Decrescita e anticapitalismo
di Eugenio Orso - 04/05/2011
Titolo originale: Il programma decriscista latoucheano delle otto erre. La nona erre: Rienergizzare dopo il nucleare
L’attuale programma decriscista si può sintetizzare nel cosiddetto programma delle otto erre di Serge Latouche, che a detta dello stesso economista, filosofo ed antropologo francese non è un vero programma politico immediatamente operativo – lo scrivente ha avuto modo di ascoltare in un paio di conferenze il padre del decriscismo, che spiegava il significato delle otto erre premettendo di non essere un politico, e se ne è reso perfettamente conto – ma rappresenta principalmente una serie di pratiche necessarie, le quali per avere successo e produrre effetti positivi dovranno essere largamente condivise, onde tracciare la via per una decrescita conviviale e pacifica.
La scommessa della decrescita che si accompagna alle otto erre, è frutto dell’articolata riflessione di Latouche ispirata dalla lezione di maestri come Illich e Gorz, ed ha, per stessa ammissione dell’intellettuale francese, la forza positiva e concreta dell’utopia per una decolonizzazione gli immaginari invasi dal mito del progresso, che si sostanzia nella crescita illimitata capitalistica, nonché per la costruzione di un’altra società possibile.
Ma la società della vera decrescita è di là a venire ed oggi i suoi lineamenti sono ancora incerti, vaghi, indefiniti.
Con le parole dello squisito professore francese:
Il progetto di costruire una società della decrescita dunque è un'utopia, un'utopia nel senso concreto e positivo della parola che è un altro mondo possibile. Ho proposto di realizzare questo progetto attraverso uno schema delle otto "R": Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Ogni volta che faccio una conferenza c'é qualcuno nella sala che mi dice: "Lei ha dimenticato una R molto importante, si deve anche reinventare la democrazia". Un altro mi dice: "Si deve ri-cittadinare". Il concorso è aperto, si possono aggiungere molte altre R. [Intervento di Serge Latouche nel seminario sulla decrescita organizzato giovedì 4 ottobre 2007 dalla commissione cultura della Camera dei deputati]
Ci si deve porre una domanda, innanzitutto: è questo un programma che potrà esse realizzato, ed è un’utopia destinata ad avere effetti concreti, ed in caso di risposta positiva, con quali tempi?
Lo voglia il cielo, naturalmente, poiché la realizzazione di questo programma risparmierebbe una lunga serie di [prevedibili] lutti ed orrori all’umanità, ma, purtroppo, c’è da temere fondatamente che se così sarà, la cosa richiederà tempi molto lunghi, tempi storici che molti fra coloro che vivono oggi non vedranno.
La realizzazione di un simile e straordinariamente ambizioso programma, pur nella sua apparente semplicità, implica un cambiamento culturale e di prospettiva che sembra essere ancora in una fase pre-embrionale, nel mentre la situazione può precipitare da un momento all’altro, dal punto di vista ambientale come da quello sociale e politico.
Sul fatto, poi, che si deve reinventare la democrazia superando l’inganno liberaldemocratico, non si può che essere completamente d’accordo, poiché la liberaldemocrazia fondata sull’istituto della rappresentanza altro non è se non il miglior compendio politico del capitalismo finanziarizzato globale contemporaneo, e quindi un supporto al suo distruttivo sviluppismo, ma andrebbe chiarito molto bene che questa reinvenzione non può avvenire se non nel quadro di un radicale cambiamento, prima di tutto culturale e negli immaginari delle persone, che Serge Latouche ha cercato di sintetizzare con semplicità nelle otto erre, porgendoci alcune, ancora insufficienti indicazioni di larga massima, che però potrebbero già avere qualche riflesso concreto.
Su ciascuna delle singole erre si può ovviamente discutere.
Ci si può chiedere, ad esempio, fino a che punto sarà possibile rilocalizzare e quali saranno i costi umani, sociali ed ambientali della rilocalizzazione, e soprattutto se, una volta “rotte le uova” lasciando che il capitale dilaghi liberamente in ogni parte del mondo [come il tuorlo, fuori del guscio, che si espande con l’albume sul fondo del pentolino], si potrà tornare a loro, riattivando tutte le produzioni locali necessarie alle comunità, poiché la delocalizzazione capitalistica ha sottratto non soltanto posti di lavoro e impianti, ma anche know-how e saperi, ed ha riversato nei paesi “beneficiari” dell’ex terzo mondo sfruttamento intensivo del lavoro, inquinamento delle acque e del suolo, provocando la distruzione, che pare in molti casi irreversibile, delle tradizionali forme di sussistenza.
Lo stesso professore francese ha precisato che il suo programma è aperto ad ulteriori implementazioni, con le erre che potrebbero diventare dieci od anche di più, ed ha confessato che non essendo lui un politico, quello delle otto erre non è un vero programma politico, immediatamente applicabile sul terreno dell’economia e nella complessità dei rapporti sociali dell’epoca.
Leggendo queste pagine, si dirà che chi scrive è certo un po’ critico, ma anche particolarmente “tenero” nei confronti dei decriscisti, animati dall’idealismo e da slogan non ancora tradotti in concreti programmi, ma è certo che si tratta di sinceri anticapitalisti – a partire dal principale teorico, Serge Latouche, e dal suo “interprete” italiano, Maurizio Pallante – i quali cercano di fondare la loro rivoluzione sulla conservazione dell’ambiente e su dimensioni non economico-crematistiche dell’esistenza e del progresso.
Inoltre, chi scrive condivide in linea di principio l’antisviluppismo decriscista, poiché si tratta di una giusta reazione all’illimitatezza capitalistica che tutto fagocita in sé, creando un valore fittizio a beneficio temporaneo di pochi con danni permanenti cagionati all’uomo, alla stessa specie umana in quanto tale, e all’ambiente naturale dal quale non si può prescindere.
I decriscisti devono però comprendere, bene e in fretta, che i nuovi agenti storici del capitalismo riuniti nella Global class non si faranno da parte volontariamente, per pura liberalità ed una ritrovata coscienza ecologica e sociale, rinunciando al comando e ai loro smisurati privilegi senza colpo ferire, ma dovranno essere estromessi, se necessario, “con le cattive”, e ciò potrebbe implicare l’inizio di una lotta asimmetrica lunga e dura, senza che si possa escludere a priori l’uso delle armi.
La Decrescita – quella vera, naturalmente, non quella forzata e indotta dalla crisi strutturale, del tutto interna alla dinamiche capitalistiche – se avrà qualche possibilità di affermarsi, potrà diventare una tappa rivoluzionaria e trasformativa nel lungo percorso emancipativo di liberazione umana, ed in effetti così pare che sia, implicando l’uscita dal capitalismo attraverso la demolizione del mito del progresso, tradotto nello sviluppo illimitato e concretamente in distruzione ambientale e diffusione dell’iniquità sociale.
Ma un vero programma politico che si armonizza con lo spirito decriscista non potrà che avere origine dalla prassi e dallo sviluppo di ipotetiche lotte future anticapitalistiche [cruente o non cruente] per la decrescita e per la produzione di beni, utili alle comunità umane e destinati a sostituire progressivamente le merci capitalistiche.
La positività del superamento del concetto di “merce capitalistica” è evidente per chiunque, poiché il dominio della merce è stabilito in primo luogo per garantire la riproduzione sistemica e la stessa sopravvivenza del capitalismo nei secoli a venire, in secondo luogo per favorire l’estensione del potere e del benessere materiale di una parte sempre più minoritaria dell’umanità, cioè degli agenti capitalistici oggi riuniti nella classe globale.
Di seguito si presenta il programma latoucheano delle otto erre, in una espressiva ma sintetica proposta di Osvaldo Pieroni al Forum delle ONG di Rio, tratto dal sito La Decrescita [http://www.decrescita.it/joomla/].
Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare.
Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la “diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale, infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione.
Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato.
Rilocalizzare. Consumare essenzialmente prodotti locali, prodotti da aziende sostenute dall’economia locale. Di conseguenza, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale, per bisogni locali. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti (infrastrutture, ma anche inquinamento, effetto serra e cambiamento climatico).
Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”.
Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto, l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque e dignitose.
Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”.
Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.
Sembra evidente che la riconcettualizzazione e la rivalorizzazione si riveleranno cruciali e renderanno possibile lo sviluppo del resto del programma, poiché il cambiamento culturale e generazionale è la condizione sine qua non per una ristrutturazione complessiva della società, per la ridistribuzione della ricchezza in uno spirito di equità, per la rilocalizzazione delle produzioni, per la riduzione dell’impronta antropica sul pianeta, per la stessa riutilizzazione diffusa dei materiali ed il riciclo degli scarti.
Una erre che si potrebbe aggiungere, dopo il grave incidente nucleare giapponese, è “Rivendere il modello energetico” o “Rienergizzare” il sistema con l’uso di nuove fonti non pericolose, che implicherebbe, se fosse veramente possibile farlo [ma non lo è di certo nelle logiche di questo capitalismo], un epocale spostamento di risorse a tale scopo, una riduzione benefica dei consumi planetari ed una riduzione dei tassi di sviluppo capitalistico, dal PIL mondiale al tasso di profitto.
L’avvento del nucleare ha rappresentato un momento di rottura storico nell'intera vicenda umana, dal paleolitico ad oggi, ed anche se alimenta le produzioni civili di beni di consumo rappresenta pur sempre un’arma capitalistico-elitista, anzi, l’arma capitalistica più inquietante e decisiva.
Impiegata una sola volta nei conflitti strategico-elitistici – le atomiche su Hiroshima e Nagasaki –, utilizzata come minaccia immanente durante l’equilibrio del terrore russo-americano, è tuttora impiegata nel conflitto verticale con i subalterni, cioè nella lotta di classe, sia pur in modo indiretto per garantire la sopravvivenza del sistema e l’estensione illimitata della produzione di merci.
Ma questa, a differenza della flessibilizzazione di massa, della precarizzazione del lavoro, della diffusione della stupidità sociale e della creazione finanziaria del valore, è un’arma assoluta e a doppio taglio, che in ogni momento può sfuggire al controllo, rivelandoci sostanzialmente due cose:
1) La fallacia dell’idea del progresso tecnoeconomico illimitato e le menzogne diffuse a riguardo delle cosiddette tecnologie “sicure”, con il pieno concorso di una scienza compiacente, soprattutto nel caso specifico delle tecnologie nucleari. L’insicurezza permane ed investe anche le tecnologie di quarta o di quinta generazione, che si vendono come sicure non essendo più quelle delle vecchi centrali nucleari giapponesi in agonia. La Pauper class, in quanto classe subalterna che subisce questo stato di cose, sembra non possedere ancora la forza per ribellarsi al dominio capitalistico, neutralizzandolo insieme alla minaccia rappresentata dal nucleare. L’atomo invece può “rivoltarsi” in qualsiasi istante, azzerando i contatori della crescita e spegnendo ad una ad una le luci di un mondo artificiale.
2) Una drammatica e concreta “democraticità” dell’arma nucleare elitistica – che resta un'arma anche quando serve, in apparenza, le produzioni a scopi civili dell’energia – poiché non fa distinzione fra le classi sociali umane e fra le stesse, differenti forme di vita che popolano la terra, colpendo allo stesso modo chi la subisce e chi la utilizza per scopi di dominio.
Il semplice ridurre i volumi di produzione complessivi, il riciclaggio degli scarti, lo stesso contenimento dei consumi ed i parziali risanamenti dell’ambiente, non potranno eliminare il pericolo incombente, se non si agirà sul modello energetico, dandogli una priorità assoluta e rivedendolo in modo radicale.
Nel nuovo modo di produzione sociale vigente, in questo caotico e tormentato inizio del terzo millennio, la nona erre di “Rienergizzare”, con riferimento all’intero modello di sviluppo capitalistico che ci è stato imposto, tende, perciò, a diventare prioritaria su ogni altra cosa, su ogni altra possibile riforma pensata all’interno del sistema stesso, ed anche al di fuori di questo, su tutte le altre erre del programma di Serge Latouche che seguono la riconcettualizzazione e la rivalorizzazione.
Fukushima è destinata a diventare un simbolo, e uno spartiacque, come è accaduto con Hiroshima?
Gli interessi della lobby delle tecnologie nucleari prevarranno su ogni altra considerazione, oppure saranno sconfitti?
O ancora, ci sarà un ritorno al carbone che non è certo un toccasana per l’ambiente?
Comunque sia, quello che è certo fin d’ora è che “Rienergizzare” il sistema, od anche rivedere da cima a fondo il modello energetico, quale nuova, possibile erre del programma latoucheano da porre in assoluta evidenza, non rappresenta soltanto un buon consiglio dato agli amici ed ai compagni decriscisti, ma soprattutto un’urgenza assoluta e una necessità per tutti, non escluso il nostro vero Nemico, cioè i membri della classe globale dominante.
Giunti a questo punto, ma senza alcuna pretesa di aver esaurito, con quanto è stato fin qui scritto ed analizzato, il complesso discorso relativo alla Decrescita e al doposviluppo, si possono già trarre alcune conclusioni di ordine generale.
E’ bene precisare, innanzitutto, che il contenuto rivoluzionario anticapitalistico delle idee di Latouche non può risiedere in alcun modo nella pacificità e nella convivialità fra gli uomini, che non sono possibili in questa situazione di affermazione totalitaria del capitalismo e di forti squilibri sociali, ma lo sono esclusivamente nel superamento concettuale e pratico della Merce e del Libero Mercato, per ottenere i quali sarà legittimo ricorrere alla centralizzazione rivoluzionaria ed anche a forme di lotta non incruente, riabilitando il concetto di “Dittatura come stato d’eccezione”, nato con la Roma repubblicana e ripreso dai giacobini, per poter gestire il passaggio dalla cosiddetta società di mercato ad un nuovo mondo implicitamente “decriscista”, ma soprattutto solidaristico e comunistico-comunitario.
E’ altrettanto evidente che per arrivare ad un completo superamento della Merce e del Mercato capitalistici seguendo una via più morbida, non rivoluzionaria e non cruenta, se mai si arriverà, ci vorrà tempo, molto tempo, un tempo che probabilmente – ahinoi, è proprio il caso di dirlo – non abbiamo più.
La conseguenza è che il pieno dispiegarsi della visione decriscista-latucheana e dei programmi che la animano non potrà che avvenire nel lungo periodo – se mai avverrà, come tutti noi dobbiamo comunque augurarci – sia che si affermi la via trasformativa rivoluzionaria, attraverso la lotta cosciente dei subordinati e dei popoli, sia che il mondo imbocchi la via, sicuramente più pacifica, di una lenta trasformazione culturale ed economica, per il completo superamento delle logiche capitalistiche distruttrici, merce capitalistica e imposizione del nucleare ivi comprese.