Ritorno alla guerra
di Giacomo Gabellini - 13/05/2011
Le elezioni americane vengono regolarmente seguite con grande attenzione dall'opinione pubblica europea, persuasa del fatto che la vittoria di un candidato a discapito dell'altro determini o sventi chissà quali stravolgimenti globali. Si tratta di una convinzione semplicistica e superficiale, che testimonia il successo della capillare e ridondante retorica democratica incardinata sui dogmi escogitati dai facinorosi stregoni dell'informazione, che dimostrano ogni giorno di più di aver tratto i debiti insegnamenti dalla lezione di Joseph Goebbels. Un'osservazione critica e disincantata sull'attuale stato delle cose dimostra infatti che la realtà sotto gli occhi di tutti non corrisponde affatto alle distorte e unilaterali narrazioni che vanno per la maggiore. Con il collasso dell'Unione Sovietica e del venir meno del Patto di Varsavia cadevano infatti le motivazioni attorno cui era imperniata l'Alleanza Atlantica, cui era delegato il compito di difendere l'Europa da possibili sconfinamenti sovietici. Nasceva così il pericolo che l'Europa prendesse atto dell'inaudito mutamento geopolitico appena avvenuto e che si svincolasse dall'abbraccio della NATO, ripudiando così la leadership statunitense. Il 7 novembre 1991, i rappresentanti dei sedici paesi aderenti alla NATO si riunirono a Roma per ridiscutere radicalmente i termini dell'alleanza che vennero resi espliciti in un documento recante le seguenti testuali parole: "Contrariamente alla predominante minaccia del passato, i rischi che permangono per la sicurezza dell'Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare (...). Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e perfino a conflitti armati, che potrebbero a loro volta coinvolgere potenze esterne o espandersi sin dentro i paesi della NATO". E' in quella sede che si gettarono le basi per una NATO slegata da vincoli territoriali, pronta ad intervenire ovunque nel mondo vengano messi in pericolo gli interessi occidentali. I paesi europei diedero il placet a questo progetto, a patto che l'Europa assumesse un peso maggiore all'interno dell'alleanza. Gli Stati Uniti non nascosero la propria contrarietà, ma giunsero in breve alla conclusione che le spinte di Francia e Germania alla formazione di un esercito europeo non avrebbero in nessun modo potuto intaccare il loro predominio assoluto nell'ambito della NATO. Nell'arco di tredici anni (1990 - 2003) l'Alleanza Atlantica è stata direttamente coinvolta nella Guerra del Golfo, in quella alla Jugoslavia, in quella all'Afghanistan e nella seconda Guerra del Golfo. Ogni intervento è stato dettato apertamente da logiche in tutto e per tutto funzionali al mantenimento o all'estensione dell'egemonia americana nel mondo e a evitare che l'Europa si affrancasse dal suo ruolo subalterno assurgendo a potenza concorrenziale. La NATO è stata e continua ad essere l'atto costitutivo fondamentale della subordinazione europea, ma non è l'unico strumento in mano agli abili strateghi di Washington, impegnati a tempo pieno a mantenere costanti le condizioni su cui si regge l'unipolarismo statunitense. I misteri legati all'11 settembre 2001 rimangono infatti ancora tali, ma l'evento in sé è stato il vero e proprio detonatore della sedicente "guerra al terrorismo", eufemismo edulcorante dietro il quale si cela una vera e propria "guerra infinita" che gli Stati Uniti hanno dichiarato in sordina al resto del mondo. Quando Bush tuonò: "Difenderò il nostro tenore di vista ad ogni costo", si reagì con generale freddezza. Ma quella dichiarazione si colora di una luce sinistra alla luce dei processi innescatisi negli anni del suo mandato e che stanno proseguendo senza intoppi sotto la presidenza Obama. Cina e Russia crescono e stringono accordi (Organizzazione per la Cooperazione di Shangai) nei quali coinvolgono importanti paesi produttori di idrocarburi e l'America Latina rinasce attorno all'asse Brasile - Argentina, crescono parallelamente anche la domanda di energia e sorgono numerosi minacce al predominio incontrastato statunitense. Se lo standard di vita degli americani non è in discussione, l'ascesa di tutti i paesi in questione diventa inaccettabile. Ed occorre fermarla in qualsiasi modo. Le esternazioni di Kristol e Kagan al riguardo non lasciano adito a dubbi: "La missione comincia a Bagdad ma non finisce qui (...), tutto ciò riguarda molto più che l'Iraq. Riguarda addirittura più del futuro del Medio Oriente e della guerra al terrorismo. Riguarda quale ruolo gli Stati Uniti intendono svolgere nel Ventunesimo Secolo". Se il turno di Afghanistan ed Iraq è venuto e quelli relativi ai paesi nordafricani sono in atto, è presumibile che quelli di Siria, Iran e così via siano prossimi a venire. La guerra esercita da sempre grossi stravolgimenti nei sistemi economici di tutti i paesi che vi sono coinvolti. Il keynesismo di Rooselvelt ne è un esempio eclatante. Parafrasando Von Clausewitz, la guerra diventa la continuazione non solo della politica, ma anche dell'economia con altri mezzi. Essa rilancia la produttività, spalanca giocoforza mercati prima preclusi, garantisce l'accesso diretto alle materie prime, ridisegna i rapporti valutari e riconfigura i rapporti di forza mondiali. Il massiccio ricorso alla guerra cui gli USA hanno fatto e stanno continuando a fare rispecchia la loro declinante capacità dissuasoria con tutti gli altri mezzi. Così come accadde all'impero britannico, allo stesso modo gli USA stanno trasferendo il "peso" del loro dominio dall'economia alle forze armate. Le disastrate condizioni economiche statunitensi hanno minato la loro credibilità internazionale e hanno spinto Washington ad abusare del potere coercitivo delle armi per garantirsi la possibilità di non saldare i debiti. Si tratta però di un circolo vizioso, poiché tanto più si fa leva sul potere bellico quanto più crescono le spese militari, con le parallele ripercussioni sul debito. Cosa che fa precipitare la loro credibilità internazionale ancora più in basso e li spinge a un autoritarismo ancor più marcato. In tutto ciò, il fatto che ancora oggi si creda che Barack Obama rappresenti un cambiamento effettivo rispetto a George Bush e non invece un arretramento tattico pienamente iscrivibile nella strategia generale di dominio statunitense è assai eloquente sullo spirito del tempo.