Io e Cioran…
di Marco Iacona - 04/04/2011
Ha perfettamente ragione Mario Andrea Rigoni – che lo ha fatto conoscere in Italia – a scrivere che Emil Cioran oltre a essere l’anti-Sartre, è un autore che si legge, oggi, con un piacere particolare. Un piacere che sa di sfida, oramai vinta. Ed ha ragione anche perché, a cento anni dalla nascita (a Rasinari, in terra rumena, l’8 aprile 1911), Cioran non ha smesso di prendersi le rivincite sui mostri sacri della cultura europea, quelli che ingolfavano i corridoi dei palazzi del sapere, dettando “leggi” e “regolamenti” sulla scienza (politica) del saper vivere.
In principio furono Schopenhauer e Nietzsche, lo sappiamo bene. Sul «Corriere della sera» del 28 febbraio scorso, Rigoni ha posto Cioran in scia ai due grandi tedeschi, maestri della sostanza filosofica – vorremmo ben dire – e dallo stile comunicativo. Erano quelli i tempi nei quali, per dirla con Manlio Sgalambro, la filosofia aveva ancora qualcosa da esprimere. Sentiamo Rigoni: «Cioran affrontava i temi capitali dell’esistenza e del mondo col linguaggio più diretto e più chiaro, ripristinando la superba tradizione che si era perduta dopo Schopenhauer e Nietzsche. È ovvio, nello stesso tempo, che egli rimanesse estraneo alle mode culturali che negli anni Settanta e Ottanta furoreggiavano in Francia e in Europa: la linguistica, lo strutturalismo, la semiologia, la psicanalisi, il decostruzionismo, i cui esponenti o seguaci apparivano ai suoi occhi quanto meno segnati dalla superstizione della scienza e dalla maledizione del’accademia».
Provocatorio, diretto, emotivo, spiazzante, tagliente e ironico. Cioran era interessato a ciò che alla maggior parte dei filosofi di professione non interessava granché: l’esperienza non mediata. Tradotto in Italia per Adelphi (una quindicina di volumi, originariamente in ottimo francese), i titoli dei suoi libri – già solo quelli – danno ragione a Piero Citati che su «Repubblica» del 24 marzo scorso lo descriveva come un uomo cacciato inesorabilmente dal Paradiso, e per sempre. Da Sommario di decomposizione del 1949 a La tentazione di esistere del ’56, da L’inconveniente di essere nati del ‘73 a Confessioni e anatemi dell‘87. Sono i libri di uno scettico, ma inizialmente bergsoniano, che bolla le utopie – quelle che “persuasero” il mondo – come nemiche della libertà, di un “cittadino” pensoso nell’era del nichilismo e del rifiuto della realtà. Aforismi e riflessioni tutt’altro che precipitosi, che sembrano nati dalla penna di un uomo plurisecolare. La lucidità della riflessione di Cioran si fondava, secondo Rigoni che con Cioran fu in contatto epistolare, proprio «sul carattere diretto e personale dell’esperienza, offerta come testimonianza intima e viva di un essere, anziché di una teoria astratta o di un esercizio professionale». Gli interessi del rumeno erano, in realtà, sterminati (dagli utopisti come Tommaso Campanella alle pietre miliari dell’Occidente letterario, come Dante Alighieri, e filosofico, come Immanuel Kant; fino a toccare le vette del Novecento heideggeriano, dopo esser passato per Kierkegaard), e questi e quelli diretti verso un singolo scopo: lo svelamento del soggetto più che la comprensione dell’oggetto. «Cioran era interessato assai più alla vita che alla filosofia; più alle cose che alle idee; più agli istinti e alle emozioni che ai concetti. In un’opera cercava soprattutto l’elemento personale…». E non disdegnava mistici, razionalisti e irrazionalisti.
Ma, ecco il punto. Quel “tutto” che lo spingeva alla ricerca delle stesse molecole del “tutto” non vantava nobili origini, ma era nato da una malattia (e da una malattia di Cioran: una terribile insonnia), dall’imperfezione e dalle inevitabili e conseguenti afflizioni. Per Cioran la scrittura non era testimonianza dotta, o misura di un convincimento ma, in modo esclusivo, era una medicina. Un rimedio che naturalmente non curava le sconfitte, cioè il vero foraggio di un pensiero che continuava a vivere solo attraverso i propri fallimenti (e mantenendo in vita colui che pensava). La casualità degli avvenimenti, poi, era la regola essenziale per Cioran, questo “fratello” dei grandi scettici del Novecento: dei sacerdoti dell’assurdo come Samuel Beckett e Eugene Ionesco, degli apostoli del vizio come Charles “Hank” Bukowski e dei missionari del “naufragio” come Woody Allen. Autori maledetti, pungenti dissacratori, apparentati a Emil Cioran, a volte in modo stretto a volte no. Nel 2004 Pier Paolo Ottonello inseriva il rumeno di Rasinari nel gotha degli “antiaccademici” e dei “maledetti” (Antiaccademici e maledetti, questo il titolo del libro uscito per Marsilio), insieme a Petr Kropotkin, Georges Sorel, Miguel de Unamuno, Giuseppe Rensi, Adriano Tilgher, Albert Camus, Lev Sestov, Gabriel Marcel e Carlo Michelstaedter. Tutti figli prediletti di Nietzsche. Vien da chiedersi (insieme a loro), se l’altro Novecento, quello degli irregolari, sia stato, in realtà, il vero Novecento, e il Novecento “ufficiale”, quello “normale”, soltanto un’anima sopravvissuta a se stessa.
I “fratelli” di Cioran (Allen è anche scrittore oltre che regista), possiedono il dono straordinario della doppia-valenza “Attacco” e “difesa”, parata e risposta, come nelle più eleganti delle discipline: la scherma. I signori dell’assurdo nel mondo moderno e i migliori anticorpi del mondo moderno… Narratori incoerenti che cercano e cercano Dio e poco altro; impacciati ma beffardi, perdenti ma mai senz’armi. Egoisti, insoddisfatti e delusi, in lotta con i giganti dell’Occidente da Sigmund Freud con figli e figliastri, a Karl Marx, fino ai discendenti legittimi. A volte ridicolizzano Nietzsche ma privi delle sue “martellate” sarebbero nati già morti. Sensibili fino alle più spiacevoli conseguenze, tutti al pari di Cioran «oggi, al culmine del disincanto», come scrive Rigoni, dei veri compagni di viaggio: a metà strada – ancora ambivalenti – fra il realismo esagerato e il guizzo provocatorio. Seguaci del nietzscheano “Dio è morto”, sono affratellati da un non so che di “beat” (che è sinonimo di “battuti”), e non cercano la felicità perché sono convinti che, nei tempi storici, non sia mai esistita.
La libertà non porta i pensatori maledetti – demistificatori se non dissacratori – verso forme di passatismo (non lo era una forma di passatismo, l’invaghimento giovanile di Cioran per i fascismi europei), o di adorazione verso mondi e tempi non conosciuti o conoscibili, luoghi romantici fra dei, folletti e scrittori dalla penna elegante. No, la libertà, percepita come nel Cavalcare la tigre evoliano in guisa di un attributo oneroso, ha guidato loro alle forme responsabili del costume libertario e di critica - acuta e intelligente - alle convenzioni e alle nevrosi del contemporaneo. La libertà ha condotto, sovente, alla più comune povertà che, al pari del “progresso”, è un “disturbo” dal quale è difficile rimettersi.
Profondamente soli, indifesi, silenti ma abituati al sorriso, i pensatori del Novecento maledetto (i puri anarchici), liquidano il mondo in poche battute (sovente al “ritmo” di Jazz, come i “Beat”, e Woody Allen), “predicano” l’anarchismo stirneriano e non si staccano mai dal suolo anche se conoscono mistici e spiritualisti a memoria. Gironzolano come corteggiatori assillanti attorno ai peccati capitali della nostra civiltà. Ionesco aveva compreso tutto: deficit di logica, incomunicabilità, inadeguatezza del linguaggio. In una parola sola, ancora, debolezza del pianeta borghese. I loro pensieri di morte, l’idea che anche il nulla possa, un giorno, finire, e quella variante mistica al nietzschenesmo per cui c’è un Dio autentico da conoscere, che non è quello che ha creato Adamo, dunque l’uomo, dunque la società, dunque il potere e tutto il resto, “derubricano” i nostri filosofi a pensatori poco adatti alla pedagogia del “buon cittadino”... Ha ragione Rigoni quando scrive che i “tifosi” di Cioran sono sovente fanatici? Certo, è probabile. Con formula diversa potremmo definirli però dei pretenziosi (o degli apoti), orgogliosi che l’“io” cerchi un’uscita dal tunnel del nichilismo.
Ma nei crucci del mondo moderno c’è spazio soltanto per l’uomo, per i dubbi che si autoalimentano (come in Cioran, appunto). E per null’altro. Il “Godot” di Beckett è quel “salvatore” che mai arriverà. “Aspettando Godot” è l’esaltazione del vuoto e dell’attesa. Attesa del nulla. Punto. Scritto negli anni Quaranta, è il manifesto della condizione umana in attesa di qualcosa o qualcuno che non verrà all’appuntamento: un misto di farsa, di tragicità e di non-senso; coi personaggi che annegano una volontà alla quale – anche qui – è impossibile dare direzione e significato. La cerca del “salvatore”… il punto cruciale rimane sempre quello. Ionesco lo cercò fino alla fine dei giorni… un chiodo fisso per il regista Allen, come Bukowski molto più cioraniano di quanto sia disposto ad ammettere. Allen è alla ricerca di un Dio-persona che possa (finalmente) rivelarsi all’umanità intera. Nel rifiuto alleniano della religione, nella sua celebre battuta su Dio: non so se esiste, ma spero che abbia comunque una buona scusa e in quella sull’attesa che Dio rilasci un’intervista c’è il rifiuto ironico, amaro, per tutto quello che è stato “creato” e il desiderio, la ricerca intima, segreta (forse inconscia) di un Dio finalmente “diverso”. Anche questo è Cioran ovviamente.
Ma il “salvatore” non è arrivato neppure nel quarto di mondo di Charles Bukowski. Un mondo fatto di gente che va e che viene, di donne consenzienti e di spiantati. Poco spirito e molta carne. Ma un mondo con una dignità mai perduta, nel quale tutti possiedono l’onesta volontà di fare, nel quale non c’è spazio per le inutili svenevolezze. Un mondo abitato da superuomini – sempre di quello si tratta – malfatti e aspri, in agrodolce. Ma di Dio nessuna traccia... Lo ha scritto Pietro Citati, lo ha raccontato Barbara Spinelli sulla «Stampa» quando è morto Cioran (a Parigi, il 20 giugno del 1995) il mondo (privato e) osservato da Emil Cioran, che odiava il potere, la fama, la gloria e che amava i lunghi tramonti ma non l’alcol, era un mondo “minuscolo”. Quasi una copia in cartacarbone del piccolo mondo crudele bukowskiano, ci va di aggiungere. Un guerriero dell’ironia e della penna. Un “militare in pensione” dell’esistenza, Cioran. Uno che aveva i coraggio di dire che: bé, sì Platone… ma volete mettere anche un buon disco di musica Jazz?
All’università uno così, l’avrebbero sicuramente bocciato.