Il crepuscolo dei filosofi nello sputtanamento del «copia e incolla»
di Francesco Lamendola - 22/04/2011
Certo non aveva in mente una cosa del genere, il buon Giovanni Papini, allorché, nel lontano 1906, dava alle stampe la prima edizione del suo celebre saggio «Il crepuscolo dei filosofi», impietosa stroncatura dei “grandi” maestri della modernità: da Kant a Hegel, da Schopenhauer a Comte, da Spencer a Nietzsche.
La sua era la critica, caustica ma brillante, di un geniale filosofo (oggi ancora non riconosciuto nel suo giusto valore) ad altri “colleghi” filosofi e si collocava, puramente e semplicemente, sul piano delle idee.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti della filosofia e molti baroni universitari hanno imparato a firmare e pubblicare massicci volumi che sono, in realtà - come tutti sanno, ma nessuno osa dire - il frutto del sudatissimo lavoro di stuoli di schiavetti, di assistenti, di studenti mobilitati e sguinzagliati per l’occasione, ai quali è stato fatto l’alto onore di concorrere alla gloria e alla fama imperitura del loro illustre docente.
E fin qui, tutto sommato, siamo ancora nel solco della tradizione, ossia di un costume che è considerato normale, almeno da un punto di vista giuridico e legale (forse un po’ meno sul piano etico, ma questo a chi importa ancora?).
Ma cosa direbbe oggi Papini, nell’epoca dei filosofi “copia e incolla”, che costruiscono ponderosi e redditizi volumi pescando a piene mani, senza citarle o citandole appena di sfuggita, nelle opere di altri filosofi, passati e presenti; arrivando a punte record dell’80, del 90 e addirittura del 95 per cento di materiale già utilizzato in precedenti opere altrui o anche, segno di una superiore professionalità bipartisan, in precedenti opere proprie?
Questo non è più un crepuscolo e non si colloca sul versante delle idee; è una cosa molto diversa: è uno sputtanamento, e si colloca sul piano della decenza professionale e del rispetto medesimo di quell’alta forma di attività che è il filosofare.
“Sputtanare”, dice il vocabolario Garzanti, è (in italiano volgare, beninteso, dal momento che deriva dal poco raffinato “puttana”), «smascherare, svergognare qualcuno, facendogli perdere la stima altrui»; meno bene lo Zingarelli, per il quale è «sparlare di qualcuno in modo da fargli perdere la reputazione, la considerazione degli altri», dove però si perde il concetto di “smascherare” e quindi di portare a galla una verità nascosta, che è altra cosa dal dare sfogo a una mera calunnia.
Viene sputtanato, dunque, colui che spaccia per farina propria quella che è di altri e che lo fa dall’alto di una posizione importante, da una cattedra universitaria, dai caratteri di stampa di una grossa casa editrice (imbarazzante, poi, la posizione di quelle case editrici che hanno pubblicato sia l’autore che la vittima dei plagi).
Uno studente che cerca di copiare il compito di latino o di matematica e si fa beccare dal professore, subisce una umiliazione, ma non uno sputtanamento, perché lui non copiava per farsi bello, ma per salvarsi, riconoscendo di non sapere; ben altro è il caso di un intellettuale che sia solito farsi bello con le penne altrui, senza pudore e senza vergogna.
Stiamo parlando di una prassi sistematica, ovviamente, e non di un incidente di percorso, di uno scivolone occasionale che può capitare, a determinate condizioni, se non proprio a chiunque, certo a parecchi e che non deve scandalizzare più di tanto, a meno di essere degli ipocriti moralisti sempre a caccia delle debolezze altrui.
Stiamo parlando di un vizio, insomma; di un comportamento recidivo.
E stiamo parlando di intellettuali che spopolano, come si usa dire, allorché vengono invitati a un pubblico dibattuto: sale piene, centinaia di persone che fanno ressa per sentirli, per applaudirli, per sentirsi tutti quanti un po’ filosofi e vivere di riflesso un pochino della loro gloria, della loro intelligenza.
Che tristezza.
Chi lo avrebbe detto che le insospettate possibilità (e relative tentazioni) offerte da Internet e la disinvoltura dell’industria editoriale, sempre più industria e sempre meno cultura, sommati al cinismo di certi intellettuali à la page, debitamente illuministi e progressisti (o magari anche anti-illuministi, ma non importa, ormai tutto è diventato uguale a tutto e non ci si capisce più nulla, o meglio, i comuni mortali non ci capiscono più nulla, perché i maestri capiscono tutto fin troppo bene), ci avrebbero portati a siffatti, sconcertanti esiti?
Eppure, lo avevamo già visto, e continuiamo a vederlo, con l’industria dei falsi d’autore nel campo della pittura: come distinguere un vero da un falso Van Gogh, un vero da un falso Renoir? E come non ricordare la beffa pseudo-intellettuale delle false sculture di Modigliani, spacciata come ultimo ritrovato della critica all’arte che non è più arte?
Certo, qui siamo in un campo più sottile. «In fondo, mancavano solo le virgolette», si difendono gli interessati alla pratica del copia e incolla; una semplice svista, complice un po’ di fretta, un po’ di entusiasmo creativo: tutto qui; che c’è di male?
Certo: che c’è di male a citare brani su brani di altri autori, magari a citarli due volte parlando di autori diversi, al punto che il lettore non capisce più se si sta parlando dell’uno o dell’altro? Che c’è di male a saccheggiare impunemente i pensieri di altri e a farli passare per propri, oppure a copiare se stessi, riproponendo più volte, ma in libri diversi, le stesse frasi, le stesse pagine, senza segnalare la cosa al lettore, soltanto accumulando volumi imponenti fatti all’ottanta o al novanta per cento di materiali riciclati?
In fin dei conti, la cultura ecologica ci insegna che è male sprecare qualsiasi cosa; dunque, perché mai non si dovrebbe fare con la filosofia la stessa cosa che si fa con la carta, con il vetro, con la plastica, con i rifiuti alimentari: vale a dire riutilizzarli, anziché disperderli inutilmente nell’ambiente, dove non serviranno a nessuno, una volta che abbiano fatto il loro percorso; mentre, così, possono rendere un servizio a tante più persone?
D’altra parte, confessiamolo, si prova un invincibile pudore, un imbarazzo più forte di se stessi, a parlare di simili cose: ci si sente più imbarazzati del professore che ha beccato lo studente mentre copiava il compito di latino. Sì, perché il vero professore si sente più imbarazzato dello studente; e, anche se deve prendere dei provvedimenti, lo fa molto a malincuore: non è mai bello sorprendere qualcuno che sta barando e umiliarlo con una sanzione; non fa mai piacere a nessuno. Se un insegnante vi prova del piacere, allora crediamo che farebbe bene a cambiare mestiere, perché ciò che dovrebbe provare sono tristezza e disagio, non certo soddisfazione.
E così, anche gli intellettuali furbastri che vivono sulla pratica del copia e incolla potrebbero facilmente farla franca; gli Italiani, in particolare, sono un popolo che perdona volentieri, a tutti: ai politici corrotti e disonesti, agli amministratori mafiosi e clientelari, agli imprenditori evasori e inquinatori, ai lavoratori dal certificato medico facile, ai pensionati coi santi in paradiso e agli invalidi che stanno benissimo in salute; persino ai pluriomicidi che, se fanno i bravi in prigione (magari dopo aver strangolato un paio di compagni di carcere), se ne vengono fuori e usufruiscono dei domiciliari, come niente fosse.
E allora, perché non perdonare anche gli intellettuali cialtroni e truffaldini, che si fanno belli con la fatica d’altri? Dopo tutto, non hanno mica ammazzato nessuno, loro; tutt’al più, sono stati un po’ imprudenti, un po’ superficiali: ma insomma, si tratta pur sempre di peccati veniali, commessi senz’altro in buona fede.
E poi, per ognuno di loro che viene colto in flagrante, ce n’è subito un altro che corre prontamente in suo soccorso: lupo non mangia lupo e parlamentare non incrimina parlamentare, figurarsi i baroni universitari: lo stiamo vedendo anche in questi giorni, con lo scandalo che imperversa a Ca’ Foscari, dove un ex sindaco di Venezia, anch’egli filosofo d. o. c., rigorosamente laico e progressista, si è precipitato a difendere il collega inquisito, bollando come “idiozie” le accuse, peraltro documentatissime, nei suoi confronti.
Anche perché da noi, come sempre, si finisce per buttare ogni cosa in politica et voilà, il gioco è fatto: nessuno è colpevole perché sono tutti un po’ colpevoli e tutti un po’ innocenti; se il giornale di destra se la prende con l’intellettuale di sinistra, è perché vuol colpire il giornale di sinistra sulle cui colonne scrive puntualmente quel signore; cioè per spuntare una delle lance del partito antigovernativo, che, insieme ai giudici comunisti, se non addirittura brigatisti, non la smette un minuto di azzannare il Re Buffone, pardon, volevamo dire l’Uomo della Provvidenza.
Insomma non importa quello che hai fatto, importa piuttosto di chi sei amico e di chi sei nemico; anzi, importa in primo luogo di chi sei amico, perché allora si capirà cosa c’è dietro (Italia, regno beato della Dietrologia) e si potrà smascherare l’ignobile congiura dei nemici che, per colpire il Re Buffone, se la prendono con gli intellettuali dell’opposizione.
Insomma, una palude appiccicosa e inestricabile, in cui si resta impigliati peggio che l’uccellino nel vischio; e più ci si sforza di liberarsene, più si finisce imprigionati.
Sono cose da pazzi e che all’estero, giustamente, vengono giudicate esattamente per quello che sono: cioè, alla lettera, cose da pazzi oppure da cialtroni; cose che possono accadere solo in una società che abbia perso ogni rispetto per se stessa, per l’idea di una giustizia e di una morale che stanno al di sopra delle zuffe e delle meschinità di fazione.
Una società dove la Cultura del Sospetto, figlia malata dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento (Marx, Nietzsche, Freud), sta ancora facendo danni apocalittici, perché nessuno ha pensato di dire ai valorosi combattenti che la guerra è finita da un pezzo e che, se qualcuno ha ancora voglia di menar le mani (o la penna), allora che abbia almeno il coraggio di dire chiaro e tondo che lo fa per conquistare o per difendere la sua poltrona, la sua cattedra, i suoi emolumenti e non certo per qualche nobile e disinteressata ragione ideologica o morale.
Sia come sia, la parabola dell’intellettuale specializzato nella tecnica del copia e incolla dovrebbe insegnarci almeno una cosa: che il filosofo dei grandi numeri (grande casa editrice, grande pubblico, grande tiratura di copie vendute) è soggetto alle stesse tentazioni e debolezze di qualsiasi altro mortale; con l’aggravante, certo, che la sua professione di esercizio disinteressato del pensiero avrebbe pur dovuto insegnargli qualcosa in proposito e, se non altro, evitargli di fare certe figuracce, che vedrebbero sprofondare sotto terra persone con meno pelo sullo stomaco.
Certo, può accadere al filosofo, esattamente come al musicista, al pittore, al poeta, che la sua vena creativa si esaurisca; e allora? Forse che egli deve sempre sfornare delle opere inimitabili, a getto continuo, come l’operaio alla catena di montaggio che sforna senza tregua i pezzi dell’automobile, belli e pronti per l’assemblaggio?
Già, perché il guaio è proprio questo: una volta entrati nel circuito dell’industria editoriale, bisogna produrre sempre, sempre, senza fermarsi mai. Il musicista deve seguitare a comporre opere sublimi, il pittore deve continuare a dipingere capolavori, e così via; e il filosofo di successo, si sa, deve continuare a scrivere best-sellers filosofici a getto continuo. Deve farlo con la stessa frequenza con cui un certo scrittore ed ex semiologo famoso, una volta all’anno, con precisione cronometrica, immette sul mercato il suo ultimo volume: già destinato in partenza, prima ancora che qualcuno ne abbia rotto il cellophane che lo custodisce, alle zone alte nella classifica dei più venduti…
Dunque, di che stupirsi?
L’Italia è il Paese degli eterni longevi o meglio, come dice il giornalista e scrittore Edmondo Berselli, delle Giovani (e meno giovani) Promesse, dei Soliti Stronzi e dei Venerati Maestri: una Casta di intellettuali veri e finti che si odiano, si temono, si corteggiano, si fanno mille sgambetti, ma che, poi, vanno tutti a mangiare nella stessa trattoria, alla faccia di chi non c’è.
L’Italia è diventata il Paese dove nessuno più arrossisce: né il politico sorpreso a mentire, né il pubblico amministratore sorpreso a rubare, né l’ufficiale dei servizi segreti sorpreso a complottare, depistare, intralciare il corso della giustizia. Perché dovrebbe arrossire un intellettuale sorpreso a scopiazzare?
In Germania, un ministro si è dimesso per molto meno; ma noi siamo più furbi dei Tedeschi, no?