Il pensiero ribelle
di Alain de Benoist - 19/08/2010
L’identità è al centro di un notevole saggio che Lei ha pubblicato recentemente [Nous et les utres, Krisis]. Perché questo argomento si è fatto così scottante oggigiorno? Come si può concepire un nuovo modello comunitario che non sia un ritorno all’arcaismo?
Il vasto movimento della modernità è stato sorretto dall’ideologia dell’Identico, cioè dall’idea, espressa in diverse forme, che le differenze tra gli uomini siano solo contingenti e transitorie. Il risultato è stato la progressiva crescita di un fenomeno di indistinzione che si è tradotto in una forte erosione delle identità, sia individuali che collettive, fenomeno che oggi trova il suo culmine, dato che adesso si sente dire un po’ ovunque che “non ci sono più punti di riferimento”. Le rivendicazioni identitarie che vediamo fiorire attualmente, anch’esse un po’ ovunque, sono un’evidente reazione contro questa cancellazione dei punti di riferimento. Qualunque sia la forma attorno alla quale si ordinano – identità oggettive o soggettive, reali o fantasmatiche –, esse costituiscono uno dei tratti più significativi del nostro tempo (prima si è rivendicata la libertà, poi l’eguaglianza, poi l’identità), e nel contempo confermano una realtà paradossale: si
comincia a porsi domande sull’identità solo nel momento in cui questa minaccia di scomparire o è già scomparsa.
Il problema è che tutti parlano d’identità, ma assai pochi si sobbarcano la fatica di dire quale interpretazione danno di questa parola. E da ciò nascono innumerevoli equivoci e confusioni. Nel mio libro Nous et les autres mi sono perciò proposto di riprendere da capo un lavoro di definizione. Prima di tutto ho cercato di mostrare per quali ragioni l’identità fosse una dimensione essenziale, costitutiva del sé, della presenza umana nel mondo. Ma mi sono altresì proposto di mettere sotto accusa talune concezioni ingannevoli, che a volte conducono a una vera e propria patologia dell’identità (questo accade quando l’appartenenza viene confusa con la verità). Per me l’identità non è un’essenza unidimensionale, bensì una sostanza plurale che si trasforma di continuo: non definisce quel che non cambia mai, ma quel che costituisce il nostro particolare modo di cambiare. Non può enunciarsi unicamente da sola, ma reclama per definizione una relazione con
l’altro: ogni soggetto ha bisogno di un altro (non di un altro se stesso, ma di un altro che differisce da lui) per costituirsi, ed è per questa caratteristica che tutte le identità sono dialogiche. In fin dei conti, l’identità è una narrazione di sé destinata a strutturare l’immaginario simbolico – questo universo oggi minacciato dal dilagare dei valori mercantili.
Il suo intervento nel dibattito sulla decrescita ha provocato l’isteria di alcuni sostenitori di quest’ultima.
Come spiegare il successo di questa idea? È davvero pertinente o si rivela come una nuova ubbia nata dalla corrente altermondialista?
Dato che stiamo trattando di un’idea così rivoluzionaria qual è la decrescita, a mio parere è ancora
decisamente troppo presto per parlare di “successo”. Limitiamoci a dire che questa idea oggi sta aprendosi la strada nelle menti, nella misura in cui si espandono le preoccupazioni ecologiche e fa la sua comparsa con maggiore chiarezza l’impostura di qualunque riformismo in questo ambito. La teoria parte dalla semplicissima constatazione che una crescita infinita è impossibile in un mondo finito. Questa semplice constatazione, quando è formulata in maniera imperativa o normativa, contraddice frontalmente un altro grande vettore della modernità, ovvero l’ideologia del progresso. Questa ideologia, di cui Georges Sorel aveva ben colto il carattere essenzialmente “borghese”, pretende che la storia sia orientata verso il meglio, che il domani sarà sempre migliore, che l’accaparramento della Terra possa proseguire indefinitamente, che sia del tutto naturale produrre sempre di più onde consumare sempre di più, eccetera. Affermazioni di questo tipo oggi non sono più credibili. Sappiamo che le riserve naturali, a partire dalle riserve energetiche, non sono inesauribili. Vediamo moltiplicarsi ed intensificarsi le sregolatezze climatiche. Sappiamo anche che il saccheggio del pianeta rischia di raggiungere un livello irreversibile. In tutti i campi ci sono dei limiti. Tener conto di tali limiti porta a capire che a volte è necessario dire “è abbastanza” invece che “ancora di più!”.
Resta però molto da fare. Continua a regnare una certa confusione intorno alle modalità di una possibile decrescita – di una “decrescita sostenibile” –, che non può essere confusa con un ritorno indietro o, peggio ancora, con la fine della storia. I sostenitori della decrescita, che non si riducono ai pochi isterici ai quali Lei alludeva nella domanda, devono fronteggiare le critiche congiunte di una sinistra erede del cartesianesimo e dell’illuminismo, che ha costantemente difeso il produttivismo, e di una destra liberale, acquisita da tempo all’assiomatica dell’interesse, che non sogna altro che l’espansione planetaria del sistema del profitto. Mettere in discussione l’idea di crescita indefinita significa mettere in discussione il fondamento stesso, se non la ragion d’essere, delle società “sviluppate” sul modello occidentale. Per questo motivo ci vorrà tempo prima che si insedi stabilmente nelle menti. La “pedagogia delle catastrofi”, da questo punto di vista, non può essere che un coadiuvante. L’opera più urgente va svolta a livello delle idee. Come ha detto innumerevoli volte Serge Latouche, si tratta di “decolonizzare l’immaginario” abituando i nostri contemporanei a relativizzare l’importanza dell’economia e a non lasciare più che i valori mercantili governino integralmente il sistema dei desideri e dei bisogni.
Lei ha prefato di recente la riedizione del libro di Edouard Berth Les méfaits des intellectuels, mentre la rivista “Éléments” pubblica in questi giorni un dossier sulla storia del socialismo francese. Perché questo interesse per una corrente rivoluzionaria a lungo dimenticata? Le sembra auspicabile un’alternativa socialista, fedele a quei valori, che fosse capace di apportare risposte nuove alle sfide del nostro tempo?
È evidente. In un momento in cui la destra si confonde più che mai con il sistema del denaro, mentre la
maggior parte dei partiti “di sinistra” non esitano ormai più a vantare i meriti del mercato, mi è sembrato importante “rivisitare” alcune delle grandi correnti del socialismo francese, cominciando con la più interessante fra di esse, il sindacalismo rivoluzionario, di cui Georges Sorel, Edouard Berth e Hubert Lagardelle furono i teorici e le cui tesi, sostenute da Victor Griffuelhes e da Emile Pouget, trionfarono per qualche tempo all’interno della CGT, all’epoca della famosa “carta di Amiens”. Non per vana nostalgia, beninteso, perché le condizioni di esistenza dei lavoratori sono oggi ben diverse da quelle che erano alla fine del XIX secolo, ma perché vi sono molte lezioni da trarre – a condizione di non cadere nell’interpretazione anacronistica o nell’idealizzazione romantica – dallo studio di quel potente movimento socialista e operaio che, quando lo si guarda da vicino, sfugge alla maggior parte delle divisioni che oggi conosciamo. Ho parlato del sindacalismo rivoluzionario, ma la rilettura di Proudhon, Blanqui, ma si impone altrettanto la lettura di Proudhon, Blanqui, Vallès, Pierre Leroux, Benoît Malon, eccetera.
Nel corso degli ultimi anni, nei suoi scritti Lei ha spesso affrontato l’opera di Karl Marx. Come considera, nella sua riflessione, l’apporto del filosofo tedesco? Quale attualità ha a suo avviso l’analisi marxiana?
Un’attualità indiscutibile. Anche se bisogna leggerlo senza la devozione de marxisti ortodossi o la malafede degli “antimarxisti” di professione che, senza averlo mai letto, si limitano a presentarlo ridicolmente come il “precursore del Gulag”. Andiamo all’essenziale. Marx non è solamente stato uno dei primi a spiegare in modo convincente come il capitalismo organizza l’espropriazione dei produttori sulla quale si fonda; è stato soprattutto colui che, in maniera davvero geniale, ha capito che il sistema capitalistico era un sistema antropologico – quella che io stesso chiamo la Forma-Capitale – ancor più che un sistema puramente economico. Le pagine insuperabili che ha dedicato al “feticismo delle merci”, a partire dalle quali György Lukács ha potuto formulare nel 1923 il concetto di “reificazione” (Verdinglichung), illustrano perfettamente il modo in cui l’appropriazione della Terra da parte del Capitale introduce una vera “cosificazione” dei rapporti sociali, in cui l’uomo non è soltanto assoggettato alla merce, ma si trasforma lui stesso in merce. Questo dispositivo di mostruosa appropriazione ricorda in qualche misura ciò che Heidegger ha scritto a proposito del Gestell, come sistema di fuga in avanti nell’illimitato.
Indubbiamente Marx commette l’errore di sopravvalutare la sola economia, il che lo porta ad attendersi la salvezza dall’avvento di un’altra forma di organizzazione economica, invece di mettere in discussione la stessa economia intesa come valore (è un punto su cui, attraverso Ricardo, rimane dipendente dalla scuola classica). Così come vuole liberare il lavoro, laddove sarebbe stato necessario prospettare l’ipotesi di liberarsi dal lavoro. Egli sviluppa una filosofia lineare della storia che non è altro che una trasposizione profana dello storicismo cristiano. Sottolinea giustamente la realtà delle lotte di classe (che la destra si è sempre intestardita a non riconoscere), ma ha il torto di farne il solo ed unico motore della storia umana. Ha capito benissimo che la borghesia detentrice del capitale – a cui credito mette la liquidazione del sistema feudale, perché in ciò vede una premessa indispensabile all’avvento di una società senza classi – trova nell’accumulo di quel capitale la fonte del proprio potere, e che le forze produttive si sviluppano nel solco del suo dominio di classe. Ha avuto però il torto di attribuire alla borghesia esclusivamente il carattere di classe detentrice dei mezzi di produzione, senza accorgersi che essa era anche e soprattutto portatrice di nuovi valori.
Ciò che egli dice delle “contraddizioni” interne del capitalismo può essere criticato alla luce della storia effettivamente avvenuta. Marx crede un po’ ingenuamente che lo sfruttamento di cui il proletariato è vittima sarà sufficiente per far nascere una coscienza di classe che il partito comunista saprà orientare nel senso della rivoluzione (“la borghesia produce i suoi stessi becchini”). Pensa che quello sfruttamento crescerà sempre nello stesso modo, senza rendersi conto che l’aumento dei salari, che trasforma i produttori in consumatori, consentirà anche al capitale di accrescere i suoi profitti (a che serve aumentare incessantemente la produzione se non c’è nessuno per acquistarla?). Allo stesso modo, pensa che il peso crescente del capitale fisso (“costante”) ridurrà inesorabilmente la componente dello sfruttamento diretto dei proletari nel valore della merce, e da ciò deduce la sua teoria del calo tendenziale del tasso di profitto. Orbene: grazie ai progressi tecnici e agli aumenti di produttività, il peso del capitale fisso non ha soffocato il profitto, perché l’accumulazione ha trovato sinora nuovi ambiti in cui dispiegarsi. Il che peraltro non vuol dire che la teoria del calo tendenziale del tasso di profitto sia completamente da abbandonare, perché le imprese oggi tendono a perdere anche su mercati stagnanti, o soggetti a una concorrenza selvaggia, quel che guadagnano grazie alla compressione dei salari.
Lei diceva un istante fa che le condizioni di esistenza dei lavoratori sono oggi assai diverse da quelle che erano alla fine del XIX secolo. Vuole con ciò dire che oggi non esiste più una classe operaia? Né classi sociali?
Ci sono sempre delle classi sociali, e la classe operaia continua a rappresentare in Francia circa sei milioni di persone. (Si noti, in compenso, che negli anni Sessanta c’erano ancora all’Assemblea nazionale un centinaio di ex operai fra i deputati, mentre oggi sono solo tre o quattro). Ma per esistere in quanto classe non basta esistere “in sé”. Bisogna anche esistere “per sé”. A scomparire non sono state le classi sociali, ma la cultura di classe e lo spirito di classe.
Il “genio” del capitalismo moderno è consistito nel frammentare tutte le categorie sociali “pericolose” attraverso nuove divisioni, per lui inoffensive. Viviamo in una società che è nel contempo sempre più frammentata eppure sempre più omogenea nelle aspirazioni e nei valori. Vi è stata un’epoca, non così lontana, in cui ogni ambiente sociale aveva il proprio modo di vedere il mondo, la propria cultura, a volte persino la propria lingua. La vita moderna ha soppresso tutto ciò. Il compromesso fordista si è tradotto in un imborghesimento generalizzato. Tutti vogliono più o meno le stesse cose, soltanto con più o meno mezzi per procurarsele. I figli della classe borghese hanno le stesse occupazioni del tempo libero di quelli della classe operaia. Vedono gli stessi films, ascoltano le stesse canzoni, hanno le stesse distrazioni, vogliono andare in vacanza negli stessi posti, frequentano gli stessi locali e via dicendo. Tutti amano Johnny Halliday, il rap, i programmi dei disk-jockeys, la Star Academy, Harry Potter e le play-stations. Anche qui, l’unica distinzione è causata dai soldi: si ha più o meno denaro da spendere, ma lo si spende nello stesso modo.
Esiste sempre meno una cultura caratteristica delle classi popolari, perché l’immaginario simbolico dell’intera società è stato convertito ai valori mercantili. Il modello antropologico liberale (l’uomo non è che un produttore-consumatore il cui comportamento normale consiste nel cercare sempre di massimizzare il proprio interesse pur impegnandosi nel consumare sempre di più) si è imposto nelle menti. La mimesi sociale e la logica del profitto hanno fatto il resto. Nell’era del capitalismo cognitivo e dell’economia “immateriale” dell’onnipotenza dei mercati finanziari e della dittatura degli azionisti, il pianeta si trasforma in un unico mercato, nel quale il capitale dispiega a piacimento le sue strategie.
Anche l’individualizzazione dei comportamenti e la crisi generalizzata delle strutture istituzionali (partiti, sindacati, chiese) svolgono però un loro ruolo. Nessuno ragiona più in funzione di un progetto collettivo che interessi la società globale. Le infermiere, gli insegnanti, i precari dello spettacolo manifestano per difendere le proprie condizioni di lavoro, ma la loro protesta non si estende mai ai lavoratori in generale. Manifestano esclusivamente per se stessi e smettono di mobilitarsi nel momento stesso in cui le loro rivendicazioni sono state più o meno soddisfatte. Anche i salariati vittime di un licenziamento arbitrario, di una delocalizzazione selvaggia o di un fallimento si mobilitano in maniera puntuale, senza mai manifestare solidarietà con il mondo del lavoro in generale.
Che significato dà esattamente all’espressione “classi popolari”?
Oggigiorno, le classi popolari non si riassumono più nella classe operaia. Esse, che ieri erano principalmente costituite da operai dell’industria, ma anche da contadini poveri (vivevamo ancora in una cultura rurale), oggi comprendono anche impiegati dei servizi, salariati del commercio, piccoli impiegati, personale badante, un proletariato del terziario disperso e privo di tradizioni di lotta, eccetera. Quindi non sono più omogenee. Vi sono forti differenze – addirittura più forti di trent’anni fa – tra coloro che pagano un affitto e quelli che sono riusciti a diventare proprietari di una casetta, tra gli urbani e i rurali (gli ultimi), i salariati del settore privato e quelli del settore pubblico, e così via. Ma i punti in comune rimangono più numerosi di quanto non si dica. Le classi particolari si caratterizzano in particolare per le piccole dimensioni del loro status sociale e professionale, per una minore sicurezza economica, eventualmente (ma non sempre) per una tendenza alla precarietà, per una certa lontananza da quello che Bourdieu chiamava il “capitale culturale”, vale a dire le risorse culturali socialmente vantaggiose.
Robert Castel non ha torto nel criticare la rappresentazione della società secondo uno schema dualistico che contrappone sommariamente da un lato un’ampia maggioranza di classi medie e dall’altro l’insieme dei poveri, dei precari e degli esclusi. Le classi popolari si distinguono in realtà sia dalle une che dagli altri. Da questo punto di vista, l’indiscutibile spostamento verso le classi medie indotto dal compromesso fordista è stato sicuramente sopravvalutato. Numerose opere pubblicate fino all’incirca la metà degli anni Novanta si sono impegnate nel descrivere la “medianizzazione” della società francese per effetto del consumo di massa, della diffusione dell’educazione pubblica (di fatto, assai spesso, una semi-acculturazione alla cultura scolastica), del fiorire dei servizi, eccetera. La credenza in questa “medianizzazione” è uno dei fattori che spiegano il modo in cui i partiti di sinistra si sono progressivamente separati dal popolo. Il movimento degli scioperi del 1995, i risultati realizzati dal Front national presso le classi popolari e, soprattutto, lo smacco di Lionel Jospin alle elezioni presidenziali del 2002 hanno condotto gli specialisti ad osservare la questione più da vicino. Il che li ha portati a riscoprire il peso demografico e sociologico di categorie che si erano date un po’ frettolosamente per scomparse.
Un altro errore, ben denunciato da Annie Collovald, consiste nel rappresentare le classi popolari come ambienti votati, adesso che il comunismo è scomparso, a lasciarsi sedurre dalle sirene del “populismo”. In questa ottica, il “populismo” serve da comodo spauracchio per screditare le classi popolari, descritte come particolarmente permeabili alle idee semplicistiche, xenofobe e autoritarie, e per legittimare la frattura esistente tra i grandi partiti “di governo” e il popolo. I sondaggi mostrano che, in realtà, il Front National nel corso degli ultimi vent’anni ha raggiunto un duplice elettorato, nel contempo popolare e piccolo-borghese, e che è stato soprattutto il suo elettorato piccolo-borghese (che alle ultime elezioni presidenziali si è spostato in massa su Nicolas Sarkozy) a trarre lauti profitti dall’“ideologia” semplicistica che generalmente è addebitata al populismo.
Lei ha spesso insistito sulla natura ambivalente del Lavoro. Nel contempo alienazione e fonte di legame sociale, la sua trasformazione ha provocato notevoli sconvolgimenti nella società attuale. Quali dovrebbero essere, secondo Lei, il suo posto e la sua natura in un’attività umana liberata dagli imperativi del profitto? Il mondo del lavoro continua ad essere ancor oggi la prima vittima del Capitale?
Ho spesso criticato l’ideologia del lavoro, perché credo che non vi sia niente di “naturale” – e ancor meno di “morale” – nel fatto intrinseco di lavorare. Hannah Arendt e molti altri autori hanno ricordato che il lavoro era considerato nell’Antichità un’attività inferiore, che aveva a che fare con la sfera della necessità, opposta a quella della libertà. I greci, è vero, collocavano la vita contemplativa su un piano superiore anche a quello della vita activa, ma distinguevano anche il lavoro da ogni sorta di altra attività e occupazione. Nelle culture monoteiste, viceversa, il lavoro assume una connotazione positiva, per ragioni essenzialmente morali: in conseguenza del peccato originale, l’uomo deve “lavorare con il sudore della fronte” e il lavoro è un dovere né più né meno del digiuno o della preghiera. Tuttavia, il lavoro nel senso moderno del termine, cioè fondamentalmente il lavoro salariato, si imposto in Europa solo progressivamente, e non senza scontrarsi con fortissime resistenze. Non si è mai completamente liberato della propria costitutiva ambiguità. Per un verso, il lavoro rappresenta un’incontestabile alienazione; per un altro è stato percepito anche come una “liberazione”, o addirittura una “redenzione”. Sia la sinistra che la destra hanno del resto partecipato, ciascuna con i toni che le erano propri, all’esaltazione del lavoro. Infine, mi guarderò bene dal dimenticare che il fatto di aver posseduto uno status di lavoratore all’interno del sistema produttivo ha svolto un ruolo essenziale nella formazione dell’identità operaia.
A che punto ci troviamo oggi? La condizione salariale ha continuato costantemente a generalizzarsi, a causa in particolare della scomparsa della società rurale, il che fa sì che ciascuno ne subisca ormai le costrizioni. Il lavoro continua ad essere uno degli ultimi punti di riferimento sociali, nel senso che continua ad apportare un’identità (al contrario della condizione del disoccupato, privato di qualunque identità sociale dalla propria condizione). Ma nel contempo il lavoro tende a diventare un genere raro, come testimonia la comparsa, nella maggior parte dei paesi occidentali, di una disoccupazione che non è più soltanto congiunturale ma strutturale, il che consente al capitale di accentuare la pressione al ribasso sui salari.
Nel contempo, si può dire che la Forma-Capitale non è mai stata così aggressiva e predatrice quanto lo è oggi. Il capitalismo del “terzo tipo” o “turbo capitalismo”, riallacciandosi all’epoca dei suoi esordi, ma ormai completamente mondializzato – ha infatti smesso di essere subordinato alla potenza delle nazioni –, ha messo in opera un po’ ovunque un programma di compressione dei redditi salariali, di rimessa in discussione (quando non di smantellamento) dei diritti sociali e di precarizzazione dell’impiego. Parallelamente, quello che merita il nome di crollo del sistema scolastico ha posto fine al miraggio dell’“educazione per tutti”, nonché al sogno sconsiderato dell’eguaglianza attraverso la massificazione e il livellamento. Infine, il fenomeno dell’esclusione segna un aggravamento della sorte di coloro che lo subiscono rispetto a quella che un tempo era l’alienazione di tipo classico. Ieri lo sfruttamento della forza-lavoro degli operai non impediva loro di essere integrati nella piramide sociale, magari al livello più basso. L’esclusione, invece, taglia puramente e semplicemente fuori dalla società. Ieri c’erano degli sfruttati, di cui però si aveva ancora bisogno (per sfruttarli, appunto); oggi ci sono degli “inutili”. Questo aggravamento segna un cambiamento di natura, non soltanto un cambiamento di grado.
L’avvento della società “a clessidra” consacra la fine della teoria del “riversamento” (Alfred Sauvy), secondo la quale i profitti accumulati al vertice della piramide sociale finiscono un giorno o l’altro per ridiscendere verso la base, migliorando così il livello di vita generale. L’esame dell’evoluzione dei redditi mostra che i poveri sono sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi – e che le diseguaglianze crescono anche tra le nazioni. Per i liberali, la disoccupazione non è altro che il risultato della pigrizia dei disoccupati (che “preferiscono ricevere sussidi” piuttosto che cercare un lavoro; per dirla più chiaramente: che rifiutano di accettare qualsiasi lavoro a qualunque livello di remunerazione) e di carichi salariali troppo elevati. Orbene: la moderazione salariale è la regola, ma l’impiego non è mai stato puntuale all’incontro. Oggi, la nuova idea dominante è che la “flessibilità” sarebbe il modo migliore per creare posti di lavoro. Questa idea, che non è granché nuova – corrisponde alla virtù di “adattamento” ausiliaria della selezione naturale nella prospettiva social-darwinista –, si diffonde con tanta più facilità in quanto adesso viviamo in un mondo “liquido”, come dice Zygmunt Bauman, cioè in un mondo dominato dai flussi e dai riflussi, e non da organizzazioni tradizionali di tipo burocratico o gerarchizzato. In questo nuovo contesto, i liberali continuano a spiegare la disoccupazione con un livello salariale troppo elevato e con il fatto che i disoccupati sono inutilmente indennizzati, il che li inciterebbe a non fare niente. Ma essi assicurano che, fra i fattori che impediscono la moderazione salariale, occorre ormai privilegiare le variabili istituzionali che rendono conto della “rigidità” del mercato del lavoro. Si suppone che queste variabili spieghino anche le differenze fra i tassi di disoccupazione esistenti da un paese all’altro. L’idea generale è che, per un dato livello di crescita, un paese potrebbe creare molti o pochi posti di lavoro in funzione unicamente del grado di regolamentazione del mercato del lavoro, il che è assurdo. Lo si vede molto bene oggi in Germania, che è uno dei paesi in cui da dieci anni a questa parte i salari sono stati più contenuti e la disoccupazione è più cresciuta. Le vere cause della disoccupazione vanno infatti ricercate innanzitutto sul versante di un’evoluzione generale della società, che consente di produrre sempre più beni e servizi con sempre meno uomini, poi su quello dello sviluppo dell’economia finanziaria a detrimento della produzione reale, infine su quello della crescita dei redditi da capitale e dell’ineguale distribuzione degli aumenti di produttività.
Se le classi sociali continuano ad esistere e se la Forma-Capitale non è mai stata così aggressiva, perché
non ci si rivolta?
Questo è il grande interrogativo. Naturalmente, si può sempre dire che la gente non si rivolta perché in fin dei conti non ha tante ragioni per lamentarsi della propria sorte. È una risposta ottimistica che certamente sentiremo fino a quando ci saranno della benzina nella pompa e dei prodotti negli scaffali dei supermercati. Ma se questo è vero, perché nel contempo si constatano tanti disagi affettivi, tante miserie materiali, tante sofferenze sociali? Perché i gabinetti degli psicologici non si svuotano? Perché c’è questo ricorso massiccio agli antidepressivi? Perché c’è questa visibile dispersione di energia, questa anomia collettiva, questo anonimato di massa, questa dissoluzione del legame sociale? C’è senz’altro un malessere nella civiltà, come diceva Freud.
Cionondimeno, è vero anche che tutti coloro i quali predicevano, ancora vent’anni fa, che una volta oltrepassato un certo livello di disoccupazione si sarebbe inevitabilmente assistito a una rivolta sociale violenta sono stati smentiti dai fatti. La spiegazione tradizionale è che essendo oggi la disoccupazione indennizzata, almeno durante un certo periodo, le condizioni della rivolta vengono per ciò stesso disinnescate. Un’altra spiegazione, più sottile, è che i disoccupati percepiscono se stessi come privi di tutto, compresa la capacità di mobilitarsi all’interno di una società nella quale non riescono ad inserirsi, tanto materialmente quanto psicologicamente. Io penso che le vere cause vadano ricercate più lontano.
Come rendere conto, ad esempio, del fatto paradossale che le categorie sociali che avrebbero “oggettivamente” più ragioni per rivoltarsi sono in pratica quelle che si rivoltano meno? Tutta una corrente della sociologia dei movimenti sociali si è confrontata con questo paradosso, prima negli Stati Uniti (F.F. Piven e R.A. Cloward), poi in Europa. I suoi lavori sono interessanti nella misura in cui rimettono in discussione l’idea perfettamente intuitiva, conforme al buonsenso, che postula un legame meccanico causaeffetto fra la presa di coscienza e la rivolta, o fra lo scontento e il rifiuto violento di ciò che lo suscita. Oggi sappiamo che il dominio o lo sfruttamento subito possono tradursi sia nella rassegnazione, nella depressione o nella somatizzazione, sia nella contestazione violenta, soprattutto quando questo dominio è in parte mascherato dall’orpello delle distrazioni quotidiane, e soprattutto dall’incapacità di coloro che ne sono vittime di considerarsi come un gruppo unitario, che ha un medesimo status sociale e interessi comuni. La “coscienza infelice” può così restare nel contempo una “falsa coscienza”, una coscienza alienata, e i suoi effetti possono esercitarsi anche negli strati più profondi dei corpi.
La maggior forza della Forma-Capitale è nell’aver fatto credere alla propria “naturalezza”. Tutte le grandi ideologie hanno cercato di far passare per naturali i propri fondamenti, allo scopo di fornire ad essi uno zoccolo di legittimità. Così l’ideologia liberale ha fatto credere prima che lo scambio mercantile è la forma naturale dello scambio (in contrasto, ad esempio, con il sistema del dono e del contro-dono), poi che la dinamica degli scambi mercantili produce del tutto naturalmente la formazione del capitale come rapporto di produzione e il capitalismo come modo di produzione. In questa prospettiva, l’espropriazione dei produttori e la trasformazione in merci delle condizioni e degli attori del processo di produzione vengono ormai considerate conseguenze inevitabili di una evoluzione “naturale”.
L’alienazione si definisce oggi più che mai come un fenomeno di falsa coscienza. Le persone hanno interiorizzato l’idea che, in fondo, non esiste alcun’altra società possibile. Sentono un profondo disagio nel vivere in questa società, ma ci vivono nell’ottica della fatalità. I più colti hanno in mente tutto ciò che si è cercato di fare in passato e non ha funzionato (o ha portato al peggio). Ne deducono che non c’è niente da fare, se non premere per ottenere qualche miglioramento marginale. Di conseguenza tutti sono diventati riformisti. Nel migliore dei casi, i salariati prendono parte a un vasto borbottio mal definito, un “ne abbiamo abbastanza” che si esprime nel “voto di protesta”, senza andare oltre. A ciò si aggiunga che non siamo più nell’epoca delle esplosioni, ma in quella delle implosioni. Nell’era della società igienista, festiva, asetticizzata, coloro che sono in profondo disaccordo con ciò che li circonda non cercano più di fare la rivoluzione. La loro ribellione si esprime piuttosto nel ritrarsi: si ritirano dal gioco. Nel migliore dei casi, si dicono che la vera vita è altrove e si sforzano di costruirsi un “altrove” a propria misura. Può essere l’avventura oppure il ritiro nel bozzolo.
Quanto tempo può durare tutto ciò?
Tutto quel che si può dire è che la storia è aperta – il che non significa affatto che tutto sia possibile in qualsiasi momento, ma semplicemente che non esiste uno stadio sociale storico che possa essere considerato definitivo. Oggi viviamo un’“epoca di acque basse”, come diceva Castoriadis. Non sarà sempre così. Ma il problema è che la domanda è condizionata anche dall’offerta, e l’offerta oggi si è singolarmente prosciugata. Il socialismo si è troppo a lungo orientato verso rivendicazioni puramente quantitative, che erano certamente legittime e necessarie, ma che non riassumono tutto ciò a cui l’uomo aspira. Quando il livello di vita dei più ha iniziato a salire, il movimento socialista si è trovato ad essere in parte disarmato. Nell’epoca del compromesso fordista, una parte della classe operaia ha barattato l’integrazione nelle classi medie con la rinuncia ad ogni mira rivoluzionaria. Inoltre, da quando il sistema sovietico è caduto, i partiti di sinistra non sono mai riusciti a superare la loro crisi d’identità. Il partito comunista e il partito socialista, dopo aver assistito alla scomparsa della propria base sociologica, hanno scelto di tagliare definitivamente i legami con il popolo e sono diventati uno (il Pc) un partito socialdemocratico, l’altro (il Ps) un partito social-liberale. Non riuscendo a trovare gli strumenti teorici per superare la disgregazione dei propri modelli di riferimento, la sinistra alla fine è capitolata senza condizioni, convertendosi all’economia di mercato. Anche se va detto che, sociologicamente parlando, si era già ingordamente riconciliata con il denaro! Questa capitolazione ha molto contribuito a diffondere l’idea secondo cui non esiste alternativa al sistema in vigore (il celebre “TINO”: “There is no alternative”. Nel contempo, essa ha completamente distorto le modalità teoriche e pratiche dell’azione politica di sinistra. Non proponendosi più di operare all’avvento di un’altra società possibile, la sinistra può coltivare unicamente l’ambizione di aggiungere un po’ di “coscienza sociale” ad evoluzioni considerate irresistibili. All’ultraliberalismo essa si accontenta dunque di contrapporre un “socialliberalismo” che ambisce a modificare un po’ la messa in opera delle evoluzioni in corso, senza più contestarne le fondamenta. Il riformismo finisce così per trionfare completamente, e con esso l’idea che si può solamente “sistemare” o riformare marginalmente una fuga in avanti che niente può veramente arginare. Questa deriva ha certamente aperto alla “sinistra della sinistra” uno spazio politico in cui alcuni attori più radicali cercano di insediarsi, senza però offrire altra alternativa se non un gioco al rialzo verbale di tonalità essenzialmente morale. Lo sproloquio di ultrasinistra coniuga una posizione “rivoluzionaria” immatura, una base sociale borghese, un ultraliberalismo in materia di costumi e di gara al rialzo moralistica con specifiche saltuarie mobilitazioni a favore di settori sempre più periferici della società. Non si trova, in questi gruppi, nessun vero programma, nessuna alternativa chiaramente definita, ma – come anche in molti altermondialisti – un discorso privo di contenuto, accoppiato ad una totale ignoranza di quello che è la politica. La maggior parte di essi si limitano a darsi da fare nell’assistenza “umanitaria”. I più “rivoluzionari” si interessano più al sottoproletariato che al popolo, ai marginali e ai “clandestini” che alla classe operaia, nella quale non credono più. Il loro errore è di credere che troveranno una forza rivoluzionaria di ricambio in quelli che Marcuse chiamava i “sinistrati del progresso”, improbabile categoria che oggi comprende soprattutto i lavoratori clandestini, il sottoproletariato, la “feccia” delle periferie e via dicendo. Si tratta di un grave errore strategico, perché il popolo si sente profondamente estraneo a questa categoria, di cui spesso condanna nettamente i modi di agire (il che si comprende facilmente, dato che ne è la prima vittima).
Un errore parallelo è rappresentato dal far consistere l’azione politica di sinistra nella difesa e nella promozione di modi di vita alternativi difesi dai gruppi ultrafemministi, dagli omosessuali, dai sostenitori della depenalizzazione della droga, il che la riduce al militare per un “liberalismo culturale” che, col pretesto di destabilizzare convenzioni e pregiudizi, esalta nella maniera “bo[rghese]-bo[hémienne]” ogni sorta di comportamento marginale, di cui si impegna a fare altrettante nuove norme. Questo modo di fare è l’erede diretto dell’edonismo borghese (che continua a coesistere con il borghesismo vecchio stile, austero e benpensante), se non di un libertinaggio antisociale che, in quanto tale, ha sempre profondamente scioccato la “common decency” popolare.
Ovviamente le cause di quel “trionfo” dell’ideologia liberale che Lei richiama sono molteplici. Una di quelle di cui si parla meno è la divisione dei suoi avversari che, prigionieri dell’obsoleta distinzione destra-sinistra, non riescono a (e assai spesso non vogliono) intavolare fra di loro un vero dialogo, per non dire poi delle azioni comuni che essi potrebbero altresì intraprendere. La Forma-Capitale costituisce oggi il centro del sistema esistente: questa centralità implica l’unione delle periferie che la considerano il nemico principale. Il rinnovamento del pensiero critico o “ribelle” è inoltre un’esigenza assoluta – anche se la questione dell’articolazione fra teoria e prassi oggi è diventata più complessa che mai. L’obiettivo è fare di tutto per favorire a tutti i livelli l’autonomia individuale e collettiva nei confronti della logica mercantile, rimediare allo scollegamento sociale, riabilitare l’impegno nella vita pubblica e la legittimità di un grande progetto di civiltà fondato su valori condivisi e sulla chiara consapevolezza di un destino comune. Ma nell’immediato la cosa più importante è sicuramente lottare contro l’idea che non esistano alternativa all’attuale modello di società, far capire alle persone che non stanno vivendo sotto l’orizzonte della fatalità. L’ho già detto: la storia continua ad essere aperta. Il “trionfo” dell’ideologia neoliberale, nella misura stessa in cui segna un apogeo, può anche significare l’inizio della fine. Sono sempre stato convinto che il sistema del denaro sarebbe stato ucciso dal denaro. Naturalmente, questo non è un buon motivo per limitarsi ad aspettare. L’attesa delle catastrofi non costituisce un programma. Lo spirito rivoluzionario consiste nel continuare sempre, costi quel che costi, a fare quel che si pensa debba essere fatto.
Tuttavia, oggi incontestabilmente vi è una certa indifferenza delle classi popolari alla politica, indifferenza incoraggiata da ogni sorta di fenomeni sociali ben noti (consumo, televisione, tempo libero ecc.). Questa indifferenza dimostra o che le classi in questione non si aspettano più niente dalla politica (non ci credono più), o che esse non considerano la propria condizione sociale tanto insopportabile da essere spinte a mobilitarsi. Le due ipotesi, d’altronde, non si escludono vicendevolmente, giacché le classi popolari, come ho già detto, oscillano frequentemente fra l’accettazione e l’interiorizzazione del dominio che subiscono e il voto di protesta che consente loro di manifestare contro di esso in maniera minimale. Comunque stiano le cose, è certo che le classi popolari sono oggi le peggio armate per cogliere la sostanza del gioco politico e prendervi parte, e dunque per conferire ai propri voti una portata conforme alla razionalità che è loro caratteristica. Cercare di rimediare a questo stato di cose, dando a questi ambienti non soltanto i mezzi per pesare sull’azione politica ma anche quelli necessari a dotarsi di un’unità simbolica che consenta loro di considerarsi una forza collettiva reale dovrebbe ovviamente essere l’obiettivo di un vero partito popolare.