Nietzsche e la questione dell’amicizia in rapporto alla solitudine
di Francesco Lamendola - 20/12/2010
L’amicizia, dice Aristotele nell’«Etica Nicomachea» (VIII, 1), «è una virtù o s’accompagna alla virtù; inoltre essa è cosa estremamente necessaria per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni»; e aggiunge che essa «è un’anima sola che vive in due corpi distinti».
Senza amicizia, dunque, non si dà l’essere umano nella sua reale natura, ma lo si mutila di una sua componente essenziale: impossibile concepire una vita che sia totalmente e irrevocabilmente priva del sentimento dell’amicizia; così come sarebbe impossibile concepire l’idea di un mare senza acqua o quella di un cielo senza stelle.
Ebbene, il più discusso, rivoluzionario e tuttora scomodo ed incompreso filosofo del XIX secolo, Friedrich Nietzsche, aveva un concetto altissimo dell’amicizia; ma ne aveva uno altrettanto sublime della coerenza nella ricerca della verità. Il primo lo spingeva verso i suoi simili con simpatia e delicatezza (non vi è traccia, in lui, di quel disprezzo per l’umanità che caratterizza, ad esempio, Machiavelli, Hobbes, Voltaire o Freud); il secondo lo respingeva verso la solitudine, non per amore o bisogno di essa, ma per l’impossibilità di condividere i suoi pensieri con alcuno che lo capisse. Perché, come abbiamo avuto recentemente occasione di notare, in un mondo di esseri umani divenuti troppo piccoli, è cosa difficilissima comprendere, o anche solo riconoscere alla lontana, la grandezza altrui.
E Nietzsche non ebbe tale fortuna: nessuno lo comprese, finché visse; moltissimi lo fraintesero, non appena la fama cominciò ad arridergli, quando già la sua mente si era smarrita e, poi, subito dopo la sua morte; e molti continuano a fraintenderlo ancora oggi, esaltandone o denigrandone, a seconda dei gusti e delle premesse, gli aspetti più superficiali e ambigui della sua filosofia, mentre il nucleo del suo pensiero non osano sfiorarlo nemmeno con un dito.
In Nietzsche vi è di tutto: la distruzione e l’elevazione, la bestemmia e la preghiera, lo slancio verso il Cielo e quello verso l’abisso. Le anime piccole, che vedono e giudicano secondo la loro misura, e quell’altra esecrabile categoria di inutili pedanti, i professori di filosofia, non riescono a scorgere se non l’aspetto più ”facile” ed appariscente; quello che, saltando a pie’ pari tutto il travaglio speculativo che sta dietro a certe frasi, a certi pensieri, a certi atteggiamenti, si presta alle volgarizzazioni ad uso degli spiriti pigri e conformisti, i quali fanno polpette della sua mirabile complessità e lo riducono a una grottesca caricatura, buona per tutte le stagioni e, soprattutto, per tutti i palati, purché decisamente grossi.
Lui stesso, del resto, lo aveva previsto; e non è forse su di un tale equivoco che si basa la fama attuale di Nietzsche, il più citato di tutti i filosofi moderni, le cui opere, però, ben pochi lettori si sono presi il disturbo di studiare e meditare a fondo? Sarebbe così noto, oggi, il suo nome, se la sua filosofia non fosse stata semplificata e schematizzata oltre ogni limite della decenza, sino a trasformarla in un minestrone indigeribile, che conserva ben poco della dimensione originale, ma, in compenso, offre la frasetta opportuna da citare per qualunque circostanza, anche all’individuo più digiuno e più negato alla pratica del filosofare?
Di fatto, basta dire «superuomo» (che, fra l’altro, è una cattiva traduzione dal tedesco di «oltreuomo», oppure «vivere pericolosamente»; basta - peggio ancora - tirar fuori un accenno alla «bestia bionda» o alla «volontà di potenza», e voilà, il gioco è fatto: anche l’ultimo degli asini, per il fatto di aver citato quel grande, si sente un po’ grande pure lui; ma senza averne capito, ovviamente, neppure un’acca.
Hanno voluto farne un precursore del nazismo e, più in generale, del totalitarismo statale: proprio lui, che diceva continuamente tutto il male possibile dei suoi connazionali; proprio lui che, spirito aristocratico per eccellenza, non sopportava nemmeno l’idea che l’individuo dovesse soggiacere alla volontà altrui. E tuttavia, non è stato proprio in base a simili giganteschi fraintendimenti, che il suo nome è diventato famoso anche tra la gente di modesta cultura? Con quale vantaggio per la reale conoscenza del suo pensiero, poi, questo è tutto un altro discorso…
Ma torniamo al discorso dell’amicizia e al suo inevitabile corollario, per le anime che si sono spinte troppo avanti: la solitudine.
È significativo il fatto che, quanto al crollo psichico finale di Friedrich Nietzsche, l’interpretazione cattolica e quella esoterica si trovino sostanzialmente d’accordo: il filosofo tedesco aveva teso al massimo le energie della trascendenza, negando ad esse, però, il loro sbocco naturale, al di fuori e al di sopra dell’io, e costringendole a viva forza entro l’orizzonte immanente dell’io stesso, ciò che ne causò una vera e propria implosione.
Tale è la lettura di due pensatori così radicalmente diversi fra loro, come il cattolico Gustave Thibon e il neopagano Julius Evola: eloquente convergenza, che testimonia di per sé, stante la pressoché totale divergenza dei punti di partenza, come sia questa, probabilmente, la più vicina al vero fra le numerose interpretazioni del dramma nietzschiano; dramma filosofico e dramma umano al tempo stesso, se è vero - come è vero - che pochi pensatori sono stati altrettanto soggettivi nella costruzione del proprio percorso speculativo.
Della lettura evoliana del “corto circuito” di Nietzsche abbiamo già parlato in varie sedi, fra l’altro nell’articolo «Superuomo o superfilologo? La critica di Soloviev allo Zarathustra nietzschiano» (apparso sul sito di Arianna Editrice in data 22/07/2008); ci resta da dire dell’altra lettura, quella cattolica, che, pur partendo da premesse antitetiche, giunge, e non per caso, a delle conclusioni molto simili.
Un elemento importante di cui è necessario tener conto, per meglio inquadrare il problema del collasso, speculativo ed esistenziale, di Nietzsche, è la sua condizione di estrema solitudine: a detta di una persona che lo vide negli ultimi anni, egli aveva in sé qualcosa di tremendamente alieno: sembrava venire «da una terra ove non abita nessuno».
Ebbene, quella solitudine non era cercata né desiderata e non era neppure il frutto di un difetto del carattere, quale ad esempio una eccessiva timidezza; bensì la conseguenza delle altezze “disumane” che il suo pensiero «abissale» aveva raggiunto. Come egli stesso aveva scritto profeticamente, in «Al di là del bene e del male»: «Chi lotta contro dei mostri, deve fare attenzione a non diventare egli stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te».
Ha scritto Gustave Thibon in «Nietzsche o il declino dello spirito» (titolo originale: «Nietzsche ou le déclin de l’esprit», Parigi, Fayard, 1948; traduzione italiana di C. Cumano, Alba, Edizioni Paoline, 1964, pp. 30-32):
«Nietzsche volle esser colui, nel quale “tutte le cose hanno l’ascesa e la discesa, il flusso ed il riflusso”. Il suo dramma sta essenzialmente in questo suo tentativo d’imitare Dio, non allo scopo d’unirsi con Dio, ma di mettersi al osto di Dio; sta in questa sua preghiera rientrata che diventa bestemmia. Nietzsche sdegna di seguir la via battuta dalla ragione e dalla morale, dove, dacché mondo è mondo, gli uomini si incontrano e si comprendono; e sdegna del pari d’invocare un Dio, il cui mistero e il cui amore trascendono la ragione e la morale umana. Così, sospeso fra terra e cielo, fra il “troppo umano” che l’opprime e il “sovrumano” ch’egli non ammette, fra il mondo che disprezza e il cielo che rifiuta, Nietzsche finisce a poco a poco con l’immergersi in un gelido, totale isolamento. Non si trova più al livello dell’uomo, ma neppure al di sopra dell’uomo; è un estraneo, un “alienus”, che da ultimo diventerà un “alienato”. La pazzia corona e suggella il suo destino, è la testimonianza estrema - e la più schietta - ch’egli potesse rendere del caos che racchiudeva in sé; e, com’egli stesso cantò quando già si trovava alle soglie della tenebra, “la sua settima ed ultima solitudine”.
Accade a volte che l’indicibile tormento di una tal solitudine gli faccia strappar via tutte le maschere, sotto le quali tentava di nasconderlo.
“Dalla più tenera infanzia fino ad oggi - scriveva alla sorella - non ho trovato mai NESSUNO che prenda parte alla mia angoscia di cuore e di coscienza. Mi son sento felice FINO AL RIDICOLO, ogni volta che ho trovato, o creduto di trovare, un angolino in comune con un altro uomo. Ho la memoria strapiena di mille ricordi umilianti, relativi a debolezze di tal genere, perché in certi momenti non resistevo più alla solitudine… Non ritengo affatto d’avere un carattere chiuso, dissimulatore, diffidente. SE LO AVESSI, NON SOFFRIREI COSÌ. Ma non a tutti è dato di poter comunicare quello che pensano, per quanto desiderio ne abbiano. E poi, occorre trovar chi sia atto a ricever comunicazioni di questo genere… Dove sono i vecchi amici, con cui una volta mi sentivo così intimamente unito? Si direbbe che oggi apparteniamo, loro ed io, a due mondi differenti, che non parliamo più la stessa lingua. Mi aggiro in mezzo a loro come un estraneo, come un reprobo; nessuno mi rivolge più una parola, uno sguardo… Sono forse creato per esser solo, per non aver nessuno con cui confidarmi? In verità, quello di non poter comunicare ad altri ciò che si pensa è il più tremendo degli isolamenti; esser diverso dagli altri vuol dire portare una maschera più rigida di qualunque maschera di ferro, perché non v’è perfetta amicizia, se non fra EGUALI. Fra EGUALI! Parola che inebria, parola che contiene tanta speranza, tanta soavità, tanta ineffabile gioia per chi è diverso e non ha mai trovato alcun altro che sia tagliato proprio per lui, benché egli sia un buon cercatore ed abbia esplorato molte vie! Talvolta egli ha conosciuto anche il rigurgito pericoloso e doloroso dell’angoscia repressa, delle ondate d’amore che spezzano le dighe. E ha conosciuto la subita follia di quei momenti, quando chi è stato solo gran tempo» apre le braccia al primo venuto, come ad un amico mandato al Cielo - per respingerlo con disprezzo un’ora più tardi, disgustato di sé, avvilito, dolorante della compagnia di se stesso, come d’una malattia. L’uomo di sentimenti profondi ha bisogno d’amici, se pur non ha un Dio. Ed io non ho né Dio né amici!”
Né Dio né amici. È questa davvero la suprema, l’irrimediabile solitudine. E Nietzsche, nel tumulto d’opinioni discordi che suscitò dopo morto, resta altrettanto sconosciuto, che nel silenzio che lo circondò quand’era vivo. Gli unici, forse, che possano romper la sua solitudine e diventargli amici sono gli adoratori di quel Dio che s’argomentò di sostituire con l’uomo. Son essi i soli che abbiano trovato quello ch’egli andò cercando a rinculoni: il centro assoluto, per cui l’uomo s’innalza al di sopra delle divergenze dei contrari.»
Nietzsche, dunque, anima ricca ed estremamente sensibile, non solo non disprezzava il sentimento dell’amicizia, ma se ne sentiva naturalmente un estremo bisogno: in quello straordinario documento che è la lettera alla amata-odiata sorella Elisabeth, confessa di averlo cercato in continuazione, fino a mendicarlo presso persone indegne, le quali, per un momento, gli erano sembrate anime elette che il Cielo stesso gli avesse inviato.
Il pensiero non può non correre, in particolare, all’amarissima esperienza del doppio tradimento di Lou Salomé e di Paul Rée: la bella russa fredda e ambiziosa e l’intellettuale ebreo intrigante e frustrato i quali, in apparenza, erano suoi devoti discepoli e confidenti, mentre in privato si scambiavano lettere di maligna complicità ai suoi danni e che giocavano crudelmente con i suoi sentimenti di uomo grande, ma affettivamente quasi disarmato, lusingati, forse, nella loro immensa meschinità, di poterlo abbindolare così facilmente.
È vero: l’amicizia - lo aveva già notato Aristotele - è un rapporto fra eguali; e Nietzsche, mano a mano che si inoltrava per il proprio arduo sentiero fra montagne sconosciute, rimaneva sempre più solo, perché nessuno dei suoi amici era in grado di stargli al fianco: quando un’anima intraprende un cammino del genere, ben raramente può avere il conforto di condividerlo con altri. Alla fine, non gli rimase intorno più nessuno; e, ironia del destino, quei pochi che ancora lo illusero di essergli, se non compagni, almeno fedeli discepoli, non erano che degli ambiziosi di pochissimo valore, ben decisi a farsi belli con le sue piume, ma senza rischiare nulla in prima persona.
Se esiste una lezione in tutto questo, abbiamo il diritto e anche, forse, il dovere di domandarci quale essa sia, per rischiarare a nostra volta il cammino di chi intraprenda la ricerca pura e spassionata della verità, abbandonando le facili certezze che si vendono a un tanto il chilo lungo le strade più battute dalla massa.
La solitudine inumana e, alla lunga, il tracollo psichico, sono dunque esiti inevitabili, una volta che ci si sia avviati con decisione lungo una tale strada?
A nostro avviso, ciò accade solo quando l’anima si fonda unicamente sulle proprie forze, in una sorta di delirio di onnipotenza che le fa credere di poter affrontare e superare qualsiasi ostacolo, solo con il proprio coraggio e con la propria forza di volontà.
È penosa la lettura di alcune pagine delle ultime opere di Nietzsche, come «L’Anticristo» o «Ecce homo», proprio per questo senso delirante di onnipotenza che le pervade, dietro il quale, però, si intravede con estrema chiarezza una disperata solitudine che sta portando al collasso la mente impavida di quell’uomo generoso e assetato di assoluto; di colui che aveva composto una delle poesie più intimamente e dolorosamente religiose che mai furono scritte in ogni tempo: «Al Dio sconosciuto».
Se una lezione vi è, dunque, nel suo dramma filosofico ed umano, ci sembra non poter essere che questa: quando l’anima si spinge troppo in alto, per potersi sostenere essa ha bisogno di aprirsi a una forza più grande di lei, che scenda dall’alto e la pervada; ma se, invece, si ostina a cercare ogni risorsa e ogni risposta dentro di sé, il suo stesso slancio finirà per sciogliersi al sole, come la cera sulle ali di Icaro: e ne seguirà una caduta rovinosa.
E non è questa, forse, la parabola dell’uomo moderno in quanto tale: cioè di noi tutti, così inebriati dalla potenza del finito - della ragione, della scienza, della tecnica - e così pericolosamente esposti al pericolo di smarrirci nella desolata, allucinante Terra di Nessuno, ove nessuna stella buona ci indicherà mai più il cammino?