treves e collaborò con riviste quali «Rinnovamento», «Nova et vetera», «Coenobium», per poi espatriare durante il Ventennio, schierandosi su posizioni di antifascismo intransigente. Stabilitosi in Gran Bretagna, collaborò a giornali quali «Il Corriere della Sera» e «Il Popolo». Fu prodigo di aiuti, anche finanziari, verso il fuoriuscitismo italiano ed ebbe contatti specialmente con don Luigi Sturzo e con Gaetano Salvemini; e, sia come giornalista, sia come docente nelle università britanniche, condusse una attiva campagna contro Mussolini e per sensibilizzare l’opinione pubblica inglese alla questione della dittatura fascista.

Fu un entusiastico ammiratore di Churchill, specie dallo scoppio della seconda guerra mondiale, a dispetto del fatto che il leader britannico fosse stato così prodigo di elogi tanto al Duce che al regime da lui instaurato in Italia: cosa che il Crespi si guardò bene dal ricordare quando, nel suo libro più importante, «Dall’io a Dio», si lanciò in un elogio sperticati del primo Ministro inglese e della “eroica” resistenza britannica al nazismo, paragonandola a quella di Leonida al passo delle Termopili e a quella di Carlo Martello nella battaglia di Poitiers.

Ma, soprattutto, fu un entusiastico ammiratore delle libertà inglesi, della Magna Carta, della Glorious Revolution; e, al tempo stesso, della libertà religiosa inglese (dimenticando che esisteva tuttora una norma la quale vietava a un sovrano inglese di sposarsi con un coniuge cattolico), al punto da farsi strenuo cantore di quella cosa grottesca che fu la Riforma di Enrico VIII: dettata in pari misura dalla libidine di quel sovrano Barbablù, in fregola di divorziare da Caterina d’Aragona per sposarsi con Anna Bolena, e dalla sua smisurata avidità, che lo spingeva alla confisca dei vasti beni della Chiesa cattolica.

Si arriva così al paradosso che, per il cattolico Crespi - talmente anglicizzatosi nel modo di pensare e di sentire, che perfino la sua scrittura si anglicizza e perde la naturale scorrevolezza sintattica e lessicale della buona lingua italiana (come si può vedere nel brano qui sotto riportato), il “vero” cattolicesimo non è quello di Roma, ma quello della Chiesa anglicana e, ancor più, delle Chiese non conformiste, specialmente di matrice calvinista; e che egli si spinge fino a profetizzare che sarà quella la via per la quale anche la Chiesa dei paesi “nominalmente” cattolici tornerà al vero cristianesimo, che è, per lui, essenzialmente spirito di libertà.

Così, per coniugare i suoi due grandi amori spirituali, quello per il cattolicesimo e quello per l’Inghilterra, sua patria adottiva, Crespi si sbizzarrisce a sentenziare che il vero spirito cristiano vive nella storia imperiale britannica e che tanto la sconfitta della Invincibile Armata di Filippo II nel 1588, quanto quella della “Luftwaffe” di Göring nel 1940, sono stati dei “giudizi di Dio”, attraverso i quali l’Onnipotente ha voluto, manzonianamente, schierarsi al fianco delle forze del Bene, cioè della democrazia, contro quelle del male, ossia del totalitarismo.

Evidentemente, a Crespi non è venuto in mente, neppure per un attimo, che una democrazia possa essere totalitaria quanto, e anche più, di una dittatura; che non la libertà dei popoli, ma l‘egoistico perseguimento delle proprie fortune abbia spinto la borghesia britannica nella sua avventura imperiale, fra l’età di Elisabetta e quella di Churchill, culminata, a suo dire, nella più grandiosa costruzione di democrazia che la storia abbia mai visto; e che la distruzione di Amburgo e di Dresda, come quella di Hiroshima e Nagasaki, nulla abbiano ad invidiare, quanto a deliberata malvagità e pianificata volontà di sterminio delle popolazioni civili, alle pagine più crudeli scritte dalle SS in Europa, o dalle truppe giapponesi nella presa di Nanchino.

Crespi definisce “eroica e solitaria” la resistenza britannica alla Germania di Hitler nel 1940-41; non ha tuttavia l’onestrà di riconoscere che la vittoria della democrazia inglese si servì della spada continentale dell’Unione Sovietica, vale a dire di un regime politico che superò i crimini del nazismo e che si rese responsabile di una persecuzione anticristiana quale non si era vista nemmeno ai tempi di Nerone o di Diocleziano. In compenso, afferma - senza batter ciglio - che fu proprio la democrazia inglese, sostenuta da quella americana, ad opporsi alla marea comunista; ma non dice, che, fin dalla Conferenza di Yalta, Churchill e Roosevelt avevano deciso di regalare mezza Europa alle brame di Stalin.

Non gli viene in mente, ugualmente, che - forse - nel 1940, per un intellettuale italiano, sarebbe stato più giusto, o quantomeno più decente, parteggiare per l’Italia e non per la Gran Bretagna e che mai un intellettuale inglese, per qualsivoglia ragione al mondo, avrebbe parteggiato per la nazione nemica, fino al punto di augurarsi la sconfitta della propria patria. Né sembra sospettare che, nel 1940, la Gran Bretagna rappresentasse il vecchio, nel peggior senso del termine, vale a dire la mostruosa avidità ed il cieco egoismo di un impero morente che, dopo aver spremuto le ricchezze di un quarto delle terre emerse ed aver costruito le proprie fortune sul sangue dei suoi stessi lavoratori, così come sulla secolare repressione degli Irlandesi e sul genocidio di interi popoli, come i Tasmaniani, ora pretendeva di sbarrare la strada a nazioni più giovani e prolifiche, tenendole in un perenne stato di soggezione per meglio favorire l’esportazione delle proprie merci e dei propri capitali e per assicurarsi, attraverso il dominio delle rotte marittime, la conservazione perpetua delle sue ricche prede coloniali (mentre con palese ipocrisia aveva levato alte strida, nel 1935, per la “povera” Abissinia di Hailé Selassié).

Il Crespi non ha neppure ha l’onestà storica di ricordare che, ancora nel secondo decennio del XIX secolo, la Gran Bretagna rappresentava, al massimo grado, l’odio della ricca borghesia degli affari contro l’idea democratica; tanto è vero che, quando i Britannici conquistarono Washington, il 24 agosto 1814, l’ammiraglio Sir George Cockburn, in piedi sulla poltrona del Presidente della Camera, al Campidoglio, domandò alle sue truppe: «Dobbiamo dar fuoco a questo rifugio della democrazia degli Yankee?»; al che i soldati urlarono in coro: «Sì»; e così avvenne.

Nel libro già ricordato, «Dall’io a Dio» (Parma, Guanda Editore, 1950), egli tende a far coincidere il “giudizio di Dio” con il liberalismo e il parlamentarismo britannico, presentati come il punto più alto della storia europea, in quanto depositari del valore della dignità e libertà dell’individuo e, niente di meno, dell’autentico spirito cristiano, più di quanto non accadesse nei paesi cattolici ove, a suo dire, la forma prevaleva sovente sulla sostanza (p. 330-335):

 

«… Ecco l’essenza della originalità della rivoluzione puritana (non senza remote origini nel Franescanismo più radicale), donde fluirà tutto il caratteristico modo anglosassone di concepire lo Stato e i rapporti tra società e Stato: tale essenza è nel concetto de diritto e del dovere di ciascuno di noi di vivere secondo una coscienza illuminata da un diretto rapporto con Dio. Lo Stato esiste sopra tutto a questo fine.

La libertà politica e civile nasce così dalla religione e questa, lungi dall’essere mera tolleranza, un mero prodotto di scetticismo religioso sorto in reazione alle guerre religiose ed all’intolleranza di Chiese scomunicantisi l’una l’altra, è vera e propria libertà religiosa, libertà radiata nella convinzione che Dio non si rivela che a chi liberamente Lo cerca e Gli si affida; e di continuo dice a ciascuno di noi come al profeta Ezechiele: “Rizzati in piedi ed io ti parlerò!” Tale è il significato di quella che Milton chiamò la Riforma della Riforma  nel suo contrasto con la mera Contro-Riforma post-ridentina.

L’intrinseco antitotalitarismo del concetto e del sentimento anglosassone dello Stato e della democrazia balza dall’intrinseco antitotalitarismo e antimonismo dell’esperienza religiosa; dell’esperienza della iniziativa di Dio in amore e nel nostro non poter a meno di risponderle con amore; dell’esperienza che il rapporto tra Dio e l’uomo è un rapporto, che è meno inadeguatamente espresso in analogia col rapporto Io-Tu tra bambini e genitori e bambini ed adulti; dell’esperienza dell’anima che si sente CHIAMATA dal suo Dio; da un Dio che, perché la crea e la dota di limitata per quanto indefinitamente espandibile autonomia, non le è meramente esterno ed anzi può esserle in grado unico INTIMO, indico pur nel mentre è radicalmente ALTRO, solo ad essere l’ideale realizzato.

È una esperienza che già si verrà affievolendo in Locke e in tanti suoi seguaci americani; ed andrà pressoché completamente perduta ripassando l’Atlantico e venendo a contatto con Rousseau e con la reazione a un ambiente storico insorgente contro un assolutismo ben altrimenti antico e forte di quello rovesciato in Inghilterra, sia nell’aspetto politico sia nell’ecclesiastico; in una Francia che ad un tempo doveva rovesciare tale assolutismo, aveva bisogno d’un governo forte per trasformarsi a feudale in democratica e doveva difendersi contro gli altri assolutismi europei; e che in un simile sforzo si trovò portata a creare e a tendere a favorire assolutismi e totalitarismi eguali e contrari ai passati.

Ciò non toglie che una tale esperienza d Dio sia alla radice di tutta la storia dello spirito democratico moderno e senza di essa questa storia sia incomprensibile. Dietro la possibilità e la attualità dell’eroica e solitaria resistenza britannica del 1940-41 c’è tutto il processo storico in virtù del quale il Medio Evo inglese è stato tale da favorire più di ogni altro lo sviluppo di tutte le libertà;: e in virtù del quale, all’inizio dei tempi moderni, quel riconnettersi all’esperienza israelitico-cristiana, in modo diretto e senza intrusioni culturali classiche, in cui è l’essenza della Riforma in generale, si è compiuto sotto l’aspetto pratico in guisa da fare dell’aspirazione che fece di Israele il popolo più libero dell’antichità, l’ispirazione, per ben tre secoli, dell’educazione morale, sociale e politica del più libero tra i popoli moderni.

Precisamente come l’Inghilterra è fra tutti i grandi paesi moderni quello in cui Monarchia e Popolo, Borghesia e Aristocrazia da un lato e borghesia e classi lavoratrici dall’altro, invece di contrapporsi rigidamente e di portare a lotte in cui l’un polo trionfa in modo assoluto dell’altro eliminandolo, son venute a un compromesso e ad una sintesi che fa di esso il paese a massima coesione sociale, così essa è il paese in cui Chiesa e Stato, cultura laica e cultura religiosa più si sono n on escluse, ma reciprocamente compenetrate e in cui meno è visibile ed influente quel fenomeno storicamente comprensibilissimo ma spiritualmente patologico, comune a paesi latini e slavi, che è il laicismo areligioso ed antireligioso; il paese in cui la RELIGIONE DELLA LIBERTÀ è qualcosa d’assai più d’una bella frase; il paese in cui il rispetto  della individualità e delle minoranze nella vita politica, in società volontarie ed in assemblee rappresentative, è stato promosso dalla disciplina volontaria nella ricerca della volontà di Dio per mezzo della libera discussione, in seno ad autonome associazioni religiose e culturali  convinte che ogni loro membro, in quanto creato da Dio, è da lui CHIAMATO a compiere una funzione specifica; il paese da cui l’ethos generatosi così in seno alle Chiese e generatore  a sua volta dell’ethos politico cristallizzato nella struttura costituzionale e nella procedura parlamentare, ha potuto trasferirsi  oltre gli oceani e darvi origine non solo agli Stati Uniti, ma a quella famiglia di democrazie che è l’Impero Britannico, questo massimo tra gli esperimenti di democrazia e libertà nella storia. […]

Ecco, nella luce di tutto il proce4sso storico europeo, il significato della solitaria resistenza britannica del 1940-41. Un insigne pensatore americano d’origine tedesca [Reinhold Niebuhr] si è limitato a dire che esso sta in ciò (com’ei poté constatare di presenza agli inizi della lotta “che le risorse della fede cristiana sono un questo paese meno dissipate e in più intima relazione con l’intera struttura sociale e civiltà, che in ogni altra parte dell’Occidente e contribuiscono a conferirgli un più alto grado di salute morale, spirituale e sociale”.

Noi osiamo dire che qui ci troviamo di fronte a un vero e proprio “signum Dei”, in tutto simile a quella vittoria della flotta inglese  sulla Grande Armada di Filippo II, degnamente celebrata a Plymouth cin una medaglia recante inciso il motto biblico circa la catastrofe egiziana nel Mar Rosso: “Deus flavit et dissipati sunt”. Dio è totalmente presente in ogni evento, ma il significato di questo non si rivela a ciascuno di noi che in parte, in proporzione alla sanità dell’occhio del suo spirito. E taluni eventi possono essere più critici e significativi di altri.

Ebbene, la catastrofe della Grande Armada di Filippo II segnante l’inizio di quelle colonie inglesi che più tardi, diventando gli Stati Uniti d’America, diventarono anche il Paradiso delle Chiese libere, è anzi tutto un “signum Dei” nel senso che è incomprensibile senza tener conto di quel senso della presenza dell’Iddio vivente nella storia che è alla radice delle forze medievali e moderne approdate alla formazione dell’intero attuale mondo di lingua inglese. Come senza tale catastrofe non sarebbe finito e forse  si sarebbe espanso e consolidato il monopoli spagnolo, consacrato dal papato sul Nuovo Mondo e l’oscurantismo e l’intolleranza clericale nel Nuovo e nel Vecchio, così senza l’iniziativa di resistenza britannica all’Asse nel 1940 e il suo durare indomito per oltre un anno; senza quella quasi istintiva unanime decisione ed indefettibile fede nella vittoria finale e nella invincibilità dello spirito creato da oltre un millennio di storia gloriosa, nel mentre tutto il resto dell’Europa cedeva e l’America temeva - che i giorni della gloria, potenza e libertà inglese fossero contati, pur l’Asia, l’Africa, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’America meridionale e centrale e pur tutti i paesi cattolici sarebbero rapidissimamente caduti vittime, chissà quanto a lungo, di formidabili trionfanti forze apertamente anticristiane. Si deve a tale resistenza, più tardi integrata dall’americana, cioè all’iniziativa di un mondo di libertà spirituale conseguentemente espressasi in libertà progressivamente anche politica, economica e sociale che il cattolicismo ufficiale ostacolò ad ogni passo del suo nascere e svilupparsi e nel suo esempio suggestivo, che il Cattolicismo stesso deve buona parte della sua sopravivenza; così come in questo momento è sopra tutto all’iniziativa di un tal mondo che si deve il più autorevole e vigoroso sforzo per salvare quel che rimane di civiltà cristiana in Europa dall’aggressione militare e spirituale del totalitarismo e comunismo materialistico di Mosca. Il fenomeno è troppo grandioso e incontestabile per non imporsi alla mente di chi non si lascia dagli alberi oscurare la visione del bosco, quale un vero e proprio Giudizio di Dio.»

 

In una cosa, tuttavia, ha ragione questo tortuoso pensatore che, pur di salvaguardare e mettere d’accordo i suoi due grandi amori, l’umanitarismo cristiano e il parlamentarismo inglese, non si perita di sostenere che il francescanesimo fu una sorta di calvinismo “ante litteram” (il francescanesimo, la cosa più bella prodotta della religiosità medievale, e il calvinismo, la cosa più brutta prodotta dalla Riforma protestante): nel fatto, cioè, che l’essenza delle Chiese protestanti anglosassoni risiede nell’aver espunto la mediazione rinascimentale di grandissimi spiriti, come Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, per tornare a pie’ pari alla lettera ed allo spirito dell’Antico Testamento, vale a dire all’Ebraismo più che al Cristianesimo.

Uno stesso spirito anima, infatti, l’Ebraismo e il Calvinismo: lo spirito esclusivista, tetro, implacabile, di una religiosità che vede in ogni uomo non tanto l’oggetto dell’amore di Dio, ma lo strumento della sua collera, della sua vendetta e della sua potenza; e nei due popoli, l’ebreo e l’anglosassone, i due popoli eletti, ai quali Dio stesso ha affidato le rispettive Terre Promesse (nel caso del secondo, il Nord America), innalzandoli al di sopra della morale comune e, anzi, ordinando loro di sterminare e di soggiogare chiunque osasse opporsi loro (e ciò vale anche per la schiavitù dei  neri nelle piantagioni americane, giustificata dai puritani - come è noto - con la maledizione dei figli di Cam).

Certo, ogni filosofia della storia, quando pretende di farsi interprete della volontà divina, finisce per cadere nel grottesco e peggio; chi non ricorda come lo Spirito Assoluto di Hegel finisca per incarnarsi nel militarismo prussiano (la seconda cosa più brutta prodotta dalla modernità, dopo il puritanesimo)?

La filosofia della storia di Angelo Crespi, allorché pretende di farsi interprete dei segni divini e, quindi, di vestire i panni del profeta dell’antico Israele, non sfugge a questo destino (cui pure era sfuggita quella del tanto deprecato Spengler, in odore di nazismo, ma anche quella del cristiano Toynbee, tanto più accorto e ponderato del Nostro).

La sua requisitoria contro i totalitarismi e il suo panegirico della storia imperiale britannica non possiedono nemmeno la parvenza della obiettività; gli sfuggono completamente le ombre e le luci della storia: da una parte egli vede solo le ombre, dall’altra tutta la luce di questo mondo. Così Crespi ha pagato il suo debito, morale e materiale, verso la nazione che lo aveva accolto e ospitato, lui ben dotato di mezzi materiali e non certo povero operai emigrato per ragioni di sopravvivenza; lui che non aveva cessato, d’altronde in numerosa compagnia, di adoperarsi per la caduta non solo del regime allora al potere in Italia, ma dell’Italia stessa: caduta ignominiosa, dalla quale non si è mai più ripresa, e che è espressa in termini eloquenti da quella clausola del trattato di pace che vietava al nostro governo, ormai repubblicano e democratico, di perseguire quei suoi concittadini i quali si erano adoperati per la sconfitta della Patria nel 1940-43.

Ci si poteva aspettare qualche cosa di più, da un filosofo cattolico che diceva di nutrire tanta ammirazione per san Francesco e per il valore della persona e per la dignità ed il rispetto dovuti ad ogni essere umano.

Davvero la democrazia inglese e americana rispettavano la dignità dell’essere umano, quando distribuivano coperte contaminate dal vaiolo agli Indiani d’America, o quando chiudevano migliaia di donne e bambini boeri nei campi di concentramento, per mettere le mani sui ricchissimi giacimenti d’oro e di diamanti del Sud Africa?

Diciamolo apertamente: una filosofia della storia che ci vede da un occhio solo; che vede, cioè, solo quello che vuol vedere, ed esclude dalla propria visuale tutto ciò che non si adatta ai propri dogmi, è una ben misera cosa.

Se, poi, essa ardisce indossare i panni di una filosofia cristiana, allora il tradimento è completo; e, per essa, non rimane che un profondo, meritato disprezzo.